Dal 24 ottobre fino al 31 gennaio 2016 Roma ospita una grande mostra monografica dedicata all’opera di Balthus (1908-2001). L’esposizione, suddivisa in due sedi (Scuderie del Quirinale e Villa Medici) comprende circa duecento opere provenienti dai più importanti musei europei ed americani oltre che da prestigiose collezioni private. All’opera del pittore francese, uno dei maestri dell’arte figurativa del ‘900, è dedicato questo articolo di Vittorio Sgarbi pubblicato su “Il Giornale“.

Erede (cinquecento anni dopo) di Piero della Francesca, le sue opere vivono in un tempo sospeso e immutabile.

Ho riguardato le opere di Balthus in occasione della potente retrospettiva che Roma gli ha dedicato alle Scuderie del Quirinale. A Roma è la prima volta, nonostante essa sia stata la patria ideale del pittore che fu direttore di Villa Medici per sedici anni, dal 1961 al 1977, quando si ritirò, come un eroe in esilio, al Grand Chalet di Rossinière in Svizzera.

Era stato per quel tempo pittore per sé, e per pochi amici, ma aveva fatto vedere nella villa da lui restaurata, con sapienza di pittore, mostre di Giacometti, di Bonnard, di Derain, dei caravaggeschi europei, che io vidi ragazzo. Il primo luogo di ritiro lo aveva trovato in Tuscia, a Montecalvello, vicino a Viterbo. Ma nei tempi difficili e ingrati egli elaborava segretamente i capolavori che oggi vediamo, e non proponeva teorie o ideologie, ma, dimostrandosi in ciò esattamente l’opposto di Beuys, dichiarava sommessamente a chi gli chiedeva le ragioni della sua pittura: «scrivete così: Balthus è un pittore del quale non si sa nulla; e ora guardate i suoi quadri». Era il 1968, l’anno delle rivolte epocali, ed egli applicava a sé il metodo di Epicuro: «lathe biosas» (vivi nascostamente). Per te parleranno i quadri.

La sua riemersione inizia subito dopo il ritiro a Rossinière con la mostra, nel campo del nemico, voluta da Luigi Carluccio, alla Biennale di Venezia, nel 1980. Fu quello il momento del nostro incontro, e fui io, su incarico di Carluccio, a scegliere il luogo per l’esposizione. Non, come Balthus avrebbe preferito, alla Scuola della Carità dentro l’Accademia di Venezia, in uno spazio tra cielo e terra; ma alla Scuola di San Giovanni Evangelista, un meraviglioso edificio tardo quattrocentesco, come quelli dipinti da Vittore Carpaccio. Ma l’aula del primo piano era relativamente piccola, e le pareti coperte di dipinti tardo-manieristici, lontanissimi dai gusti di Balthus, come si sa, ultimo pittore, e pittore quattrocentesco. La mia apparizione nella pittura fu uno choc in quella Biennale, soprattutto perchè non era una mostra marginale, ma una mostra centrale, di quella Biennale. Due anni dopo fu il tempo del festival di Spoleto, un’altra mostra di mirabili disegni, con la cura di Giovanni Carandente, amico di Balthus, ma piuttosto sensibile al mondo che gli era lontano. E fu importante la sua convergenza sulla proposta di Carluccio. Poi fu di nuovo la volta di Venezia, con la grande mostra a Palazzo Grassi nel 2001, e io, allora al governo, feci la presentazione.

Dopo quasi quindici anni, Balthus ritorna, ed è intatta l’emozione e inalterato l’incanto. Vedo l’incredibile Chat de la Mediterranée, del 1949, insegna di un ristorante con i pesci che volano dal mare al piatto: un manifesto di libertà e follia. Vedo La Chambre, pazientemente dipinto tra il 1952 e il 1954, con la ragazza nuda abbandonata in una stanza, e la torva e chiatta serva che le apre la tenda per svegliarla con il disturbo della luce. Dalla penombra con gli incubi, i sonni, i sogni in quel morboso torpore. E vedo tutte le cattive ragazze che egli dispone nelle pose più insolite: La patience del ’43, Les Enfants Blanchard del 1937, Jeune fille au chat del ’45, La leçon de guitare del ’34 con la ragazza che suona l’amica, non lo strumento, in un perverso erotismo, e vedo poi Les beaux jours del ’44-46, con la ragazza discinta e scomposta che si specchia mentre un uomo le accende il fuoco, che è anche il «suo» fuoco. E ancora, Nue devant le cheminée del 1955, sola con il fuoco spento. E vedo l’opera sua forse più complessa e musicale, Le passage du Commerce Saint-André del ’51-53, rielaborazione della più antica e primitiva La Rue, del ’33, in una rimeditazione della Grand Jatte di Seurat, capolavoro della vita e dei tempi moderni alla luce di Piero della Francesca, visto giovanissimo nel 1926, in un passaggio ad Arezzo.

Ecco perché Balthus è l’ultimo pittore, come lui stesso diceva di sé, e perché resiste al tempo e appare oggi presente, attuale, e insieme fuori del tempo, come mi apparve 35 anni fa. Perché egli non ha studiato e ripetuto la lezione irraggiungibile di Piero della Francesca, ma ne ha assimilato il metodo e il pensiero. Balthus è Piero della Francesca, e il suo Passage du Commerce Saint-André è la moderna Flagellazione di Piero dipinta alla metà del secolo scorso, esattamente cinquecento anni dopo gli affreschi delle Storie della vera Croce in san Francesco ad Arezzo.

La prospettiva, il ritmo dei personaggi, la sospensione del tempo, in un’ora eterna, senza fine, esprime non uno spazio teatrale, cui pure allude, ma uno spazio mentale. Le figure cadono come emanazioni del pensiero di Balthus, e si sistemano secondo un ordine supremo, come quello divino che vuole Piccarda in Paradiso nel terzo cielo. Lì, e non altrove. Piccarda dice, riferendosi a Dio: “Anzi è formale ad esto beato esse/ tenersi dentro alla divina voglia,/ perch’una fansi nostre voglie stesse;/ sì che, come noi sem di soglia in soglia/ per questo regno, a tutto il regno piace/ com’a lo re che ‘n suo voler ne ‘nvoglia./ E ‘n la sua volontade è nostra pace».

Questo è l’ordine con cui, formalmente, Balthus compone, e questo rende le sue opere così remote e arcane, e così presenti e vive. Nessun altro artista ha inteso e interpretato lo spirito del primo Rinascimento italiano, scegliendo, borgesianamente, di vivere lì, in quegli anni, così come, nella sua vita, fu sempre indeterminata la sua età, essendo egli nato il 29 febbraio di non sappiamo quale anno. In un tempo sospeso, appunto. Lui, sempre giovane. Nell’immutabile tempo di Piero.

Vittorio Sgarbi, IL GIORNALE, 25 ottobre 2015