Intervista di Francesca Paci (La Stampa) allo scrittore algerino Kamel Daoud

Guai a magnificare con Kamel Daoud le profondità della sua lingua, l’arabo. La risposta giunge lapidaria: «Non è la mia lingua, non più di quanto il latino lo sia per gli italiani. Ci sono invece i dialetti, l’egiziano, l’agerino e tutti gli altri». Ha modi spicci Daoud, l’intellettuale che con Il caso Meursault ha volto Lo Straniero di Camus dalla parte dell’arabo. 

È spigoloso come la sua scrittura, sempre scomoda per il lettore. Polemista irriverente, che dopo il Capodanno di Colonia si scagliò contro la sessuofobia dei giovani migranti magrebini, Daoud è soprattutto il cronista che da 15 anni racconta su Le Quotidien d’Oran la natia Algeria. Nel nuovo libro, Le mie indipendenze (La nave di Teseo), raccoglie una selezione degli oltre duemila articoli pubblicati tra il 2010 e il 2016. 

Perché ha deciso di rompere il silenzio scelto all’indomani delle polemiche su Colonia?

«Non sono stato in silenzio, ho scritto articoli, libri. Ho voluto riprendere il controllo su quanto avevo scritto dopo CoIonia poiché si voleva che ci tornassi sopra di continuo». 

Lo riscriverebbe, alla luce delle inchieste poi sgonfiatesi? 

«Sì, identico. L’evento di Colonia non è importante in sé, è una riflessione sul corpo della donna. Sono temi su cui è più facile stare zitti. Se taci sei complice, se parli rischi la strumentalizzazione. Le mie idee vengono usate dalla destra? Pazienza. I giornalisti sono testimoni dell’epoca, hanno un imperativo morale». 

Dice di pesare i popoli in base al loro rapporto con la donna: cosa pensa del caso Weinstein? 

«La donna in occidente è più libera ma è comunque vittima di pressione. Non dico che il clima di Hollywood possa essere paragonato alle lapidazioni a Kabul, ma sebbene la formula sia diversa è un altro modo di ridurre la donna al suo corpo». 

La donna è il metro del rapporto tra mondi diversi che le migrazioni forzano al contatto. Cosa intende scrivendo che il Mediterraneoè la nuova cortina di ferro? 

«I migranti sono ormai materia politica. Purtroppo abbiamo lasciato il campo agli estremisti che, diversamente dai partiti tradizionali, sanno usare le parole giuste per manipolare i giovani. In questo le destre somigliano agli islamisti, pompano la retorica dell’occidente crociato e vagheggiano false soluzioni. Promettere la chiusura delle frontiere è inutile. L’immigrazione è un dramma inevitabile. Non biasimo né chi fugge né chi qui vuole difendere la sua casa, l’equilibrio è complicato, bisogna tenere fermi i valori: non si vive senza accettare l’altro ma neppure facendosi sottomettere. Non capisco però la criminalizzazione dell’occidente che, come tutti, difende i suoi interessi. La gente migra verso Francoforte e non verso Riad: l’accento sul dramma dell’arrivo non può far dimenticare il dramma della partenza». 

Il migrante accende la paura del diverso ma anche del terrorismo islamista. Ci ricordiamo ora dell’Algeria Anni 90? 

«Gli algerini vivono quanto accade in Europa come un déjà vu, una sorta di vendetta per quando ci ripetevate che il Fis aveva vinto le elezioni e rilasciavate più facilmente visti agli islamisti che agli studenti democratici desiderosi di andar via. Ora provate la nostra solitudine e vi fate le nostre domande: democrazia o sicurezza? Molti, come noi, preferiranno la sicurezza».

Le sue critiche a Riad sono note. Che opinione ha di Mohammad bin Salman e della Vision 2030? 

«Quando ho definito l’Arabia Saudita un Isis che ce l’ha fatta sono stato attaccato duramente. La situazione è critica, c’è il rischio di una guerra infinita in Yemen, c’è la questione dei diritti umani calpestati a cominciare da Raif Badavi. Ma la Vision 2030 è enorme. Se riuscisse a imporre il cambiamento nella lettura dei testi religiosi, l’apertura al turismo, il trattamento delle donne e dei cristiani, avrebbe un impatto spettacolare, l’islamismo perderebbe soldi e opportunità. Lo jihadismo non è stato ancora sconfitto anche a causa della resistenza di Riad: un cambio di passo avrebbe conseguenze clamorose in tutto il mondo sunnita». 

Cosa succede in Algeria, il grande enigma della regione?

«Nessuno lo sa. Il Paese è passato dalla guerra di liberazione a quella civile, è paralizzato dalla paura. Che succederà dopo Bouteflika? L’Algeria è paradossale, chiusa, una caserma, la chiamano la Corea del Nord del Nord Africa. La classe politica è over 60 e il popolo è in gran parte under 30. Quando nel 2011 i ragazzi hanno sognato la loro primavera è prevalso il terrore, alimentato dal regime, di finire come l’Egitto o la Siria. Siamo l’unico Paese da cui i giovani non se ne vanno per lavoro ma per andare al cinema».

(Francesca Paci, La Stampa 21 dicembre 2017)