Dopo una vita avventurosa ed errante si era trasferito in Israele. Nel suo ultimo articolo la sua netta posizione su Gerusalemme capitale.

Aharon Appelfeld, uno dei massimi scrittori isaeliani, è morto ieri all’età di 85 anni. Era nato nel 1932 a Czernowitz, nella regione della Bucovina, oggi divisa tra Romania e Ucraina. Di famiglia ebraica, fino all’approdo in Israele ha condotto un’esistenza errante sin da bambino: deportato in un campo di concentramento insieme al padre, dopo che i nazisti ne avevano ucciso la madre. Ben presto, a soli otto anni, fuggì e trascorse i successivi tre anni vagando per i boschi. Nel 1944 venne raccolto dall’Armata Rossa, prestò servizio nelle cucine da campo in Ucraina e poi riuscì a raggiungere l’Italia. Sulla soglia dell’adolescenza, si ritrovò a Napoli insieme a masse di profughi ebrei sopravvissuti alla Shoah: dopo qualche mese riuscì a imbarcarsi per la Terra Promessa, dove è vissuto da allora e dove tornò a ricongiungersi col padre dopo un distacco durato ben 12 anni.

Appelfeld è stato un autore prolifico: i suoi libri, ha scritto oggi su La Stampa Elena Lowenthal, sono tutti calati in quel mondo che non c’è più, da Paesaggio con Bambina a Il ragazzo che voleva dormire a Il partigiano Edmond. In italiano sono tutti pubblicati da Guanda. E soprattutto Storia di una vita, in cui parla per la prima volta in prima persona della sua vicenda. Nel libro il male è affondato nella memoria, vi si è depositato. E insieme al male anche la solitudine, il senso di isolamento linguistico e di sradicamento culturale, la crudeltà indescrivibile degli aguzzini. Appelfeld ci parla del suo piccolo villaggio nei Carpazi, del sapore delle fragole, della dolcezza della madre; e soltanto poi racconta della propria infanzia spezzata, della fuga solitaria dopo essere rimasto orfano, del suo sopravvivere per tre lunghi anni, come un piccolo animale braccato, nei boschi dell’Ucraina. È una storia incredibile, in cui anche dopo l’arrivo in Israele, emergeranno all’inizio le difficoltà che sarà costretto ad affrontare un giovane solo e spaesato, incapace di vivere immediatamente appieno la religione e ancora legato a una lingua, il tedesco, che per lui è quella della madre, mentre per il suo nuovo paese è il terribile idioma dei persecutori.

“La Shoah era per lui una sorta di Chernobyl, che richiede grande precauzione per essere affrontata” ha sottolineato oggi lo scrittore Amos Oz, suo amico personale.


Riprendiamo da La Stampa il suo ultimo articolo, dal titolo “Ma Donald non è pazzo. La città è il luogo degli ebrei. L’Europa legga la Bibbia” del 14 dicembre scorso, raccolto da Francesca Paci.

Dopo averlo sentito negare per oltre vent’anni finalmente arriva un politico e afferma che Gerusalemme appartiene agli ebrei. Se volete è addirittura ridicolo. C’è la Bibbia e ci sono valanghe di libri di Storia sul rapporto tra Gerusalemme e gli ebrei. È stata la propaganda, soprattutto quella islamista, a diffondere l’idea che la Città santa non avesse alcun rapporto con noi. Non si vuole riconoscere che invece Gerusalemme è il cuore d’Israele, è l’identità ebraica dello Stato.  

Detto questo non sono certo contento. Parliamo di una storia incompleta, abbiamo deragliato dal percorso di pace, non vedo alcuna riconciliazione all’orizzonte a meno di riconoscere che Israele è lo Stato degli ebrei. È questo il punto, a mio parere: manca la volontà di trovare un accordo, se lo si volesse veramente tutto verrebbe risolto, compresa la questione di Gerusalemme. 

Trump è un businessman, non è un pazzo. Nominando la capitale d’ Israele si è guardato bene dal parlare di tutta Gerusalemme. Lo ripeto, il punto di partenza è riconoscere l’identità ebraica del Paese – che è stato invece demonizzato per decenni – e poi tutto il resto sarà negoziabile. E mi meraviglio dell’Europa che, cresciuta com’è studiando il vecchio e il nuovo Testamento, si ostina a negare l’evidenza, non è possibile distinguere tra l’ebraismo e Gerusalemme. Facciamo piazza pulita della propaganda e poi torniamo a sederci a parlare di pace.  

Capisco che i palestinesi siano delusi, vent’anni di trattative non hanno prodotto nulla. Ma non sono stati seri. L’idea di riportare a casa tre milioni di arabi della diaspora in un Paese piccolo come il nostro non può essere una pre-condizione perché è una follia, ci distruggerebbe da dentro. Ragioniamo in modo costruttivo piuttosto, la terra per la terra, l’acqua per l’acqua, chiediamo investimenti sostanziosi per entrambi all’America e all’Europa.  

Il rischio di una guerra c’è, c’è sempre. Ma non scoraggiamoci, non mi pare che oggi la tensione sia maggiore rispetto al passato: siamo abituati a una costante Intifada a bassa intensità, non c’è mai stato un giorno di vera pace in Israele. Stiamo a guardare: Trump è diverso da Obama, e non tocca a me stabilire quale presidente sia il migliore. Il secondo voleva che gli Stati Uniti si disimpegnassero dalle vicende degli altri Paesi mentre il primo, con tutta evidenza, la pensa in maniera opposta.