Meno grave dell’Alzheimer ma in combinazione con esso ne aggrava i sintomi. Un’inchiesta del New York Times

Per decenni, quando una persona anziana iniziava a perdere la memoria, la diagnosi sembrava quasi scontata: Alzheimer. Oggi però la ricerca scientifica, come fa notare un recente articolo del New York Times firmato dall’esperta di neuroscienze Pam Belluck, sta mettendo in discussione questa equazione automatica. Una forma di demenza riconosciuta solo di recente – chiamata LATE – sta modificando profondamente il modo in cui i medici comprendono, diagnosticano e potenzialmente trattano il declino cognitivo in età avanzata, LATE è l’acronimo di Limbic-predominant age-related TDP-43 encephalopathy: un nome complesso per indicare una patologia che colpisce prevalentemente le aree limbiche del cervello, quelle legate alla memoria e all’apprendimento. Secondo le nuove linee guida cliniche, pubblicate quest’anno, la LATE interesserebbe circa un terzo delle persone sopra gli 85 anni e circa il 10% di quelle oltre i 65. Numeri tutt’altro che marginali, che spiegano perché molti pazienti diagnosticati come affetti da Alzheimer potrebbero in realtà soffrire di questa diversa forma di demenza.

«In circa una persona su cinque che arriva nella nostra clinica, ciò che in precedenza sembrava Alzheimer in realtà appare come LATE», spiega il neurologo Greg Jicha. E usa una metafora efficace: «Sembra un’anatra, cammina come un’anatra, ma quando la ascolti non starnazza: grugnisce». In altre parole, i sintomi clinici possono essere molto simili, ma il meccanismo biologico è diverso.

Se presa da sola, la LATE tende a essere meno aggressiva dell’Alzheimer e progredisce più lentamente. «Questo può essere rassicurante per i pazienti e per le famiglie», osserva il neurologo Pete Nelson. Tuttavia, non esiste ancora una terapia specifica. Il problema più serio emerge quando la LATE si somma all’Alzheimer, una combinazione tutt’altro che rara negli anziani molto avanti con l’età. «Alzheimer più LATE è peggio di entrambe da sole: il declino è più rapido, più severo, con un esito più brutale», afferma Nelson senza mezzi termini.

Dal punto di vista biologico, la differenza è netta. L’Alzheimer è caratterizzato dall’accumulo di placche di amiloide e grovigli di tau. La LATE invece è legata a un’anomala aggregazione di una proteina chiamata TDP-43, già nota ai ricercatori per il suo ruolo in altre malattie neurodegenerative. In condizioni normali, questa proteina si trova nel nucleo delle cellule e regola RNA e DNA; nella LATE, però, fuoriesce e forma grumi tossici nel resto della cellula. Anche i sintomi clinici possono offrire indizi utili. La LATE compare in genere in età più avanzata rispetto all’Alzheimer e si manifesta soprattutto con problemi di memoria e difficoltà nel trovare le parole. L’Alzheimer, invece, tende a compromettere anche la capacità di pianificare, organizzare azioni complesse e può alterare il comportamento e l’umore. Un segnale distintivo della LATE è il marcato restringimento dell’ippocampo, l’area cerebrale cruciale per la memoria, spesso più pronunciato che nell’Alzheimer.

Le storie dei pazienti rendono tangibile questa distinzione. Ray Hester, 79 anni, era stato inizialmente informato di essere nelle prime fasi dell’Alzheimer. Un esame del sangue suggeriva la presenza di amiloide, ma una successiva PET cerebrale ha smentito la diagnosi: niente Alzheimer, ma LATE. «C’è un certo sollievo nel sapere che non è Alzheimer», racconta la moglie Sandy, ricordando la rapida e devastante progressione della malattia vissuta da altri familiari. Questa nuova consapevolezza ha anche conseguenze terapeutiche rilevanti. I farmaci anti-amiloide recentemente approvati non sono utili nei pazienti con LATE “pura”, perché non colpiscono il meccanismo biologico coinvolto. Nei casi misti, la decisione è più complessa. «Se l’amiloide non è il vero motore della malattia, ha senso esporre il paziente ai rischi di questi farmaci?», si chiede la neurologa Nupur Ghoshal.

Non è escluso, inoltre, che la presenza non riconosciuta della LATE abbia contribuito ai risultati solo modestamente positivi dei grandi trial sull’Alzheimer. «Forse i pazienti con Alzheimer “puro” rispondono molto meglio, ma l’effetto è stato diluito da chi aveva anche altre patologie», ipotizza David Wolk. Intanto, il primo studio clinico dedicato specificamente alla LATE è già in corso: si testa il nicorandil, un farmaco per l’angina usato in Europa e Asia, che potrebbe agire sui meccanismi genetici legati alla malattia e migliorare la circolazione nei piccoli vasi cerebrali.

Molte domande restano aperte: le cause precise della LATE sono ancora sconosciute, anche se il gene APOE4 – noto fattore di rischio per Alzheimer e patologie vascolari – sembra aumentarne la probabilità. Ma una cosa è certa: riconoscere che non tutte le demenze sono Alzheimer significa fare un passo decisivo verso diagnosi più accurate, cure più mirate e, forse, un futuro meno uniforme e più umano per chi affronta il declino cognitivo nella grande età.

SC, com.unica 31 dicembre 2025

Qui il link per leggere il testo integrale del New York Times

Condividi con