Elena Loewenthal commenta su “La Stampa” la legge approvata dal Parlamento polacco che fissa una pena massima di tre anni di carcere per chiunque accusi la Polonia di complicità con i crimini nazisti.

Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale vivevano in Polonia circa tre milioni e mezzo di ebrei, che componevano grosso modo I’11% della popolazione totale. Nel 1945 erano duecentomila, ed è terribilmente facile fare i conti: il 90 per cento è stato sterminato. Nel 2010 erano poco più di tremila. Che lo voglia o no, la Polonia è a un tempo il simbolo e l’essenza dello sterminio, con il vuoto assurdo che si ritrova. La legge appena approvata dal Parlamento polacco è a un tempo scandalosa e coerente: la «dismissione» della Shoah, il fatto di rinnegarla in quanto parte del passato polacco è l’ultimo atto di quel secolare e non di rado violento senso di estraneità che il Paese ha manifestato verso i «suoi» ebrei. Basti pensare che più di un anno dopo la fine della guerra, e precisamente il 4 luglio del 1946, con la cenere residuale dei forni crematori ancora a concimare il terreno delle campagne, in una cittadina polacca di nome Kielce 40 ebrei furono ammazzati e più di 80 feriti nel corso di un vero e proprio pogrom innescato dalla diceria secondo cui alcuni di loro avevano rapito un bambino per usarne il sangue – secondo il più classico e assurdo copione della violenza antiebraica, dal Medioevo in poi. 

I massacri 
Nel pieno della guerra, il 10 luglio del 1941, sotto gli ordini delle Einsatzgruppen – i gruppi speciali dell’esercito tedesco attivi nei territori occupati – i civili polacchi del posto massacrarono decine di ebrei nella piazza della cittadina di Jedwabne. Più di diecimila ebrei furono uccisi dai tedeschi, ma soprattutto dal solerte personale ausiliario polacco, durante le operazioni di deportazione nel ghetto di Varsavia.
Per riassumere la complicità polacca nello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti lo storico Havi Dreyfuss, capo del Centro di ricerche sull’Olocausto in Polonia allo Yad Vashem di Gerusalemme, cita un dato: «Fra i 250 mila ebrei polacchi che tentarono di rifugiarsi nelle campagne polacche meno del 10 per cento sopravvisse perché la grande maggioranza venne consegnata dalla popolazione locale ai tedeschi». 
La grande storia dell’ebraismo polacco, con i suoi grandi numeri, prende le mosse intorno alla fine del XVIII secolo, quando l’impero russo stabilisce la cosiddetta «zona di residenza» ai propri margini occidentali – di fatto espellendo tutti gli ebrei dal resto del territorio e confinandoli in quella fascia di confine che comprendeva gran parte delle attuali Bielorussia, Lituania, Bessarabia, Ucraina e Polonia. 
Qui prende vita quel mondo ebraico mitico eppure vero fatto di shtetl, piccoli borghi, e di popolosi quartieri urbani, di devozione religiosa, grande letteratura, insigni maestri della tradizione ma anche lattivendoli e straccioni. Sempre tenuti ai margini, e non solo geografici, perché gli ebrei in Polonia sono sempre stati considerati degli estranei: venivano da lontano, che fosse Gerusalemme dove secondo il cattolicesimo più stretto avevano ucciso Gesù, o la Russia zarista che era dominatore straniero e che lì aveva scaraventati lì. 
Certo, la Shoah è stata concepita e portata avanti dalla Germania nazista. Lo ha sottolineato proprio in questi giorni da Gerusalemme colui che ne è forse il maggior storico vivente, Yehuda Bauer: «E ovvio che i campi di sterminio erano campi tedeschi sul suolo della Polonia. Ma l’insistenza con cui il governo polacco ripete ciò che tutti i centri di ricerca e i memoriali della Shoah danno per assodato sembra nascondere il vero intento della legge in questione…». Non è questione di colpe, ma di una responsabilità storica (fra l’altro al centro della Conferenza Internazionale sull’antisemitismo tenutasi qualche giorno fa presso il nostro ministero degli Esteri) che non può non essere condivisa da tutta l’Europa. 

A caccia con i forconi 
È vero, ci fu chi si ribellò. È vero che se è sopravvissuto alla Shoah un ebreo lo deve al coraggio e al senso di giustizia di chi non accettò. Anche in Polonia, certo. Come la famiglia Ulma, che pagò con la vita e a cui è dedicato il «Museum of Polish Saving Jews» a Markowa. Ma il messaggio globale del museo che presenta i polacchi come una nazione di salvatori, «è una bugia sfacciata», scrive ancora Bauer. Su circa 21 milioni di polacchi gli storici stimano che circa 20.000 persone si diedero attivamente a proteggere gli ebrei – «dai tedeschi ma soprattutto dai loro vicini polacchi». Che non di rado nelle campagne andavano a caccia degli ebrei armati di forconi per poi consegnarli ai tedeschi, spiega ancora Bauer, secondo cui il provvedimento attuale è un brutto colpo in primis alla ricerca storiografica 
Che d’ora in poi in Polonia, in nome di un tanto astratto quanto insidioso «onore nazionale», sarà pesantemente frenata da un’autocensura di protezione, per evitare sanzioni.

(Elena Loewenthal, La Stampa 43 febbraio 2018)