La versione italiana di uno studio di Felice Vinci pubblicato dalla rivista scientifica internazionale “Athens Journal of Mediterranean Studies”

Abstract

L’articolo presenta i risultati di uno studio volto a dare un significato razionale alla figura della Fenice, l’uccello mitologico che muore ma poi rinasce dalle proprie ceneri. Essa si ritrova con caratteristiche simili in mitologie anche molto distanti nello spazio e nel tempo. Di solito si tratta di un rapace, un’aquila o un falco, oppure di un gallo, appollaiato su un grande albero corrispondente all’Albero Cosmico, ovvero all’Asse del Mondo. Questa immagine ben si adatta a simboleggiare la stella polare, verso cui punta l’asse terrestre e che rimane apparentemente fissa nel cielo notturno mentre le altre stelle le ruotano attorno. Tuttavia, la Fenice è destinata a morire perché l’asse terrestre non rimane fisso, ma segue un moto circolare lentissimo ma continuo, simile a quello dell’asse di una trottola in movimento, che col passare dei secoli e dei millenni provoca sia la precessione degli equinozi, sia l’alternanza delle stelle che, una dopo l’altra, si avvicinano al Polo Nord celeste. Insomma la stella polare “muore” e poi “rinasce” in ciascuna delle stelle che, una dopo l’altra, si susseguono in quella posizione: ciò spiega perché ogni epoca abbia avuto una sola Fenice, perché fosse considerata molto longeva e persino perché in diverse culture esse fosse un simbolo di regalità, che in ogni dinastia viene trasmessa dal re defunto al suo successore in modo in certo senso corrispondente a quello della stella polare. Inolte questa straordinaria metafora astronomica spiega anche il significato metaforico delle liti, attestate in diverse mitologie, tra l’uccello appollaiato in cima all’Albero Cosmico e il serpente che ne corrode le radici. Infine si approfondisce l’ipotesi che alcune caratteristiche attribuite alla Fenice siano state ispirate dall’aspetto e dal comportamento di un reale uccello, l’urogallo.

Introduzione

In questo articolo, esamineremo innanzitutto le caratteristiche attribuite alla Fenice – l’uccello mitologico dotato di straordinaria longevità e del potere di rinascere dopo la morte – in vari contesti storici e letterari del mondo antico, per poi approfondire l’associazione della sua figura con un grande albero, che, come vedremo, è identificabile con l’Albero Cosmico. Su questa base, svilupperemo l’ipotesi che dietro l’immagine della Fenice appollaiata sull’albero si nasconda una metafora astronomica riferita alla stella polare, che periodicamente “muore” e poi “rinasce” in ciascuna delle stelle che, una dopo l’altra, nel corso dei millenni si alternano nei pressi del polo celeste, in seguito ad un moto a trottola dell’asse terrestre, lentissimo ma continuo, che produce il fenomeno della precessione degli equinozi.

A tal fine, adotteremo una metodologia consistente in un nuovo esame critico di fonti attendibili, non solo classiche ma anche provenienti da altri contesti letterari e scientifici, confrontando ed esplorando analogie e somiglianze, ma anche enigmi ed anomalie. Infatti queste ultime, in particolare nell’ambito della mitologia, possono talvolta rivelare significati metaforici nascosti in grado di aprire nuovi orizzonti ermeneutici. È quanto abbiamo visto in un precedente articolo (Vinci, 2024a), dove abbiamo mostrato come anche dietro il segreto della prodigiosa forza di Sansone, legata ai suoi lunghi capelli non tagliati, sia nascosta una suggestiva metafora di un fenomeno astronomico. Inoltre, nel corso di questa indagine terremo sempre presente che, per affrontare adeguatamente temi come quello che stiamo trattando, “un approccio razionalistico è sterile senza lo sforzo di immergersi nella mentalità dei tempi e delle persone con cui abbiamo a che fare” (Ferri, 2010, p. 219).

Vorremmo altresì sottolineare che, data la novità dell’ipotesi qui proposta e considerando che questo particolare argomento potrebbe essere di interesse anche al di fuori del mondo accademico, abbiamo mirato alla massima chiarezza e leggibilità dell’articolo, anche a costo di ripetere talvolta alcuni concetti.

Questo articolo è organizzato in sette sezioni, inclusa la presente introduzione. La seconda sezione dà informazioni generali sulla figura e sulle caratteristiche della Fenice. La terza approfondisce lo stretto rapporto tra la Fenice ed un particolare albero, identificabile come l’Albero Cosmico o Albero del Mondo, su cui essa sta appollaiata. La quarta sviluppa l’ipotesi che la Fenice sia una metafora della successione ciclica di stelle che, una dopo l’altra, assumono la funzione di stella polare allorché vengono a trovarsi in prossimità del polo celeste. La quinta esplora la metafora nascosta dietro i perenni litigi tra l’aquila e il serpente, due animali che diverse mitologie associano all’Albero Cosmico, nonché i collegamenti con il mulino del cielo, i destini umani e i cicli cosmici. La sesta sviluppa l’ipotesi che alcune caratteristiche tradizionalmente attribuite alla Fenice possano essere state inizialmente ispirate dall’aspetto e dal comportamento di un uccello particolare, identificabile con l’urogallo. L’ultima sezione è dedicata alle osservazioni conclusive.

Generalità sulla Fenice

La Fenice è un mitico uccello, di cui in ogni epoca esiste un solo esemplare. Essa si rigenera ciclicamente morendo e risorgendo dalle proprie ceneri, e che con forme più o meno simili si ritrova in molte altre mitologie. Ha un aspetto simile a quello di un’aquila, e talvolta anche di un gallo, con cui essa condivide la vocazione canora, e la sua figura è associata al sole e ad un grande albero.

Ecco cosa ne dice lo storico greco Erodoto (c. 484 – c. 425 BC), che la cita allorché si sofferma sugli animali che si trovano in Egitto: “Esiste anche un altro uccello sacro, il cui nome è Fenice. Io stesso non l’ho mai visto, solo delle immagini, perché l’uccello arriva raramente in Egitto: una volta ogni cinquecento anni, come dicono gli abitanti di Eliopoli. Si dice che la Fenice arrivi quando muore il padre. Se l’immagine ne mostra realmente le dimensioni e l’aspetto, il piumaggio è in parte dorato e in parte rosso. La sua forma e le sue dimensioni sono molto simili a quelle di un’aquila. Quello che dicono che questo uccello riesce a fare mi sembra incredibile. Si racconta che, volando dall’Arabia al tempio del sole, porti con sé il padre avvolto nella mirra e lo seppellisca nel tempio del Sole” (Storie, 2, 73).

Ad ispirare la figura della Fenice greca potrebbe essere stato il Benu, un’antica divinità egizia legata al Sole, alla creazione e alla rinascita. Il Benu egizio era un essere autocreato che si diceva avesse avuto un ruolo nella creazione del mondo. Un suo titolo era “Colui che venne all’esistenza da solo” e il suo nome è legato al verbo egiziano wbn, che significa “sorgere nello splendore”. Il Benu compare anche sugli amuleti funerari a forma di scarabeo come simbolo di rinascita. Lo stesso nome “Fenice” potrebbe derivare da “Benu”, e la sua rinascita e il suo legame con il sole sono simili alle credenze sul Benu (Hart, 2005, p. 48). Poiché il Benu era un simbolo di rinascita, era associato a Osiride e veniva chiamato “Signore dei Giubilei”, un epiteto che si riferiva alla credenza che si rinnovasse periodicamente “come il sole che sorge all’alba” (Wilkinson, 2003, p. 212). Infatti, un epiteto frequentemente applicato al dio Sole è “colui che si autogenera”, e (…) nella letteratura classica si pone grande enfasi sulla generazione spontanea della Fenice e sulla sua stretta relazione con il sole (Van den Broek, 1972, p. 16).

Ma ora spostiamoci sulla letteratura latina, dove troviamo il passo che lo scrittore romano Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.) dedica alla Fenice: “L’Etiopia e l’India, in particolare, producono uccelli dal piumaggio diversificato, che superano di gran lunga ogni descrizione. In prima fila tra questi c’è la Fenice, quel famoso uccello d’Arabia; anche se non sono del tutto sicuro che la sua esistenza non sia tutta una favola. Si dice che ne esista una sola in tutto il mondo, e che non sia stata avvistata molto spesso. Ci viene detto che questo uccello ha le dimensioni di un’aquila, e ha un brillante piumaggio dorato intorno al collo, mentre il resto del corpo è di un colore violaceo; tranne la coda, che è azzurra, con lunghe piume mescolate a una tonalità rosata; la gola è ornata da una cresta e la testa da un ciuffo di piume. Il primo romano che descrisse questo uccello, facendolo con grande precisione, fu il senatore Manilio, famosissimo per la sua erudizione; che dovette, inoltre, agli insegnamenti di nessun maestro. Ci racconta che nessuno ha mai visto questo uccello mangiare, che in Arabia è considerato sacro al sole, che vive cinquecentoquaranta anni, che quando invecchia costruisce un nido di cassia e rametti di incenso, che riempie di profumi, e poi vi adagia sopra il suo corpo per morire; che dalle sue ossa e dal midollo nasce dapprima una specie di piccolo verme, che col tempo si trasforma in un uccellino: che la prima cosa che fa è compiere le esequie del suo predecessore e portare il nido intero alla città del Sole vicino a Panchea, e lì deporlo sull’altare di quella divinità. Lo stesso Manilio afferma inoltre che con la vita di questo uccello si completa la rivoluzione del Grande Anno e poi si ripete un nuovo ciclo con le stesse caratteristiche del precedente, nelle stagioni e nell’aspetto delle stelle” (Nat. Hist. 10. 2).

Sempre nella lettaratura latina, le principali caratteristiche attribuite alla Fenice si trovano in un lungo carme, il De ave Phoenice (“l’uccello Fenice”), tradizionalmente attribuito a Lattanzio (c. 250 – c. 325). Esso si apre con una lunga descrizione del favoloso luogo dove la Fenice vive abitualmente, “lontano nell’estremo Oriente” (v. 1), in cui “il sole irradia il giorno dall’asse di primavera” (v. 4). Laggiù, in una bellissima pianura che supera in altezza le più alte montagne, una sorta di Eden mai toccato dalle miserie di questo mondo, “si trova il bosco del Sole” (v. 9), con alberi sempreverdi irrigati da una fonte meravigliosa: ed è in questo luogo, sulla cima di un altissimo albero “che da solo troneggia su tutto il bosco” (v. 40), che sul far del giorno la Fenice, “l’unico uccello ad abitare questo bosco e queste selve,/ l’unico, ma vive risorgendo dalla sua morte” (31-32), attende il sorgere del sole, al cui arrivo essa intona un canto straordinario, dalla bellezza ineguagliabile. Poi però, raggiunti i mille anni di vita, “per ridar vita al tempo consumato nel volgersi dei secoli/ si allontana dal consueto dolce nido del bosco/ e quando abbandona i luoghi santi per il desiderio di rinascere/ allora si avvia verso questa parte del mondo, dove regna la morte” (61-64). Qui essa si costruisce un nuovo nido e si prepara a morire, fin quando il suo corpo “divampa e una volta bruciato si dissolve in cenere” (v. 98). Però poi risorge dalle sue ceneri, riprende il suo aspetto precedente (bello e coloratissimo, con prevalenza del rosso e dell’oro) e, dopo essere volata in Egitto, finalmente ritorna nel luogo celeste da cui era discesa.

In questi versi – nei quali colpisce in particolare l’immagine iniziale della Fenice, appollaiata sulla cima di quell’“altissimo albero”, in attesa di intonare il suo canto al sorgere del sole – non mancano i riferimenti ad un’ambientazione che non è terrena, ma celeste. Ciò già appare all’inizio del poema, dove viene descritto il mondo paradisiaco in cui essa vive, dove “il sole irradia il giorno dall’asse di primavera” (v. 4). Si tratta di un preciso riferimento astronomico al giorno dell’equinozio, quando il sole sorge nel punto vernale (il punto in cui, in linguaggio astronomico, l’equatore celeste interseca l’eclittica). Questa collocazione astronomica è confermata da un verso successivo, dove “il Sole bussa alla soglia della porta splendente” (v. 43): si tratta in realtà di una porta astronomica, che si ritrova in Omero, allorché menziona le “porte del cielo che le Ore avevano in custodia” (Il. 5, 749: qui le Ore sono le stagioni dell’anno, scandite dagli equinozi e dai solstizi), e da Ovidio, quando fa dire a Giano, il dio romano delle porte: “Sto seduto alle porte del cielo con le gentili Ore” (Fast. 1, 125). Per inciso, il concetto di porta astronomica si ritrova in alcuni reperti archeologici risalenti alla prima età del bronzo: “Il disco di Nebra e la losanga di Bush Barrow sembrano entrambi essere stati progettati per riflettere il ciclo solare annuale” (MacKie 2009, p. 41). In effetti, gli angoli corrispondenti all’arco di orizzonte tra i due punti in cui il sole sorge nei solstizi d’inverno e d’estate, nei luoghi in cui essi sono stati rispettivamente rinvenuti, si ritrovano in alcune delle specifiche caratteristiche dei reperti stessi.

La diffusione della figura della Fenice sia nello spazio che nel tempo, nonché la sua dimensione intrinsecamente celeste, è attestata dalla cosiddetta “Fenice cinese”, come in Occidente è stato ribattezzato il mitico uccello che in Cina è chiamato Feng o Fenghuang (ma che sotto altri nomi si ritrova anche in altri Paesi dell’Estremo Oriente). Il Feng appare per annunciare l’inizio di una nuova era, scende dal cielo sulla terra e poi torna alla sua dimora celeste per aspettare l’era successiva. In Cina è anche chiamato “gallo augusto” e si dice che abbia avuto origine dal sole; può essere multicolore (nero, bianco, rosso, giallo e verde), ma a volte è raffigurato come una palla di fuoco, oppure ha l’aspetto di un gallo rosso, e vi sono leggende che esaltano il suo canto (Nozedar, 2006, p. 37).

L’immagine del Feng era legata alla figura dell’Imperatore, al punto che soltanto l’Imperatore e l’Imperatrice, che vivevano nella Città Proibita di Pechino, erano autorizzati ad indossarne il simbolo. Il nome cinese della Città Proibita era Zijincheng, “Città Proibita Porpora”, dove Zi, “Porpora”, si riferisce alla stella polare, attorno alla quale ruotano tutte le stelle del cielo notturno. Essa nell’antica Cina era chiamata Ziwei, la “Stella Porpora”, considerata la dimora dell’Imperatore celeste. La sua corrispondente sulla Terra era la Città Proibita Porpora, residenza dell’Imperatore terreno, il re-sacerdote, intermediario fra la Terra e il Cosmo, che si trova al centro del nostro mondo, riflesso e immagine del mondo celeste (Barmé, 2008, p. 26).

Il rapporto tra la Fenice e la regalità si riscontra anche nella figura del mitico uccello Turul, la Fenice ungherese: “Il falco o Turul (…) durò a lungo come simbolo appartenente alla casa regnante” (Rady, 2000, p. 12). Qui il riferimento è alla dinastia Árpád, la dinastia regnante del Principato d’Ungheria nel IX e X secolo e del Regno d’Ungheria dal 1000 al 1301, che prese il nome dal Gran Principe ungherese Árpád, ma era anche conosciuta come dinastia Turul. La sua origine “si faceva risalire ad Attila, il Gran Re degli Unni” (Neparáczki, 2022 p. 260), raffigurato con il suo scudo in cui campeggia l’immagine del Turul (Fig. 1). Ma questo rapporto del mitico uccello con la regalità si riscontra anche in epoca più moderna, nel famoso “Ritratto della Fenice” (c. 1575), così chiamato per il gioiello a forma di Fenice che la regina Elisabetta I indossa sul petto.

Fig. 1. A sinistra: l’immagine della Fenice nel “Ritratto della Fenice” di Elisabetta I (c. 1575); a destra: Attila con l’uccello Turul effigiato sullo scudo (c. 1360).

D’altronde Elisabetta I viene esplicitamente messa in relazione con la Fenice anche da Shakespeare, in alcuni versi del dramma storico Enrico VIII: “Ma come quando/ muore l’uccello delle meraviglie, la fanciulla Fenice,/ le sue nuove ceneri creano un altro erede,/ grande nell’ammirazione quanto lei;/ così [Elisabetta] lascerà la sua beatitudine ad uno,/ quando il cielo la chiamerà da questa nube di oscurità,/ che dalle sacre ceneri del suo onore/ sorgerà come una stella, grande nella fama quanto lei” (Atto V, Sc. 5, vv. 3423-3430).

Ma ora, dopo aver delineato la figura di questo mitico uccello in varie mitologie, è il momento di approfondire qualcuno dei suoi tratti distintivi, in particolare il suo rapporto con l’Albero Cosmico. Questo aspetto si rivelerà cruciale per comprendere il significato nascosto dietro l’immagine della Fenice che muore e rinasce.

La Fenice e l’Albero Cosmico

Confrontiamo l’albero altissimo, sul quale, secondo il De ave Phoenice (vv. 39-42) menzionato poco fa, la Fenice siede in attesa di intonare il suo canto al sole nascente, con il mitico frassino Yggdrasill della mitologia nordica: “…Un albero alto, bagnato di bianca brina;/ di là provengono le rugiade che cadono nelle valli/ e sempre verde sta presso la fonte di Urdh” (Völuspá, str. 19).

Questo “albero alto” è “l’immagine dell’Albero Cosmico, il frassino Yggdrasill, che sta al centro dell’universo e lo sorregge: i suoi rami sempreverdi (simboleggianti cioè l’eternità) si stendono su tutto il mondo e coprono il cielo. Esso ha un’aquila appollaiata sui rami, che a sua volta scambia continuamente cattive parole con il serpente Nidhhöggr, che continuamente corrode le radici dell’albero (…) La connessione dell’aquila con l’Albero Cosmico appare confermata (…) anche là dove si parla di un’aquila che si trova sopra la Valhalla, dimora di Odino, nella stessa zona dove cresce l’albero Léradhr, da identificare con l’Albero Cosmico. L’aquila è dunque un uccello sacro” (Chiesa Isnardi, 1996, pp. 548-549).

Il concetto di Albero Cosmico o Asse del Mondo (Axis Mundi), rappresentato da Yggdrasill, è centrale nella mitologia nordica: “L’Albero Cosmico riassume in sé i concetti di potenza, di sapienza divina e di sacralità (…) La sua possanza è la forza vitale del cosmo: quando esso vacillerà, si avrà indizio sicuro dell’imminente fine del mondo. Simbolo dei tre strati spaziali dell’essere (inferi, terra e cielo) e della loro interrelazione, l’Albero Cosmico assomma in sé anche i tre momenti fondamentali del tempo: passato, presente, futuro” (Chiesa Isnardi, 1996, p. 533).

Inoltre, “In numerose tradizioni primordiali l’Albero Cosmico, esprimente la sacralità stessa del mondo, la sua fecondità e la sua perennità, ha relazione con le idee di creazione, di fecondità e di iniziazione (…) Esso ci si presenta sempre come il ricettacolo della vita e il signore dei destini” (Eliade, 1983, p. 294).

Un concetto simile si ritrova tra i Sassoni, che “adoravano come divinità un grande tronco d’albero, chiamandolo nella loro lingua madre Irminsul, che in latino significa colonna universale, come se sostenesse il tutto (…) La colonna di straordinaria altezza, che secondo Ebbone (III, 1) si ergeva nel santuario dell’isola di Wolin, esprimeva la stessa credenza che circondava l’Irminsul: il mondo si reggeva su un sostegno sacro” (Modzelewski, 2008, p. 444). Quanto a Wolin, è un’isola baltica davanti alla foce del fiume Oder, nella Polonia settentrionale.

Tornando all’aquila appollaiata sui rami dell’Albero Cosmico, osserviamo che, secondo il passo di Erodoto letto in precedenza riguardante la Fenice egizia, “la sua forma e le sue dimensioni sono molto simili a quelle di un’aquila”. Inoltre in alcune mitologie la Fenice è paragonata a un uccello rapace, e sia l’aquila che il falco (pensiamo al Turul della mitologia ungherese) ben corrispondono a questa indicazione.

Insomma, il paragone tra l’aquila appollaiata sui rami del frassino Yggdrasill e la Fenice di Lattanzio, sulla cima del suo altissimo albero, evidenzia analogie molto significative.

Quanto al gallo, accostabile al Feng, il “gallo augusto” cinese, nella mitologia nordica gli animali appollaiati sui rami dell’Albero Cosmico sono “l’aquila o il gallo, che per la sua abitudine di segnalare tempestivamente l’arrivo dell’alba è considerato annunciatore della luce e messaggero della vittoria sulle influenze nefaste della notte. Nella sua funzione di animale che percepisce con immediatezza la luce solare e divina è perciò il corrispettivo dell’aquila, come mostra la figura del gallo splendente d’oro di nome Vídhófnir (…) appollaiato sull’albero detto Mímameidhr, corrispettivo dell’Albero Cosmico (…). Le fonti ricordano anche un gallo dorato di nome Gullinkambi (ma si tratta verosimilmente dello stesso) che canta vicino alle dimore degli Asi; di esso è detto che desterà i morti di Odino affinché l’ultimo giorno combattano contro le forze del male” (Chiesa Isnardi 1996, pp. 549-550).

Qui osserviamo da un lato che Gullinkambi significa “cresta d’oro” (Mastrelli 1982, p. 313) – il che corrisponde alla “radiata corona” (De ave Ph., v. 139) sul capo della Fenice, che Lattanzio paragona alla testa splendente di Apollo (v. 140) – e dall’altro che il gallo Vidhófnir, “il quale, splendente, sta sui rami dell’albero di Mimir” (Svipdgasmál, str. 24), ha nella coda una “penna lucente”, considerata addirittura un gioiello da “portare in uno scrigno” (Svipdgasmál, str. 29) e quindi sembra accostabile alla preziosa coda della Fenice, che “si diparte dal corpo tutta screziata d’oro/ misto a porpora rosseggiante” (De ave Ph., 131-132).

A questo punto, anche l’enigmatica affermazione secondo cui “nel corpo di Vidhófnir vi sono due ali arrostite” (Svipdgasmál, str. 18), sembra trovare una spiegazione logica proprio nel contesto della sua identificazione con la Fenice. Infatti, se quest’ultima rinasce dalle proprie ceneri dopo essere stata bruciata, è ragionevole supporre che le sue ali precedenti, consumate dal fuoco, abbiano lasciato una traccia nel suo nuovo corpo.

Inoltre, sempre nella mitologia nordica, “Un altro gallo color rosso fuliggine canta sottoterra nel regno dei morti. Il gallo si presenta dunque (…) anche come animale collegato al regno dei morti, cioè alle tenebre di cui è dominatore perché ne conosce i segreti” (Chiesa Isnardi, 1996, p. 550).

In effetti, spigolando nei miti nordici, si trova che il protagonista di un singolare episodio di morte e rinascita, a cavallo tra questo e l’altro mondo, è proprio un gallo: lo scrittore danese Sassone Grammatico (c. 1150 – c. 1220), nel narrare un’avventura dell’eroe Hadingus, che era stato improvvisamente trasportato sottoterra nel mondo dell’aldilà, racconta che qui a un certo punto una donna “mozzò la testa a un gallo, che portava con sé, e la gettò oltre la cinta delle mura; e subito l’uccello, resuscitato, con un canto squillante diede prova di aver effettivamente riacquistato il soffio vitale (Gesta Danorum I, VIII, 14). Per inciso, ci tenta l’idea di accostare quest’ultima immagine alle ultime parole pronunciate da Socrate prima di morire, che a questo punto sembrano racchiudere nuovi, suggestivi significati: “O Critone, disse, dobbiamo un gallo ad Asclepio: dateglielo e non ve ne dimenticate” (Plat. Fedone, 118a).

Morte e resurrezione, ossia la ciclicità della vita: ritorna il tema dominante del mito che stiamo esaminando, per di più legato a un gallo, uccello che, come abbiamo appena visto, nella mitologia nordica trova significativi punti di contatto proprio con quella Fenice che, secondo Lattanzio, tutte le mattine canta per annunciare il ritorno del sole.

L’ultimo epigono di questi mitici volatili, aquile o galli che fossero, potrebbe essere il Gallo di Ramperto, un gallo dorato di epoca medioevale, risalente all’820 d.C., che per mille anni ha adornato la sommità del campanile della chiesa dei Santi Faustino e Giovita a Brescia, ma che ora, sostituito da una copia sulla cima del campanile, si gode un meritato riposo nell’attiguo museo di Santa Giulia.

L’immagine dell’uccello mitico sull’albero sacro si ritrova anche nella mitologia ungherese, dove il Turul, menzionato in precedenza per il suo legame con la regalità, “sta appollaiato sull’Albero della Vita che collega la terra con gli inferi e i cieli” (Rady, 2000, p. 12).

Inoltre la mitologia persiana preislamica menziona un uccello sacro, chiamato Simurgh (Fig. 2), il quale visse per 1700 anni prima di gettarsi tra le fiamme e si appollaiò sull’Albero Cosmico della tradizione persiana, chiamato Gaokerena, che due pesci proteggevano dall’attacco di una rana malvagia (Farmanyan & Mickaelian, 2016, p. 248). Essa dunque è la corrispondente del serpente Nidhhöggr, “che continuamente corrode le radici dell’albero”. Di una variante di questo uccello, chiamato Huma, anch’esso presente nei miti iranici con aspetti che lo rendono molto simile alla Fenice, si dice che è sempre in volo e non si posa mai per terra: esso è il simbolo dell’Uzbekistan (Green, 2006).

Fig. 2. A sinistra: mosaico del Simurgh sulla facciata della Madrasa Nadir Divan Begi a Bukhara, Uzbekistan; a destra: l’emblema dell’Uzbekistan.

Inoltre, il Simurgh era così antico che assistette alla distruzione del mondo tre volte e, vivendo così a lungo, acquisì la conoscenza di tutte le epoche (Aro, 1976, p. 25). Per quanto riguarda il termine persiano sīmurğ, esso deriva dal medio persiano sēnmurw, a sua volta riconducibile all’avestico mərəγō Saēnō “l’uccello Saēna”, che originariamente si pensava fosse un rapace, probabilmente un’aquila, un falco o uno sparviero (Christensen, 1941, p. 66).

Notiamo ora che un altro albero mitico, abitato da personaggi accostabili agli strani frequentatori dell’Yggdrasill e del Gaokerena, si trova in un testo sumero: si tratta dell’albero Huluppu, nel quale “alla base il serpente che non conosce incantesimo si era fatto il nido, nella chioma l’uccello Zu aveva messo i piccoli, in mezzo Lilith si era costruita una casa” (Kramer, 1938, p. 5).

Qui si nota immediatamente la corrispondenza, da un lato, tra gli uccelli che si trovano alle rispettive cime dei due alberi, e dall’altro tra i due serpenti alle loro basi. Inoltre, la somiglianza tra il nome di Zu, l’uccello sumero sull’albero di Huluppu, e Zi, il nome della stella polare in Cina, appare curiosa, soprattutto considerando che il Feng, o Fenice cinese, è spesso associato al drago, anche nelle immagini (Fig. 3). Per inciso, è anche curioso che i nomi dei due principi maschile e femminile della filosofia cinese, yang e yin, sembrino essere simili alle radici delle parole che in greco indicano rispettivamente uomo e donna e che si trovano appaiate in un verso di Omero: anēr ēdè gunē (“uomo e donna”, ἀνὴρ ἠδὲ γυνή, Od. 6, 184). Ma colpisce anche il fatto che la parola che in cinese indica il re, wang, sia pressoché identica all’omerico anax (“capo, signore”, ἄναξ, Il. 1, 7) e al miceneo wanax, che hanno lo stesso significato.

Tutto ciò sembrerebbe coerente con l’ipotesi di Christopher Beckwith riguardo ad influenze indoeuropee sulla Cina antica, in particolare sulla dinastia Shang (Beckwith 2011). A questo punto, la singolare assonanza tra il cinese Feng e il greco Phoῖnix (Φοῖνιξ, Fenice) meriterebbe forse qualche approfondimento (considerando anche che di recente, come abbiamo visto in precedenza, è stata ipotizzata una relazione tra il nome greco della Fenice e quello del dio egizio Benu, due figure mitiche per certi versi paragonabili). Insomma, verrebbe quasi da sospettare che anche la somiglianza tra i loro nomi – Feng, Benu, Phoῖnix – possa non essere casuale, nonostante le distanze, sia spaziali che temporali, che separano queste tre civiltà.

Tornando ora all’albero ed ai suoi singolari inquilini, potrebbe non essere una coincidenza che l’immagine dell’aquila, del serpente e dell’albero si trovi anche nei miti di fondazione di due città molto distanti, la città fenicia di Tiro (Medlej, 2013) e la città azteca di Tenochtitlan (Bahr, 2004), così come al centro della bandiera messicana (Fig. 3).

Fig. 3. A sinistra: immagine del Feng cinese di fronte al drago; a destra: l’aquila con un serpente nel becco al centro della bandiera messicana.

È interessante notare che l’immagine dell’aquila in lotta col serpente compare anche nell’Iliade. Mentre i Troiani attaccano l’accampamento acheo, un’aquila appare sul campo di battaglia “tenendo tra gli artigli un enorme serpente rosso” (Il. 12, 202); tuttavia, il serpente riesce a ferire l’aquila (204) costringendola ad abbandonare la presa e fuggire (205-207). Questo è considerato un “prodigio” di Zeus (209), dal valore profetico, come ribadisce un soldato troiano nei versi successivi, quando invano suggerisce ad Ettore di desistere dall’attacco (216-229), che poi avrà un esito disastroso per il suo esercito. Se ne può dedurre che l’immagine dell’aquila e del serpente fosse strettamente legata ai destini umani (il che ne spiega il rapporto con i miti di fondazione di certe città).

Ma ora, dopo aver verificato che in diverse mitologie esiste una stretta relazione tra la figura della Fenice e l’Albero Cosmico, è giunto il momento di indagarne il significato metaforico.

La Fenice e la Stella Polare

Ma come può collegare l’idea della Fenice – un uccello soggetto ad un ciclo infinito di morti e rinascite, e che per di più, essendo un uccello, più di ogni altro tipo di animale sembrerebbe incarnare un’idea di leggerezza e di instabilità – a quella dell’Albero Cosmico, che invece si pone come emblema di stabilità e di permanenza attraverso il tempo? In realtà, un accenno che sembra metterne in dubbio l’immutabile stabilità poco fa lo abbiamo sentito: “Quando esso vacillerà, si avrà indizio sicuro dell’imminente fine del mondo”,

L’asse terrestre, infatti, non rimane sempre fisso, ma si muove gradualmente nel tempo con un moto lentissimo ma continuo, che dà luogo ad un fenomeno chiamato “precessione degli equinozi”. Si tratta di una rotazione simile a quella dell’asse di una trottola in movimento, che compie un giro completo in poco meno di 26.000 anni, il cosiddetto “Grande Anno” o “Anno Platonico” (che, come abbiamo visto in precedenza, Plinio mette direttamente in relazione col mito della Fenice). Di conseguenza, questa quasi impercettibile oscillazione dell’asse fa sì che le coordinate celesti degli astri visibili in un dato luogo cambino lentamente nel tempo.

Tra gli effetti della precessione vi è il fatto che il segno zodiacale corrispondente al sorgere del sole all’equinozio di primavera col tempo tende a spostarsi, seppur molto lentamente, e quindi, dopo due millenni o poco più, finisce per cedere il passo al segno che lo precede nella sequenza dei segni zodiacali. Durante l’epoca neolitica questo segno era la costellazione del Toro, che poi, per effetto della precessione, fu sostituita dall’Ariete e successivamente (intorno alla nascita di Cristo) dai Pesci. Ma l’età dei Pesci sta per finire: nel prossimo futuro sarà il turno dell’Acquario, e così via, fino a quando l’intero ciclo ricomincerà da capo.

Inoltre questo movimento dell’asse terrestre, oltre a determinare l’alternanza delle costellazioni zodiacali in cui il sole sorge all’equinozio di primavera, sposta il polo nord celeste, verso il quale l’asse è puntato, lungo un percorso circolare nel tempo. Nel corso dei millenni, ciò dà luogo alla successione delle stelle che, una dopo l’altra, assumono il ruolo di stella polare, ovvero la stella visibile a occhio nudo più vicina al polo nord celeste in un dato momento (Fig. 4).

Fig. 4. Schema del moto “a trottola” dell’asse terrestre, che nel tempo sposta il punto in cui il Sole sorge all’equinozio di primavera da una casa dello zodiaco a quella precedente, e fa sì che alcune particolari stelle assumano ciclicamente, una dopo l’altra, la posizione di stella polare.

Insomma, a partire dal prossimo secolo, il polo nord celeste inizierà ad allontanarsi dall’attuale stella polare, Alfa Ursae Maioris, spostandosi lentamente verso Gamma Cephei, che è quindi destinata a diventare la polare che subentrerà all’attuale. La polare ancora successiva sarà Deneb, che verrà poi sostituita da Vega (che fu già stella polare attorno al 12.000 a.C.); ma a Vega poi subentrerà Alfa Draconis (che è già stata la polare al tempo delle Piramidi), fino a quando il ciclo non ricomincerà quando, tra circa 24.000 anni, Alfa Ursae Maioris prenderà il posto di Kochab (Beta Ursae Minoris) e tornerà ad essere la stella polare qual è ora.

Così, in un arco di tempo ben più lungo delle generazioni umane, il lentissimo ma inesorabile moto precessionario dell’asse terrestre dà origine, durante il Grande Anno, ad un’altrettanto inesorabile successione dei dodici segni dello zodiaco. Ciò corrisponde all’alternanza delle stelle che, ripetiamo, una dopo l’altra si avvicendano nel ruolo di stella polare, ossia la stella visibile che, per definizione, è più vicina al polo nord celeste, verso cui punta l’asse terrestre. La stella polare, quindi, dà l’impressione di segnare l’inizio e la fine dei cicli corrispondenti alle ere che prendono il nome dai segni zodiacali e che, secondo le credenze astrologiche (nell’antichità, gli astronomi spesso erano anche astrologi), hanno un forte impatto sugli eventi e sui destini degli uomini e dei popoli.

In breve, considerando che un concetto astratto come l’asse terrestre può essere rappresentato da una mentalità arcaica sotto forma di un albero altissimo, ovvero l’Albero Cosmico, che “era visto come ciò che unisce cielo e terra, rappresentando una connessione vitale tra il mondo degli dei e quello degli umani” (Crews, 2003, p. 42), è naturale pensare alla stella polare, immobile alla sua sommità, come a un uccello appollaiato in cima all’Asse del Mondo, mentre le altre stelle, con il loro moto circolare attorno al polo nord celeste, possono essere paragonate ad uccelli che le volano attorno.

Notiamo infatti che il nome della stella Vega significa “avvoltoio che volteggia” (Schaaf, 2008), mentre le Pleiadi sono chiamate “le colombe”, peleiades in greco (Pindaro, Nemea 2, 11).

Questa interpretazione del mito della Fenice sembra anche supportata anche dal fatto che il colore rosso o dorato che le viene spesso attribuito corrisponde al colore rosso-arancio di Kochab, la polare che ha preceduto quella attuale.

Possiamo quindi ragionevolmente supporre che l’immagine dell’albero su cui sta appollaiata la Fenice sia una metafora dell’asse terrestre che punta verso la stella polare, attorno alla quale ruota il cielo notturno. Ciò è confermato dal fatto che il rapporto della Fenice con il Grande Anno, ossia l’intero ciclo della precessione, è chiaramente espresso da Plinio il Vecchio nel passo citato in precedenza.

A questo punto segnaliamo un frammento attribuito a Esiodo, secondo cui “Il corvo vive nove volte più a lungo di un uomo nel fiore degli anni; il cervo quattro volte più a lungo del corvo; il corvo tre volte più a lungo del cervo; la Fenice nove volte più a lungo del corvo; e noi, ninfe dai lunghi capelli figlie dell’Egioco Zeus, [viviamo] dieci volte più a lungo della Fenice” (Esiodo, fr. 304 Merkelbach-West).

Ma cosa significa “essere un uomo nel fiore degli anni”? Se consideriamo che l’età media per stabilire record mondiali in vari sport è circa 26 anni (https://www.wired.com/2011/07/athletes-peak-age/), l’età della Fenice risulta essere un numero molto vicino a quello del Grande Anno (9 x 26 x 4 x 3 x 9 = 25.272). Per inciso, questa coincidenza con la durata del ciclo della precessione degli equinozi è sorprendente e merita di essere approfondita, poiché l’epoca di Esiodo precede di diversi secoli quella di Ipparco (c. 190 – c. 120 a.C.), che è generalmente riconosciuto come “scopritore della precessione” (Jones, 2010, p. 36). Al riguardo va anche notato che, secondo una controversa (ma ben argomentata e ben documentata) tesi di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend (2003), la scoperta della precessione degli equinozi dovrebbe essere datata a un’epoca molto precedente a quanto si ritiene attualmente.

La dimensione astronomica della Fenice spiega immediatamente anche l’immagine dello stranissimo gallo a cui Giacomo Leopardi dedicò una delle sue Operette morali (1827), intitolata Il Cantico del Gallo Silvestre, di cui qui riportiamo l’inizio: “Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei, che tra il cielo e la terra, o vogliamo dire mezzo nell’uno e mezzo nell’altra, vive un certo gallo salvatico; il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo”.

È evidente la dimensione cosmica di questo singolare gallo sospeso tra la terra e il cielo, che qui sembra persino diventare un tutt’uno con l’albero su cui negli altri miti che abbiamo esaminato in precedenza sta appollaiato. Nel prosieguo del racconto, Leopardi cita esplicitamente il “Canto mattutino del Gallo Silvestro”, ma rimane vago sulla sua fonte: “Si è trovato in una cartapecora antica, scritto in lettera ebraica”.

Però a prima vista questo quadro astronomico potrebbe suscitare un’obiezione. Infatti, una caratteristica fondamentale della precessione dell’asse terrestre è la sua lentezza, corrispondente al fatto che l’alternanza delle stelle polari nel corso dei millenni avviene su periodi di tempo ben più lunghi di quelli di una vita umana. Ciò implica che in qualche antica civiltà di lunga durata possano essere esistiti astronomi in grado di misurare e tramandarsi di generazione in generazione le posizioni delle stelle nel firmamento con sufficiente precisione, e di conseguenza fossero in grado di misurarne gli spostamenti anche su periodi di tempo molto lunghi. Potrebbe quindi non essere un caso che la più antica testimonianza di un uccello mitologico paragonabile alla Fenice si trovi proprio nell’antico Egitto, che rimase sostanzialmente stabile per millenni e possedeva notevoli conoscenze astronomiche, come attestato dall’accurato orientamento dei monumenti egizi rispetto alle stelle. Ad esempio, la statua ka di Djoser nella sua tomba a Saqqara si trovava in un serdab (un tipo di camera) alla base nord-orientale della sua piramide, inclinata di 17° per consentirle di osservare le stelle circumpolari attraverso due fori (Warburton 2012, p. 139); così pure, il tempio di Amon-Ra a Karnak era allineato al sorgere del Sole di metà inverno (Krupp, 1988, p. 487).

Ci si potrebbe anche chiedere come fosse possibile che anche altre civiltà meno longeve degli Egizi conoscessero la Fenice. Ciò può essere spiegato dal fatto che “Già nell’età del bronzo dovevano esistere rotte commerciali complesse e di vasta portata fra l’Europa e il Mediterraneo orientale” (Heidelberg, 2019).

Ora, se da un lato l’arte della navigazione indubbiamente favoriva la diffusione e lo scambio di conoscenze astronomiche anche tra popoli lontani, dall’altro richiedeva adeguate conoscenze astronomiche. Qui viene da pensare ad Odisseo che, navigando dall’isola Ogigia verso la Scheria, “seduto al timone guidava con perizia la sua zattera, senza mai addormentarsi mentre osservava le Pleiadi, Boote che tramonta tardi e l’Orsa” (Od. 5, 270-273).

Inoltre, un altro studio recente ha dimostrato che “tecnologie marittime e di navigazione avanzate” erano già sviluppate durante l’età megalitica (Paulsson, 2019). In questo contesto, non sorprende che la conoscenza dell’astronomia, presumibilmente legata allo sviluppo della navigazione, si riscontri anche in quell’epoca remota. Si consideri, ad esempio, l’orientamento astronomico dei quadrangoli megalitici di Stonehenge, Crucuno (Francia) e Xarez (Portogallo) (Sparavigna, 2016), per non parlare del Cerchio di Goseck, una struttura neolitica in Sassonia-Anhalt (Germania) considerata uno dei più antichi “osservatori solari” al mondo, costruita intorno al 4900 a.C. (Literski-Henkel, 2017, p. 70).

In breve, lo sviluppo della navigazione e dei commerci anche in epoche remote rende plausibile l’idea che le informazioni astronomiche circolassero anche tra popoli distanti fra loro. A questo proposito sembra anche ragionevole supporre che, dato lo sviluppo della navigazione anche su lunghe distanze, non solo marinai e mercanti, ma anche studiosi e intellettuali, spesso appartenenti a famiglie nobili e facoltose, potessero trarne vantaggio per accrescere e scambiare le proprie conoscenze. Ad esempio, si dice che Pitagora abbia viaggiato in Egitto, Persia e Mesopotamia (Riedweg, 2005).

D’altronde le grandi distanze che separano le culture coinvolte in questo studio potrebbero contribure ad avvalorare l’idea che vi sia stata una civiltà preistorica dotata di notevoli conoscenze sia in campo astronomico che nell’arte della navigazione. Per inciso, vi sono ragioni per supporre che questa al momento ipotetica civiltà, favorita dal fatto che durante l’era megalitica l’Optimum Climatico Olocenico (HCO) rendeva navigabile l’Oceano Artico, si estendesse fino all’Oceano Pacifico e alla Polinesia, dove in un articolo precedente abbiamo localizzato, sulla base di una consistente serie di indizi, i mitici Campi Elisi (Vinci 2023). Infatti, l’HCO, che dal VII al III millennio a.C. rese verde e umido l’attuale deserto del Sahara (Gwin 2024, p. 84), aveva contemporaneamente reso navigabile l’Oceano Artico durante l’estate e abitabili le sue coste, dove al posto della gelida tundra attuale si estendevano rigogliose foreste di abeti (Pinna, 1977), come d’altronde avverrà in un prossimo futuro in seguito al global warming. Infatti, a quel tempo le temperature medie erano alquanto più elevate di quelle odierne (Beierlein et al., 2015).

Ma torniamo alla Fenice, la cui identificazione con la stella polare è in grado di chiarire immediatamente il significato del suo rapporto con la regalità su cui ci siamo soffermati in precedenza. In effetti, la metafora della stella polare ben si adatta non solo alla Fenice ma anche al concetto di regalità, in cui i successori del fondatore di una dinastia assumono uno dopo l’altro la carica di re o di regina. Qui pensiamo a quei versi dell’Enrico VIII su cui ci siamo soffermati in precedenza, secondo i quali dalle future ceneri della regina Elisabetta, esplicitamente paragonata alla Fenice, il suo successore “sorgerà come una stella”! La corrispondenza è così calzante da farci sorgere il dubbio, se non la quasi certezza, che Shakespeare fosse già a conoscenza della dimensione astronomica della Fenice (perché in certi ambienti era già nota o perché proprio lui la aveva intuita? Ecco un nuovo intrigante interrogativo, che va ad accrescere quell’aura di mistero che circonda la sua vita e la sua figura). Ma molto interessante appare anche la figura dell’Imperatore della Cina, che, come pure abbiamo visto, era direttamente collegato al Feng e risiedeva nella Città Proibita Porpora, ossia la proiezione sulla Terra della stella polare attorno a cui ruota tutto il firmamento notturno.

Insomma, la mitica Fenice si è rivelata essere l’immagine e il simbolo della stella polare, che – pur essendo soggetta a un ciclo perenne di morti e rinascite, suggestiva metafora della successione di stelle che una dopo l’altra arrivano a occupare quella particolare posizione – resta perennemente sulla cima dell’Albero Cosmico, ovvero la proiezione dell’asse terrestre verso il polo celeste. Da lì essa è spettatrice e testimone, in ciascuna delle sue successive incarnazioni in ciascuna delle stelle destinate una dopo l’altra ad assumere questo ruolo, del perpetuo rinnovarsi dei cicli della vita, scanditi dai periodici cambiamenti nella disposizione delle costellazioni zodiacali, di cui i destini umani sulla Terra sono un riflesso – “Come in alto, così in basso”, come recita la Tavola di Smeraldo (Weisser, 1979, p. 54) – nell’eterno carosello della sfera celeste. Questo spiega perché sia esistita una sola Fenice in ogni epoca, e perché fosse così longeva.

Ma ora è giunto il momento di chiarire il significato metaforico del serpente che diverse mitologie associano all’aquila e all’Albero Cosmico.

Il Serpente e l’Albero, il Mulino del Cielo e i Cicli Cosmici

L’ipotesi di identificare la Fenice, il mitico uccello appollaiato sull’Albero Cosmico, con la stella polare ci permette di attribuire un significato metaforico anche al serpente che viene spesso associato ad un albero o a un uccello (o ad entrambi). Si pensi, ad esempio, all’aquila appollaiata sulla cima di Yggdrasill, l’albero sacro della mitologia nordica, la quale “scambia continuamente cattive parole con il serpente Nidhhöggr, che continuamente corrode le radici dell’albero” (Chiesa Isnardi, 1996, p. 548).

L’identificazione della Fenice con l’aquila, ovvero la stella polare, e del sacro albero Yggdrasill con l’asse terrestre spiega immediatamente il motivo di quei continui litigi: il serpente che corrode le radici dell’albero ne comprometterà col tempo la stabilità, causando quindi la “morte” dell’aquila, ovvero la sostituzione della stella che funge da stella polare con quella destinata ad ereditarne la funzione. Infatti, in termini astronomici, la precessione prodotta dal lento moto a trottola dell’asse terrestre ritarda il momento del perielio (il punto più vicino della Terra al Sole) di circa 20 minuti all’anno, e questo ritardo annuale – corrispondente a un ritardo di circa 3 secondi al giorno – accumulandosi nel corso dei secoli finirà per causare la “morte” dell’attuale stella polare, ovvero dell’aquila appollaiata in cima all’albero (ossia la Fenice).

Pertanto, se l’albero corrisponde all’asse terrestre e l’aquila alla polare, ne consegue che questo serpente che corrode le radici rappresenta una metafora molto calzante per la rotazione dell’asse, che, con il suo rallentamento, fa inesorabilmente deviare l’albero fino a provocare l’ineluttabile morte dell’aquila. Così si spiega subito perché il serpente che sta alla base dell’albero Huluppu “non conosce incantesimo”: nulla può fermarlo! Insomma, l’odio tra l’aquila e il serpente si inserisce perfettamente nella metafora astronomica nascosta dietro il mito della Fenice, e nel contempo la completa e la conferma.

Ma torniamo al fatto che il moto rotatorio dell’asse terrestre produce non soltanto l’alternanza delle stelle che a turno assumono il ruolo di stella polare, ma anche la successione ciclica, circa ogni duemila anni, delle costellazioni zodiacali in corrispondenza delle quali il sole sorge all’equinozio di primavera (Fig. 4). Gli antichi credevano che ciò avesse una profonda influenza sulle vicende umane.

Ora, l’importanza attribuita ai movimenti degli astri e delle costellazioni che scandiscono la ciclicità degli eventi e dei destini, appare di tutta evidenza nel concetto di “mulino del cielo”, che nella mitologia norrena “è immagine stessa del tempo che macina incessantemente le ere portando a compimento la misura loro assegnata (…) Il mulino per eccellenza del mito nordico è Grotti, che macina la prosperità e l’abbondanza del dio della fecondità. Dopo il progressivo scadimento delle ere esso sarà ingoiato dalle profondità dell’oceano (…) La maniglia che fa girare la macina pare essere immagine dell’asse terrestre che nel suo movimento disegna un cono. La natura stessa dei movimenti celesti, il passaggio del sole da un segno zodiacale ad un altro e il fenomeno della precessione degli equinozi sono legati all’idea della successione dei cicli (…) Il mulino del cielo scompare nelle profondità dell’oceano celeste quando il ciclo vecchio debba essere sostituito dal nuovo (Chiesa Isnardi, 1996, p. 183).

Infatti, secondo la mitologia nordica, il ciclo attuale è destinato a concludersi con il Ragnarök, il terribile “crepuscolo degli dei”, che vedrà la battaglia finale tra le potenze della luce e dell’ordine e quelle delle tenebre e del caos; tuttavia, dopo una serie di terrificanti catastrofi che sconvolgeranno l’ordine universale, “Alla fine Surtr appiccherà il fuoco alla terra e tutto il mondo brucerà (…) Ma quando il fuoco di Surtr, dopo aver consumato ogni cosa, sarà spento, il mondo distrutto sarà rigenerato e una nuova era avrà inizio. Allora la terra riaffiorerà dalle acque del mare, tornerà verde e bella e cresceranno messi non seminate” (Chiesa Isnardi, 1996, p. 189). E in questo quadro, in cui tutto rinasce e si rinnova, non a caso l’aquila è la prima “che vola sul mondo allorché un nuovo ciclo ha inizio” (Chiesa Isnardi, 1996, p. 549).

Insomma, questo ciclo di morte e distruzione attraverso il fuoco, così come la successiva rinascita, riecheggia la storia della Fenice, la cui leggenda, in perfetta armonia con l’immagine dell’Albero-Asse del Mondo, prefigura il perenne svolgersi, concludersi e rinnovarsi dei cicli della vita e delle ere, scanditi dal susseguirsi di stelle che una dopo l’altra assumono il ruolo di stella polare.

È anche interessante notare che il ricordo della Fenice, nonostante la perdita del suo originario significato astronomico, ha continuato a essere trasmesso grazie al suo straordinario potere evocativo, pur essendo divenuta nel tempo metafora di concetti quali l’immortalità e la resurrezione, e persino di qualcosa che non esiste o di cui nessuno sa dove si trovi, come nell’opera buffa Così fan tutte, ovvero La scuola degli amanti, in cui Don Alfonso afferma: “Come l’araba Fenice:/ che vi sia ciascun lo dice,/ dove sia nessun lo sa” (qui Mozart, o meglio il suo librettista, riprende par pari il Metastasio). Ci si potrebbe perfino chiedere se il suo ultimo, inconscio ricordo non sia rintracciabile nella stella che adorna la cima dell’albero di Natale.

Infine, a suggello di queste considerazioni, ci piace riportare qui gli ultimi versi (101-110) del carme Phoenix del latino Claudiano: “O felice erede di te stessa! Ciò per cui tutti ci dissolviamo/ a te dà forza; tu trai origine/ dalle tue stesse ceneri, la tua vecchiaia muore senza che tu perisca./ Tu hai visto tutto ciò che è stato; tu sei la testimone/ del volgersi di tutti i secoli; tu sai in quale epoca/ il mare riversò le sue onde sugli scogli stagnanti,/ quale anno abbia preso fuoco per gli errori di Fetonte,/ e nessuna calamità ti porta via, ma unica superstite/ rimani della Terra sottomessa; per te le Parche/ fatali fili non tessono, né hanno il potere di nuocerti”.

La Fenice e l’Urogallo

A questo punto possiamo ancora chiederci se l’aspetto della mitica Fenice sia stato originariamente ispirato da un uccello reale: ma quale? Per tentare di formulare un’ipotesi ragionevole, partiamo dal fatto che gli antichi scrittori che si occuparono della Fenice da un lato ne elogiarono il canto, dall’altro la paragonarono ad un gallo o a un’aquila, solitamente appollaiati su un grande albero. Ciò detto, leggiamo il passo dell’Iliade in cui Ipno, il dio del sonno, “salì su un abete altissimo, il più alto che allora crescesse sull’Ida, che si innalzava nell’aria fino al cielo. Qui si appollaiò, nascosto tra i rami dell’abete, simile all’uccello dalla voce limpida che sui monti gli dei chiamano khalkis e gli uomini kymindis” (Il. 14, 287-291).

Ma di quale uccello si tratta? Non è mai stato identificato fino ad ora. Tuttavia, appare chiaro che l’immagine di questo straordinario albero con il suo misterioso uccello corrisponde a quanto si legge nel De ave phoenice, dove la Fenice, appollaiata sulla cima dell’albero più alto, al sorgere del sole intona un canto meraviglioso. Questa corrispondenza è rafforzata dal fatto che questo uccello “dalla voce limpida” – menzionato da Omero insieme a un dio e a un abete altissimo che “si innalzava nell’aria fino al cielo” – aveva due nomi, uno dato dagli uomini e l’altro dagli dei, il che avvalora l’idea che si trattasse di un animale particolare, a cui il poeta attribuisce una certa importanza.

Insomma, se da un lato la Fenice appare come un mitico uccello canoro paragonabile sia al gallo che all’aquila, ma la vera identità del volatile che potrebbe averne ispirato l’immagine è sempre rimasta misteriosa, dall’altro finora nessuno è mai riuscito ad appurare la reale identità del khalkis omerico, l’uccello dalla voce limpida nascosto fra i rami di quell’altissimo abete e simile al dio del sonno.

Ma a questo punto la corrispondenza tra le caratteristiche della mitica Fenice e il khalkis omerico suggerisce un’ipotesi che sembra in grado di risolvere entrambi gli enigmi contemporaneamente. Infatti, considerando che khalkis (χαλκίς) ha la stessa radice di khalkos (χαλκός, “bronzo o rame”), con probabile riferimento ai riflessi metallici del suo piumaggio, questo enigmatico “uccello dalla voce limpida” tra i rami di un abete appare identificabile con un volatile molto particolare. Si tratta dell’urogallo, o gallo cedrone (Tetrao urogallus), il più grande dei gallinacei, “frequente nelle foreste settentrionali di abeti, delle cui gemme si nutre” (Tripodi, 2013, p. 263).

L’urogallo maschio sfoggia una sgargiante livrea colorata, dai riflessi metallici, in cui spiccano il petto verde-acciaio lucido, la testa con il collo e il dorso blu, le ali color bronzo, una bellissima coda a ventaglio di colore blu, screziata di bianco, e una caratteristica membrana rosso fuoco attorno agli occhi (Fig. 5).

Fig. 5. A sinistra: un urogallo con il suo sgargiante piumaggio dai riflessi metallici e gli occhi cerchiati di rosso; a destra: l’immagine stilizzata dell’urogallo nell’emblema della Regione Centrale (Keski-Suomi) della Finlandia.

Ma ciò che è più tipico di questo grande uccello è la sua straordinaria vocazione canora. Il canto dell’urogallo maschio inizia alle prime luci dell’alba, quando per gli altri uccelli la primavera non è ancora arrivata e la foresta è ancora silenziosa. L’urogallo, posizionato fieramente sul grosso ramo di un albero dove sta di vedetta, con le penne della coda sollevate a ventaglio, il collo eretto, il becco puntato verso il cielo, inizia il suo tipico gorgheggio per impressionare le femmine, emettendo richiami intensi e gutturali che echeggiano nella foresta, udibili fino a grandi distanze (Klaus, 2012, p. 183). A questo punto, appare evidente perché questo grosso gallinaceo, che col suo canto inconfondibile al sorgere del sole risveglia tutta la natura, abbia un rapporto speciale con Hypnos, il dio omerico del sonno.

Per quanto riguarda le sue dimensioni, molto più grandi di quelle di un gallo, il maschio può arrivare fino a 90 cm di lunghezza e 5 kg di peso. Ha quindi all’incirca le dimensioni di un’aquila, che Erodoto paragona alla Fenice egizia. Ciò sembra coerente con il fatto che, quando le mitologie antiche tentano di identificare la Fenice con un uccello reale, oscillano tra il gallo e l’aquila. L’urogallo, infatti, ha una sgargiante livrea, simile a quella del gallo (a cui è strettamente imparentato), nonché il suo richiamo mattutino, ma ha le stesse dimensioni dell’aquila. E certamente, questo uccello “dalla voce limpida” come ci dice Omero, grande, fiero e bellissimo, non passa inosservato: non a caso la sua sagoma è l’emblema del Keski-Suomi, una regione della Finlandia (Fig. 5).

Tra l’altro, il fatto che Omero collochi l’urogallo nell’Ida (Il. 14, 287), nome di una regione montuosa alle spalle di Troia – che il poeta non descrive mai come una montagna singola, bensì come una regione scoscesa e selvaggia (Il. 8, 47-48) – appare coerente con la nostra ipotesi sull’originaria ambientazione nordica dei poemi omerici (Vinci, 2017; Vinci, 2024b), il che spiega tutte le apparenti assurdità geografiche in essi contenute. Per inciso, secondo questa ipotesi, peraltro supportata da numerosissimi indizi, i poemi omerici si riferirebbero ad eventi precedenti alla discesa dei “biondi Achei” nel Mediterraneo e all’inizio della civiltà micenea in Grecia. Ciò consente immediatamente di spiegare tutte le innumerevoli contraddizioni, geografiche e di altro tipo, presenti nei due poemi. In particolare, la regione montuosa dell’Ida, che Omero colloca alle spalle di Troia, può essere identificata come un territorio ben preciso della Finlandia meridionale (Vinci 2021, p. 156; Vinci 2024b, p. 1358), che è ricco di foreste di abeti, l’habitat dell’urogallo.

In breve, la prima traccia della Fenice e dell’Albero Cosmico nella letteratura occidentale sembra trovarsi nel passo dell’Iliade letto in precedenza, in cui l’aspetto naturalistico si lega alla dimensione mitica che traspare dal rapporto tra l’urogallo e il dio del sonno, nonché dal fatto che uno dei suoi due nomi gli era stato dato dagli dei (per non parlare di quell’“abete altissimo che si innalzava fino al cielo”).

Notiamo anche, a proposito del leopardiano “Gallo Silvestre” citato in precedenza, che questa espressione è la traduzione letterale di cock-of-the-woods, uno dei nomi dell’urogallo nel mondo anglosassone (questa corrispondenza forse meriterebbe ulteriori indagini da parte degli specialisti).

A tutti gli indizi che sembrano indicare che il misterioso uccello menzionato nell’Iliade sia l’urogallo, vorremmo aggiungere un ulteriore elemento. Si riferisce a una caratteristica comportamentale tipica di questo animale, che si distingue per il suo atteggiamento estremamente aggressivo durante la stagione degli amori, al punto che alcuni individui arrivano a sfidare gli esseri umani e persino animali di grossa taglia come cinghiali e caprioli. Il livello di testosterone in alcuni maschi “devianti” può addirittura superare di cinque volte quello di altri maschi (Milonoff, 1992, p. 556).

Ma questa aggressività anomala, estremamente accentuata, suggerisce un significato plausibile per il nome che, secondo Omero, gli uomini avevano dato a questo uccello: kymindis (κύμινδις). Infatti, a nostro avviso, esso appare riconducibile al verbo kymainō (κυμαίνω), “essere furioso, arrabbiato, agitato”, che ben si attaglia alla sua natura particolarmente bellicosa. Per inciso, il verbo kymainō – dal termine kŷma (κῦμα, “schiuma”), riferito anche alla schiuma del mare, che infatti quando è in tempesta si dice che è “agitato”, come se fosse in preda alla rabbia – corrisponde al nostro “schiumare” (e, non a caso, in italiano diciamo “schiumare di rabbia”). In definitiva, ci sembra plausibile che kymindis possa essere una arcaica forma participiale e che significhi qualcosa come “schiumante”.

Affidiamo questa ipotesi ai linguisti per ulteriori indagini, che, se positive, potrebbero dare ulteriore sostegno all’ipotesi che questo enigmatico uccello sia identificabile con l’urogallo, anche considerando che l’altro nome, khalkis, attribuitogli dall’Iliade, ben corrisponde a una delle sue caratteristiche distintive, ovvero la lucentezza metallica del suo piumaggio. Insomma, se la plausibilità dell’accostamento di kymindis al verbo kymainō sarà confermata, si avrà la convergenza simultanea tra due delle caratteristiche più tipiche dell’urogallo – una legata al suo aspetto, l’altra al suo comportamento – e i rispettivi significati dei nomi che Omero attribuisce all’“uccello dalla voce limpida, che gli dei chiamano khalkis e gli uomini kymindis”.

È evidente, tuttavia, che l’urogallo può riflettere solo alcune delle caratteristiche attribuite alla Fenice (quali il peso e le dimensioni, la straordinaria bellezza, il canto mattutino ed il legame con il sole nascente), non la sua immortalità. È infatti normale che una metafora, per quanto azzeccata, non possa esprimere tutte le caratteristiche dell’entità che intende rappresentare.

Per quanto riguarda il suo habitat, l’urogallo non vive né sulle coste del Mediterraneo né in Anatolia, il che spiega l’impossibilità di identificarlo nel contesto tradizionale del mondo omerico. Ma come si può spiegare la persistenza del ricordo delle sue peculiari caratteristiche tra popoli lontani dalle foreste di abeti? A questo proposito, abbiamo già accennato al fatto che durante l’età del bronzo dovevano esistere importanti rotte commerciali tra l’Europa e il Mediterraneo orientale. Inoltre abbiamo visto che, secondo studi recenti, l’arte della navigazione si era presumibilmente sviluppata già durante l’era megalitica, quando, grazie all’Optimum Climatico Olocenico (HCO), le temperature medie erano significativamente più elevate di quelle odierne. Ora, è ragionevole supporre che il raffreddamento climatico connesso alla fine dell’HCO abbia costretto popolazioni che all’epoca vivevano nell’estremo nord a migrare verso regioni situate a latitudini inferiori, lontane dalle foreste di abeti che costituiscono l’habitat naturale dell’urogallo. Sebbene l’argomento richieda ulteriori studi e approfondimenti, già questa considerazione può contribuire a spiegare in qual modo il ricordo di questo straordinario uccello canoro, grande come un’aquila, si sia conservato in regioni anche molto distanti e molto diverse dal suo ambiente originario.

Conclusioni

In questo articolo abbiamo innanzitutto confrontato la figura della mitica Fenice tramandata dalle fonti classiche con figure analoghe presenti nelle mitologie di popoli e culture anche molto lontani nello spazio e nel tempo. Ora, considerando anche che i nomi tradizionali di alcune stelle corrispondono a nomi di uccelli, è emersa l’ipotesi che l’immagine della Fenice appollaiata sull’Albero del Mondo nasconda una metafora astronomica: il mitico uccello che muore e rinasce potrebbe essere simbolo della stella polare, la quale, a causa della precessione dell’asse terrestre, non rimane sempre la stessa ma viene periodicamente sostituita da un’altra stella, che nel tempo si avvicina di più della precedente al polo nord celeste, diventandone in un certo senso la reincarnazione. Questo spiega perché la Fenice sia stata direttamente collegata alla regalità, potendo anche simboleggiare efficacemente il passaggio della corona dal re defunto al suo successore.

A questo punto, abbiamo notato che lo sviluppo della navigazione e del commercio a lunga distanza anche in tempi molto antichi, come rivelato da studi recenti, conferisce plausibilità all’ipotesi dello scambio di informazioni astronomiche, che potrebbe spiegare la diffusione della figura della Fenice tra culture anche diverse e lontane tra loro.

Successivamente, quando ci siamo chiesti se le fattezze della Fenice fossero state inizialmente ispirate da un uccello reale, un confronto con un passo dell’Iliade che menziona un uccello non ancora identificato ci ha portato a ipotizzare che alcuni aspetti della figura della Fenice siano stati ispirati dallo splendido piumaggio, dalle dimensioni e dal comportamento peculiare dell’urogallo. Ma abbiamo anche discusso i limiti associati a questa identificazione, per quanto riguarda sia gli aspetti simbolici, sia quelli geografici, poiché l’urogallo non vive né sulle coste mediterranee né in Anatolia. Riguardo a quest’ultimo punto, abbiamo ipotizzato le ragioni – presumibilmente legate al cambiamento climatico dovuto alla fine dell’Optimum Climatico Olocenico – che potrebbero aver spinto alcune popolazioni antiche ad abbandonare le terre che avevano precedentemente condiviso con l’urogallo.

In ogni caso, anche se nel corso dei secoli si è perso non solo il ricordo dell’urogallo, ma anche il significato astronomico nascosto dietro la metafora della Fenice appollaiata sul suo altissimo albero, questa immagine simbolica, grazie al suo straordinario potere evocativo, ha continuato a essere trasmessa nonostante la perdita del suo significato originario, al punto da diventare metafora di altri concetti, quali l’immortalità e la resurrezione.

Sarebbe in ogni caso opportuno che studi futuri indagassero a fondo i contatti diretti o indiretti tra le diverse civiltà la cui mitologia presenta una figura simile alla Fenice. Questo contesto più ampio esula dallo scopo di questa analisi, però riteniamo che senz’altro meriti ulteriori approfondimenti e future ricerche. Dopotutto, è noto che in ogni campo del sapere, la proposta di una soluzione a un problema porta spesso alla necessità di affrontarne di nuovi.

L’articolo originale in lingua inglese è leggibile sul sito https://www.athensjournals.gr/mediterranean/2025-6655-AJMS-Vinci-02.pdf


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Felice Vinci, com.unica 10 novembre 2025

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