A sette anni dalla tragedia del 14 agosto 2018, molte delle contraddizioni evidenziate nell’immediatezza del crollo del viadotto Polcevera (meglio noto come ponte Morandi) si sono purtroppo confermate nei fatti, mentre altre si sono ulteriormente aggravate. Nel frattempo, le indagini tecniche e giudiziarie hanno fatto il loro corso, ma il clima mediatico e politico ha continuato a oscillare tra giustizialismo impulsivo e calcoli opportunistici. Oggi è possibile fare un primo bilancio, pur ancora parziale, dell’intera vicenda.

La verità giudiziaria: un processo emblematico

Nel luglio 2022 ha preso formalmente avvio il processo penale presso il Tribunale di Genova a carico di 59 imputati, fra cui vertici di Autostrade per l’Italia (ASPI) e di Spea Engineering, oltre a funzionari del Ministero delle Infrastrutture. Le accuse spaziano dall’omicidio colposo plurimo, al disastro colposo, fino al falso ideologico. Nel 2024 il collegio giudicante ha acquisito le conclusioni della maxi perizia disposta dalla Procura, che ha confermato le gravi carenze manutentive sul ponte, risalenti ad anni addietro, e ha individuato in una corrosione progressiva degli stralli e in una sottovalutazione dei rischi le principali concause del crollo.

Tuttavia, nonostante l’evidente trascuratezza tecnica nella manutenzione, il quadro non ha ancora portato a un accertamento definitivo di responsabilità penali, ed essendo trascorsi ben 7 anni dai fatti, quanto meno si può affermare che esse non sono di palmare evidenza. Dagli atti depositati dalla Procura della Repubblica – che, ricordiamolo, rappresenta la pubblica accusa, quindi una parte processuale – è emerso altresì il ruolo non trascurabile delle omissioni e delle inerzie da parte della struttura ministeriale deputata al controllo della concessione. L’indagine ha quindi, al momento, restituito un quadro di corresponsabilità istituzionale, nel quale né il pubblico né il privato possono sentirsi del tutto estranei alla tragedia.

La revoca della concessione: dalla retorica alla transazione

La tanto sbandierata revoca “per giusta causa” della concessione ad ASPI, promessa con toni apocalittici dal Governo in carica nell’estate 2018 (cd. Governo Conte 1), si è risolta in una complessa operazione politico-finanziaria: nel 2021, dopo oltre due anni di incertezza giuridica e contrattuale, Cassa Depositi e Prestiti (CDP), insieme a Blackstone e Macquarie, ha acquisito l’88% del capitale di Autostrade per l’Italia dalla holding Atlantia (controllata dai Benetton), ponendo di fatto fine alla gestione privata della rete.

L’operazione – costata allo Stato 8,2 miliardi di euro – è stata presentata come “nazionalizzazione”, ma di fatto è un subentro tramite operazione di mercato, non una revoca per inadempimento. L’accordo ha evitato un contenzioso pluriennale, ma ha anche svelato l’impraticabilità della linea giustizialista che nel 2018 era stata brandita come dogma. Nessuna penale da 20 miliardi, nessuna decadenza unilaterale, nessuna esautorazione “immediata” del concessionario.

L’ammissione implicita è che si è scelto un compromesso: costoso per lo Stato, ma meno incerto sul piano giuridico rispetto a una revoca senza adeguata istruttoria. Eppure, nessuna riflessione autocritica è giunta da parte di chi, nel 2018, aveva garantito che “la concessione sarà revocata subito”. Anzi, si è assistito a una narrazione ribaltata: l’uscita dei Benetton è stata rivendicata come vittoria politica, dimenticando che essa è avvenuta non per via giudiziaria o amministrativa, ma attraverso l’acquisto delle loro quote.

La ricostruzione: un esempio virtuoso, ma non senza ombre

Il nuovo viadotto Genova San Giorgio è stato inaugurato il 3 agosto 2020, dopo una costruzione rapida e tecnicamente ineccepibile, affidata per la prima parte progettuale all’architetto Renzo Piano con esecuzione da parte di Webuild (ex Salini Impregilo) e Fincantieri. L’intervento è stato portato a termine in tempi record grazie alla nomina di un Commissario straordinario (il sindaco Bucci), e all’adozione di deroghe al Codice degli appalti.

Un esempio virtuoso, dunque? Sì, ma anche figlio di un contesto emergenziale. La deroga alle procedure ordinarie – per quanto comprensibile – ha sollevato interrogativi sulla replicabilità del “modello Genova” in assenza di stati di emergenza e commissariamenti straordinari. La rapidità non può sostituire la regolarità. L’eccezione non può diventare regola. E non può bastare a sanare il fallimento strutturale della gestione ordinaria delle infrastrutture.

Il ruolo dello Stato: vigilanza ancora insufficiente?

In questi anni, il Ministero delle Infrastrutture ha rivendicato un rafforzamento delle attività ispettive. È stata istituita l’ANSFISA (Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali), che ha tra i suoi compiti proprio il controllo sullo stato di ponti, viadotti e gallerie. Tuttavia, il numero delle ispezioni effettuate e i mezzi a disposizione dell’Agenzia restano insufficienti rispetto alla vastità della rete.

La relazione della Corte dei Conti del 2022 ha sottolineato le persistenti carenze di personale tecnico qualificato all’interno delle strutture ministeriali. A distanza di anni dal crollo, non vi è ancora una mappatura completa e aggiornata delle infrastrutture a rischio. Le previsioni della legge di bilancio 2023 hanno previsto ulteriori fondi per la manutenzione, ma l’attuazione concreta appare lenta.

Il rischio, oggi, è che ci si illuda che “il peggio sia passato” solo perché si è costruito un ponte nuovo. Ma la sicurezza infrastrutturale è un processo, non un evento. E non è detto che basti cambiare il nome del concessionario per cambiare la cultura amministrativa.

L’effetto sistema: tra memoria e oblio

Dal 2018 a oggi, l’attenzione mediatica sulla vicenda è scemata, come spesso accade in Italia dopo le tragedie. Le vittime – 43 morti – sono state oggetto di cerimonie, interviste e proclami, ma non ancora di verità processuale definitiva (anzi, ad oggi, neppure parziale). La commissione parlamentare d’inchiesta, auspicata da molti, non ha mai visto la luce. La memoria si affievolisce, mentre le cause sistemiche che hanno portato al disastro restano in gran parte irrisolte: carenze nella vigilanza pubblica, concessioni mal negoziate, commistione tra potere tecnico, politico ed economico.

Il crollo del ponte Morandi non è stato solo un errore tecnico. È stato il frutto di un sistema e di un modus operandi che ha smarrito il senso della responsabilità pubblica. Un sistema in cui la manutenzione viene sacrificata sull’altare del margine operativo, e il controllo pubblico si riduce a formalità. Un sistema che – nonostante l’allarme lanciato dagli ingegneri già negli anni Novanta – non ha saputo (o voluto) agire. E che ha poi trasformato il cordoglio in propaganda, l’analisi in accusa, il diritto in slogan.

Considerazioni (non ancora finali)

Alla luce di questi approfondimenti, la vicenda processuale penale del crollo del ponte Morandi può dirsi tutt’altro che conclusa, ma in riferimento a quella amministrativa si conferma come caso-scuola di devianza sistemica: un intreccio perverso tra debolezza dei controlli, privatizzazione delle rendite, lentezza delle risposte istituzionali e ipertrofia comunicativa. Una tragedia figlia non di un errore individuale, ma di un modello culturale che ha progressivamente eroso il senso del dovere pubblico.

Il bilancio, dunque, è ancora sospeso. Ma una certezza emerge: lo “spirito del tempo” che nel 2018 chiedeva punizioni esemplari si è trasformato, nel tempo, in un compromesso fragile, sorretto dall’oblio collettivo. E forse proprio in questo sta l’anomalia più grande: che, alla fine, tutti i decisiori pubblici parlino costantemente di “svolta” mentre tutto resta sostanzialmente uguale.

Marco Mariani, com.unica 13 agosto 2025

* L’autore è già intervenuto sull’argomento nei giorni successivi alla tragedia. Qui il LINK all’articolo.


Marco Mariani è avvocato | docente universitario a contratto | presidente della commissione “Administrative and Regulatory Law” dell’UIA – Unione Internazionale degli Avvocati.

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