Il caso Jeffrey Sachs: quando la propaganda del Cremlino trova sponde nei salotti televisivi

Accademico di fama, oggi voce ricorrente della disinformazione filoputiniana e faro ispiratore di tutti coloro che cercano alibi per l’aggressione russa
Ci sono immagini che raccontano meglio di mille analisi la deriva del dibattito pubblico europeo. Una di queste è quella rappresentata dal volto in apparenza rassicurante di Jeffrey Sachs, ormai ospite fisso del talk show Piazzapulita su LA7, sempre accolto dal conduttore Corrado Formigli con deferenza quasi religiosa. E così puntualmente, davanti a un pubblico generalista, l’economista americano trasforma in opinioni colte quello che, parola per parola, ricalca lo spartito del Cremlino.
Sachs non è un commentatore qualunque. Professore di economia alla Columbia University, consulente ONU, architetto di piani di sviluppo globale: un’autorità indiscussa in materia economica e di cooperazione internazionale. Ed è proprio qui il paradosso. Il suo curriculum impeccabile diventa la maschera perfetta dietro cui si nasconde un messaggio tossico. Perché Sachs, da tempo, non parla più di economia: parla di geopolitica, e lo fa con la leggerezza con cui un Nobel per la letteratura potrebbe insegnare a costruire un ponte sospeso.
L’oracolo televisivo
In Italia, la sua parabola è diventata spettacolo televisivo. Le sue tesi vengono introdotte con enfasi, come rivelazioni destabilizzanti, e ripetute con la sicurezza di chi si sente dalla parte della verità. Il leitmotiv è sempre lo stesso: l’Europa è responsabile della prosecuzione della guerra in Ucraina, la NATO avrebbe provocato la Russia, le diplomazie occidentali avrebbero sabotato per tre anni ogni tentativo di trattativa.
Nell’ultima puntata di Piazzapulita, Sachs si è spinto oltre: è arrivato a ribadire persino – come già affermato qualche giorno fa alla festa del Fatto di Travaglio – che Emmanuel Macron gli avrebbe confidato che la colpa del conflitto è tutta della NATO. Una rivelazione che, se non avesse risvolti tragici, sarebbe comica. Macron che, davanti ai microfoni, invoca un’Europa della difesa e una posizione di fermezza contro Mosca, dietro le quinte si trasformerebbe in un complottista da circolo di periferia. Possibile che ci sia ancora chi prende sul serio simili affermazioni? Per fortuna, a ricordare la realtà c’era Paolo Mieli. Con poche parole ha riportato la discussione al dato di fatto ineludibile: il 24 febbraio 2022 non sono stati i carri armati della NATO a varcare i confini, ma quelli della Russia. È Mosca che ha bombardato città ucraine, massacrato civili, annesso territori con referendum-farsa. Ma nel gioco della disinformazione, i fatti contano poco: quello che conta è la capacità di insinuare il dubbio, di rovesciare la colpa.
Dal prestigio accademico alla propaganda
Non è un caso che Sachs sia stato spesso ospite delle televisioni russe, in compagnia dei più noti propagandisti del regime, dall’ideologo del Cremlino Aleksandr Dugin a Vladimir Solovyov, quello che quotidianamente minaccia l’Europa con toni apocalittici. Né sorprende che i suoi testi vengano rilanciati da bot e portali vicini agli apparati di Mosca. Sachs rappresenta l’ideale cavallo di Troia: un volto occidentale, apparentemente imparziale, che offre una narrazione “alternativa” degli eventi.
Il problema non è solo ciò che dice, ma chi lo dice. Quando certe tesi vengono pronunciate da Medvedev o da Lavrov, l’opinione pubblica occidentale in genere è portata a reagire con una certa diffidenza. Quando le stesse parole escono dalla bocca di un professore della Columbia, acquistano un’aura di rispettabilità, molto più di quelle di altre macchiette televisive filorusse come Di Battista, Orsini e Basile (la quasi ambasciatrice). E così, mentre Solovyov urla “denazificazione” e “Occidente satanico”, Sachs ripete in modo pacato: “La NATO ha provocato la Russia”. Il messaggio è identico, solo il packaging cambia.
La guerra non lineare e la disinformazione come ecosistema
Sachs è solo una pedina importante – consapevole o meno – di una strategia più ampia: la cosiddetta guerra non lineare scatenata da Mosca contro l’Occidente. Non carri armati soltanto, ma cyberattacchi, corruzione, infiltrazioni politiche e soprattutto propaganda. Lo scopo non è convincere, ma confondere. Non solo provare a far passare una verità alternativa, ma almeno rendere tutte le verità equivalenti, intercambiabili, opinabili.
In questo schema, ogni crisi viene riletta in chiave anti-occidentale: Macron diventa un guerrafondaio, Ursula von der Leyen una pedina della NATO, Zelensky un clown cocainomane in cerca di applausi e sostegno a buon mercato. Tutto si rovescia, tutto si relativizza. E la disinformazione funziona soprattutto in Europa, dove la libertà di stampa permette a chiunque di diffondere qualsiasi opinione. In Russia non ci sarebbe bisogno di un Sachs: lì la propaganda si impone con la forza. Da noi, invece, attecchisce perché ogni bugia trova spazio nei talk show, protetta dal paravento del pluralismo.
Così non sorprende che Jeffrey Sachs sia diventato un punto di riferimento per il Movimento 5 Stelle. È stato protagonista della festa del Fatto, così come della loro “scuola di politica”, dove le sue lezioni sono state accolte come verità rivelate. Così come è stato acclamato in piazza a Roma, il 5 aprile scorso, durante la manifestazione cosiddetta “per la pace” organizzata da Giuseppe Conte. In quelle occasioni, le sue parole hanno avuto l’effetto di una catechesi laica: rassicurare i pacifisti che non è la Russia ad aver aggredito, ma l’Occidente a non voler fermare la guerra. È lo stesso schema che ha reso Sachs popolare tra account grillini, sovranisti e fintopacifisti di sinistra radicale. La sua immagine viene rilanciata come una reliquia: “Lo dice un grande economista americano!”. Fine della discussione. L’argomento di autorità sostituisce ogni argomentazione.
La responsabilità del dibattito pubblico
Il nodo centrale non è tanto Sachs, ma la responsabilità di chi lo ospita e di chi ne amplifica la sua voce. È lecito e persino utile discutere di opinioni controcorrente. È legittimo ospitare posizioni critiche verso l’Occidente. Ma quando queste opinioni coincidono perfettamente con la propaganda di un regime che bombarda civili, il discorso cambia e occorre esercitare un filtro critico. Non si tratta di censurare, ma di contestualizzare, di smontare punto per punto, di non lasciar passare come “voce autorevole” ciò che autorevole non è. Altrimenti il talk show diventa inconsapevolmente una cassa di risonanza del Cremlino.
Una lettera che smonta le bugie
Lo hanno fatto ad esempio, con rigore chirurgico, decine di economisti internazionali in una lettera aperta a Sachs, pubblicata su VoxUkraine1. Gli hanno ricordato che l’Euromaidan non fu un colpo di Stato ma una rivolta popolare, che l’espansione della NATO non prevedeva l’Ucraina, che l’annessione della Crimea è stata un’aggressione e non una correzione storica. E soprattutto, che la guerra non è nata da provocazioni occidentali, ma dal progetto imperiale dichiarato da Putin sin dagli anni Duemila: riportare la Russia alla grandezza imperiale perduta. Sono fatti, documenti, cronologie: tutto ciò che Sachs sistematicamente ignora o riduce a dettagli poco significativi.
In fondo, il caso Sachs è il sintomo di una fragilità più grande: l’incapacità europea di difendere la propria narrazione. Di fronte alla stanchezza, al cinismo, alla tentazione di arrendersi alla logica del “tanto vale fermare tutto”, Mosca sa infilarsi con maestria. Il volto di Sachs diventa allora la versione patinata della resa culturale. Ma cedere a questa narrazione significa ignorare la realtà: che Putin non cerca compromessi ma resa, che l’Ucraina non è un campo di battaglia lontano ma il primo fronte di una sfida globale, che l’Europa – dopo il disimpegno americano – non può più permettersi illusioni.
La guerra non si combatte solo con i tank, ma con le parole. E le parole, quando manipolate, possono ferire quanto un missile. Jeffrey Sachs non è il nemico, ma è diventato un ingranaggio prezioso della macchina di disinformazione russa. Di fronte al quale serve a poco indignarsi se non si hanno gli strumenti per rispondere con pazienza, con spirito critico, con la forza della verità documentata. Non servono crociate, ma esercizi quotidiani di discernimento. Smontare le bugie una a una, ricordando che la libertà di parola non è sinonimo di impunità intellettuale. Perché la disinformazione, se non viene contrastata, non solo inquina il dibattito: prepara la sconfitta politica e culturale. E in questo campo di battaglia invisibile, cedere al fascino del professore equivale a regalare a Putin una vittoria che non ha mai ottenuto sul terreno.
Sebastiano Catte, com.unica 19 settembre 2025
1 Qui il link alla lettera aperta indirizzata a Jeffrey Sachs da un gruppo di suoi colleghi economisti.