Fuori dalla festa: Martone racconta Cannes meglio di Cannes stessa

“Il compito dell’artista è scuotere, turbare. L’arte vera non consola.”
— Elia Kazan
Con Fuori, Mario Martone non ha semplicemente presentato un film al Festival di Cannes 2025. Ha sfidato l’intero impianto di un evento che un tempo era laboratorio di futuro e oggi è sempre più vetrina del presente più vuoto. Il suo film arriva come un corpo estraneo, come un detenuto che si rifiuta di indossare la divisa che gli è stata assegnata. Ed è proprio questo rifiuto, questo restare “fuori” dai codici spettacolari e dalle aspettative dorate della Croisette, che lo rende necessario.
Fuori è tratto da L’università di Rebibbia di Goliarda Sapienza, un’opera già di per sé scomoda, borderline, mai completamente assorbita dal canone. Racconta l’esperienza carceraria dell’autrice in un’Italia in cui la detenzione femminile, la marginalità, il desiderio di identità e dignità si intrecciano in un tessuto emotivo ruvido e carnale. Valeria Golino dà corpo a una Goliarda frammentata, testarda, dolente, accompagnata da una Matilda De Angelis e un’inedita Elodie che incarnano altrettanti volti di un’umanità ignorata.
Martone dirige senza spettacolarizzare, senza estetizzare il dolore. La macchina da presa si muove come se chiedesse permesso, come se non volesse profanare. In questo modo, il carcere non è solo lo spazio della narrazione, ma diventa metafora della condizione femminile, della cultura marginalizzata, della stessa arte che cerca spazio nel rumore del marketing.
Ed è qui che il cortocircuito con Cannes diventa inevitabile. Perché Fuori viene presentato in un festival che ormai ha più fotografi che critici, più passerelle che pensiero, più outfit che opere. Cannes 2025 ha confermato, se ancora ce ne fosse bisogno, la sua trasformazione definitiva in evento glamour-globalizzato. I film che si parlano addosso, i premi che sembrano già scritti, le polemiche costruite ad arte per far rumore.
Nel mezzo di tutto questo, Fuori sembra quasi chiedere scusa per esistere. Ma non dovrebbe. È il film che Cannes avrebbe dovuto pretendere, non semplicemente accettare. Un film che non consola, non distrae, non compiace. Un film che rivendica lo statuto del cinema come spazio politico, critico, radicalmente umano.
Martone, che non è mai stato un regista accomodante, affonda qui un colpo forse definitivo: non tanto contro Cannes in sé, ma contro l’idea di cultura ridotta a cerimonia. Il suo è un cinema che vuole ancora servire a qualcosa, e che per questo rischia di restare fuori dalla porta principale del sistema.
Ma forse è proprio lì che bisogna stare oggi: fuori. Fuori dalle convenzioni, dalle narrazioni preconfezionate, dalle liturgie dell’intrattenimento. E Fuori, nel suo stesso titolo, contiene la dichiarazione d’intenti più radicale e onesta che il cinema italiano potesse fare in un momento storico in cui tutto sembra gridare per farsi vedere, ma nessuno più parla per farsi ascoltare.
Se Cannes vorrà essere davvero un festival e non solo una fiera, dovrà ricordarsi di film come questo. Altrimenti resterà solo ciò che già troppo spesso appare: una gigantesca sala d’attesa per influencer, in cui i film veri si vedono solo di sfuggita, come fantasmi. E i registi come Martone, che ancora credono che il cinema sia un gesto politico, continueranno ad arrivare, puntuali e fuori luogo, per ricordarcelo.
Carlo Di Stanislao, com.unica 23 maggio 2025