Perché allentare i vincoli sulla politica economica e restituire autonomia politica ai governi eletti potrebbe essere auspicabile. L’analisi dell’economista dell’Università di Harvard Dani Rodrik per Project Syndicate.

CAMBRIDGE – I populisti odiano i vincoli imposti all’esecutivo politico. Poiché sostengono di rappresentare “il popolo” a grandi lettere, essi considerano qualunque limite imposto all’esercizio del loro potere come un qualcosa che pregiudica la volontà popolare. Nella loro ottica, tali vincoli possono tornare utili soltanto ai “nemici del popolo”, cioè le minoranze e gli stranieri (per i populisti di destra), oppure le élite finanziarie (per i populisti di sinistra).    

Un approccio di questo tipo è pericoloso poiché consente a una maggioranza di calpestare i diritti delle minoranze. Senza una separazione dei poteri, una magistratura indipendente o dei mezzi d’informazione liberi – detestati da tutti gli autocrati populisti, da Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan, fino a Viktor Orbán – la democrazia degenera nella tirannia di chiunque sia in carica.    

Quando i populisti sono al potere, le elezioni periodiche servono solo a gettare fumo negli occhi. In assenza dello stato di diritto e delle libertà civili fondamentali, i regimi populisti riescono a prolungare la propria esistenza manipolando i mezzi d’informazione e il potere giudiziario a loro piacimento.

La loro avversione per i vincoli istituzionali si estende anche all’economia, dove l’esercizio del pieno controllo “nell’interesse del popolo” implica zero ostacoli da parte di organismi regolatori e banche centrali indipendenti, o di normative commerciali mondiali. Ma mentre il populismo in ambito politico risulta quasi sempre dannoso, il populismo economico riesce talvolta a trovare una giustificazione.   

Partiamo dalle ragioni per le quali i vincoli alla politica economica sarebbero auspicabili. Gli economisti tendono ad avere un debole per tali restrizioni, poiché una politica molto sensibile ai tira e molla interni può risultare altamente inefficiente. In particolare, la politica economica è spesso soggetta al problema di ciò che gli economisti chiamano “incoerenza temporale”: gli interessi di breve termine spesso minano l’esecuzione di politiche che risultano molto più opportune nel lungo periodo.    

Un esempio canonico è la politica monetaria discrezionale. I politici che hanno il potere di stampare moneta a volontà possono dare adito a una “inflazione a sorpresa” per incrementare la produzione e l’occupazione nel breve termine, ad esempio prima delle elezioni. Questa strategia, però, ha un effetto boomerang in quanto imprese e famiglie adeguano le proprie aspettative di inflazione di conseguenza. Il risultato finale è soltanto un aumento dell’inflazione senza vantaggi  produttivi od occupazionali. La soluzione è una banca centrale indipendente, isolata dalla politica, che adempia esclusivamente al mandato di garantire la stabilità dei prezzi. 

I costi del populismo macroeconomico si evincono dall’esperienza dell’America Latina. Come hanno osservato Jeffrey D. SachsSebastián Edwards e Rüdiger Dornbusch qualche anno fa, politiche monetarie e fiscali insostenibili sono state la rovina della regione finché, negli anni novanta, non si è andata affermando una maggiore ortodossia in campo economico. Le politiche populiste producevano periodicamente gravi crisi economiche che andavano a colpire soprattutto le fasce più povere della popolazione. Per interrompere questo circolo vizioso, la regione è ricorsa a norme fiscali e alla nomina di tecnici alla guida dei ministeri delle finanze.      

Un altro esempio è il trattamento ufficiale degli investitori esteri. Quando un’impresa straniera realizza un investimento, essenzialmente diventa ostaggio dei capricci del governo ospite. Le promesse inizialmente fatte per attrarla vengono dimenticate in quattro e quattr’otto e sostituite da politiche volte a spremerla il più possibile a vantaggio del bilancio statale o delle aziende nazionali.

Gli investitori, però, non sono degli sprovveduti e, temendo questo, investono altrove. La necessità dei governi di riaffermare la propria credibilità ha, perciò, dato adito ad accordi commerciali contenenti clausole per la risoluzione delle controversie tra investitore e Stato (ISDS), che consentono alle aziende di rivolgersi a tribunali internazionali per fare causa a un governo. 

Questi sono esempi di vincoli alla politica economica sotto forma di delega ad agenzie indipendenti, tecnocrati o norme esterne. Come appena descritto, esse svolgono il prezioso compito di impedire ai governanti in carica di darsi la zappa sui piedi portando avanti politiche poco lungimiranti.

Ma esistono anche altri scenari in cui le conseguenze dei vincoli alla politica economica possono essere meno salutari. In particolare, si tratta di restrizioni che possono essere introdotte da interessi speciali o dalle élite stesse per assicurare un controllo permanente sul processo decisionale. In questi casi, la delega ad agenzie indipendenti o l’adesione a regole globali non è al servizio della società, bensì solo di una ristretta casta di “addetti ai lavori”.

Un parte dell’odierna reazione populista affonda le radici nella convinzione, non del tutto ingiustificata, che questo scenario riflette ampiamente le politiche economiche degli ultimi decenni. Le multinazionali e gli investitori hanno esercitato un’influenza sempre maggiore sui negoziati commerciali internazionali, dando adito a regimi globali che avvantaggiano in modo sproporzionato il capitale a scapito del lavoro. Le severe norme sui brevetti e i tribunali internazionali per gli investitori sono tra i principali esempi, e lo è anche l’asservimento di agenzie indipendenti da parte delle industrie che dovrebbero regolamentare. Le banche e le altre istituzioni finanziarie sono state particolarmente brave a ottenere quello che volevano e a introdurre regole che lasciano loro carta bianca.

Le banche centrali indipendenti hanno avuto un ruolo cruciale nel ridurre l’inflazione negli anni ottanta e novanta. Nell’attuale regime di bassa inflazione, però, la loro concentrazione sulla stabilità dei prezzi conferisce una tendenza deflazionistica alla politica economica ed è in contrasto con la creazione di posti di lavoro e la crescita.

Questa “tecnocrazia liberista” potrebbe aver raggiunto il suo apogeo nell’Unione europea, dove le norme e le regolamentazioni economiche vengono formulate attraverso un processo che è ben  distante dalla deliberazione democratica a livello nazionale. E praticamente in ogni stato membro, questo divario politico – il cosiddetto deficit democratico dell’Ue – ha dato origine a partiti populisti ed euroscettici.

In questi casi, allentare i vincoli sulla politica economica e restituire autonomia politica ai governi eletti potrebbe essere auspicabile. Tempi eccezionali richiedono la libertà di sperimentare in ambito economico. Il New Deal di Franklin D. Roosevelt offre un esempio storico perfetto. Le sue riforme implicarono la rimozione delle catene economiche imposte da giudici conservatori e interessi finanziari in patria, e dal sistema aureo all’estero.

Dovremmo sempre diffidare del populismo che soffoca il pluralismo e mina le norme democratiche liberali. Il populismo politico è una minaccia da evitare a tutti i costi. Il populismo economico, invece, può essere talvolta necessario e, di fatto, rivelarsi in alcuni momenti l’unico modo per tenere a bada il suo ben più pericoloso cugino politico.

(Dani Rodrik, project-syndicate gennaio 2017)

*Dani Rodrik è un economista di origine turca ed è professore di Economica Politica Internazionale all’Università di Harvard. È autore di svariati saggi economici, tra cui La globalizzazione intelligente (2011), pubblicato in Italia da Laterza.