Due mondi lontanissimi, l’analisi del Times of Israel.

Sono solo 22 i chilometri tra Gerusalemme e Ramallah, ma le due città appartengono a due mondi diversi”, scrive Aviva Klompas. “Abbiamo lasciato il nostro hotel di Gerusalemme la mattina presto diretti verso nord. Dopo trenta minuti abbiamo superato i grandi cartelli rossi che dicono, in ebraico, arabo e inglese: ‘L’ingresso nell’area A sotto Autorità Palestinese è vietato ai cittadini israeliani: è pericoloso per le vostra vita e contrario alla legge israeliana’. Subito dopo siamo arrivati alla nostra prima destinazione, il campo profughi al-Am’ari. Il nostro gruppo, composto da accademici americani, è sceso dall’autobus nel caldo di giugno. Situato poco a est di Ramallah, al-Am’ari è uno dei 19 campi profughi creati in Cisgiordania ai tempi dell’occupazione giordana e oggi si trova nell’area A, vale a dire sotto controllo dell’Autorità Palestinese (in base agli accordi di pace degli anni 90). In realtà, il governo palestinese si rifiuta di assumersene la responsabilità e di fornire servizi di base ai 7.000 residenti del campo che, di conseguenza, è diventato un focolaio di risentimento verso il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Siamo entrati nel campo passando sotto un grande arco con appesa una chiave, simbolo della volontà dei palestinesi di stabilirsi nelle case da cui i loro progenitori se ne andarono o furono allontanati durante la guerra arabo-israeliana del 1948.

Le strade sono colme di spazzatura. La nostra guida ci spiega che, fino a pochi anni fa, le acque di fogna scorrevano per le strade. L’Autorità Palestinese si è rifiutata di costruire tubi di scolo, per cui i consiglieri locali hanno raccolto i soldi necessari per installare i decrepiti tubi che vediamo correre lungo l’esterno degli edifici. Il nostro gruppo si aggirava con circospezione fra le pile di cibo guasto e rifiuti, mentre ci incamminavamo lungo vicoli tortuosi coperti di graffiti con chiavi giganti dipinte sui muri. Le saracinesche dei negozi erano coperte di manifesti inneggianti a “martiri” uccisi mentre commettevano attacchi terroristici contro israeliani. Dopo aver lasciato il campo, abbiamo percorso la breve distanza fino a Ramallah. Il contrasto è impressionante. Prosperoso centro cosmopolita, Ramallah appare pulita e moderna, con musei, centri culturali e caffè. Più tardi nel pomeriggio, uscendo da Ramallah abbiamo superato un cippo di pietra alla biforcazione della strada che porta nella valle sottostante. Il cippo ha la forma della terra che si estende tra il Mediterraneo, il Giordano e il Mar Morto, riflettendo verosimilmente i contorni del paese rivendicato per il futuro stato palestinese (Israele non risulta). Incastonato nel monumento, il volto di Muhannad Halabi.

Nell’ottobre 2015, Halabi ha compiuto un attentato a Gerusalemme uccidendo due ebrei. Il monumento sul bordo dell’autostrada è stato commissionato dalla Municipalità di Surda-Abu Qash, il paesino dove viveva Halabi. Dopo l’attentato, il sindaco definì il terrorista morto “vanto e motivo di orgoglio per tutto il villaggio”. Il circolo vizioso istigazione, terrorismo, glorificazione del terrorismo e ricompensa in denaro continua senza sosta. E finché continuerà, i 22 km tra Gerusalemme e Ramallah continueranno a separare due mondi a parte”.

(Times of Israel/Il Foglio 4 settembre 2017)