L’impotenza americana di fronte a Putin, l’analisi di Anne Applebaum

Il vertice in Alaska si chiude senza risultati: secondo la storica e giornalista americana, Trump ha di fatto smantellato i propri strumenti di pressione su Mosca
Il faccia a faccia in Alaska tra Donald Trump e Vladimir Putin non ha prodotto né accordi né svolte, ma ha rivelato qualcosa di più profondo: l’assenza di strumenti reali da parte degli Stati Uniti. Anne Applebaum, giornalista (premio Pulitzer nel 2004) e autorevole analista di relazioni internazionali, lo sintetizza con una frase netta in un articolo su “The Atlantic”: “Trump, per usare le stesse parole che lui una volta rivolse a Zelensky, non ha carte da giocare”.
La giornalista ricorda come, durante il suo mandato, Trump abbia più volte ostacolato l’aiuto all’Ucraina: ha bloccato spedizioni militari già autorizzate, promesso che non ci sarebbero stati nuovi invii di armi, tagliato o minacciato di tagliare i fondi a media indipendenti in lingua russa. Parallelamente, la sua amministrazione ha iniziato ad allentare le sanzioni, in maniera silenziosa ma costante. Due senatrici democratiche, Jeanne Shaheen ed Elizabeth Warren, hanno riassunto così la situazione: “Ogni mese trascorso senza agire ha rafforzato la mano di Putin, indebolito la nostra e minato gli sforzi ucraini per porre fine alla guerra”.
Per Applebaum, a Mosca tutto questo non è passato inosservato. Le televisioni russe celebrano gli attacchi americani a Zelensky e all’Europa, mentre Putin calcola con freddezza che non esiste più un prezzo reale da pagare. Trump può anche dichiarare di voler chiudere la guerra, ma senza sanzioni, pressioni diplomatiche o supporto concreto all’Ucraina, le sue parole restano un desiderio vano.
Il vertice di Anchorage ha avuto così i tratti della tragedia e della farsa. “È stato umiliante vedere un presidente degli Stati Uniti comportarsi come un cagnolino festante davanti al dittatore di un Paese molto più povero e meno influente, trattandolo da superiore”, scrive Applebaum. Mentre Putin parlava di “enorme potenziale del partenariato economico e d’investimento russo-americano”, Trump rinunciava perfino a chiedere un cessate il fuoco, preferendo evocare negoziati di pace che concedono al Cremlino tempo prezioso per continuare la guerra.
Il fatto che non sia arrivata un’aperta capitolazione ucraina viene letto da molti come un sollievo. Ma per Applebaum l’asticella è ormai al ribasso: Anchorage non sarà certo ricordata come un nuovo “accordo di Monaco” o un patto Molotov-Ribbentrop, eppure segna un punto di arrivo preoccupante. Non l’inizio di una nuova fase, ma il compimento di un lungo processo di indebolimento.
Negli ultimi anni, gli Stati Uniti hanno smantellato parte dei propri strumenti di politica estera. Dalle sanzioni economiche alla diplomazia, fino agli apparati informativi, intere agenzie sono state svuotate o affidate a figure inesperte e ostili alla loro stessa missione. Il risultato è che Washington ha perso la capacità di agire con prontezza e decisione.
“La verità – conclude Applebaum – è che gli Stati Uniti non hanno carte perché hanno scelto di regalarle. Se mai vorranno giocarle di nuovo, dovranno riconquistarle: armare l’Ucraina, ampliare le sanzioni, fermare gli sciami di droni letali, piegare l’economia russa e vincere la guerra. Solo allora potrà esserci la pace”.
Un messaggio duro, che va oltre il vertice in Alaska. Più che l’ennesima occasione mancata, Anchorage diventa il simbolo di un’America che ha abdicato al proprio ruolo di potenza guida, consegnando a Putin un vantaggio che sarà difficile recuperare.
>> Qui l’articolo integrale di Anne Applebaum su “The Atlantic”
A cura di Sebastiano Catte, com.unica 18 agosto 2025