In “Ciao”, il suo nuovo libro, l’autore si confronta col genitore scomparso. Rimasto giovane per sempre.

È esistito un tempo in cui “la memoria non era utile”? Nel quale il presente era così significativo, così pieno di senso, che non c’era il tempo materiale per i ricordi? E se fosse effettivamente esistito, un tempo così energico e così libero, come non invidiare i suoi protagonisti, lanciati verso il futuro? Leggendo il nuovo libro di Walter Veltroni, “Ciao”, romanzo inevitabilmente promiscuo al saggio storico-politico, quel tempo felice prende le forme del dopoguerra italiano, gli anni febbrili della ricostruzione rivissuti attraverso la figura del padre Vittorio, morto a 37 anni, nel 1956, per una malattia fulminante, quando Walter aveva solamente un anno. La materia del libro è dunque lacerante: un orfano cerca suo padre con tale determinazione da decidere di riportarlo alla vita. La scrittura reincarna il padre, letteralmente lo resuscita, immaginando che una sera dell’estate appena trascorsa, rincasando nello stesso palazzo romano dove quella famiglia ha vissuto e ancora vive, il figlio sessantenne trovi ad aspettarlo il padre trentasettenne.

È un incontro che il figlio ha atteso per la sua intera vita, senza darsi requie, come documenta l’elenco  –  lungo, intenso, quattro pagine quasi impietose  – dei tanti momenti, importanti o trascurabili, solenni o quotidiani, che un orfano non ha potuto condividere con chi lo aveva messo al mondo, e dal mondo se ne è andato. E come testimonia la minuziosa opera di ricostruzione della vita di Vittorio che Walter ha tenacemente, faticosamente ricomposto, lungo gli anni, attraverso lettere, fotografie, testimonianze tanto più preziose quanto rare: perché  –  appunto  –  ai tempi di Vittorio “la memoria non era utile”, l’Italia rinasceva, ognuno pensava solo al cammino da fare, e conservare traccia del percorso era l’ultimo dei pensieri. Tanto è vero che non esiste, alla Rai, un archivio fonografico che conservi traccia del grande lavoro di Veltroni padre e di quella formidabile leva di autori, dirigenti, artisti che soprattutto a Roma, la Roma di Cinecittà e della radiotelevisione italiana, producevano una quantità impressionante di idee e di progetti, dal cabaret all’informazione, dal teatro leggero al reportage (memorabili quelli di Vittorio Veltroni dai funerali del Grande Torino a da Trieste appena riunita all’Italia).

Alberto Sordi, Sergio Zavoli, Fiorenzo Fiorentini, Riccardo e Corrado Mantoni, Ettore Scola, Ugo Gregoretti, Emmanuele Milano, Fabiano Fabiani, Giovanni Salvi, Giuseppe Lisi. Nomi che si rincorrono lungo le pagine, un intreccio fitto, proficuo e spesso allegro di costruttori di linguaggio dei quali Veltroni padre fu amico, consigliere, coordinatore. “Eravate sfrontatamente giovani”, dice il figlio al padre, che lo guarda, nella penombra della stanza, con un sorriso quasi imbarazzato, quasi per scusarsi dell’energia vitale della quale è portatore, di fronte ai dubbi, forse alla stanchezza del figlio ritrovato.
L’idea del racconto, che è potentissima, ribalta la condizione biologica: il figlio è un uomo oramai quasi anziano, il padre ancora un ragazzo, così come la morte lo ha eternato. È il figlio  –  scrivendo questo libro  –  che diventa genitore del padre. Ma Vittorio è pur sempre un italiano di ieri, un uomo del passato; e Walter un italiano di oggi, un uomo del presente.

Così che, nell’intreccio delle emozioni private, delle considerazioni politiche, degli appunti storici e autobiografici che danno vita al lungo colloquio tra un figlio assai più vecchio del suo giovane padre, il segno che il libro lascia nel lettore è quello di un omaggio generoso, raro e documentato all’Italia di ieri, quella dei nostri padri e delle nostre madri usciti dalla guerra e dal fascismo; da parte di un italiano di oggi che ha, nei confronti del presente, dunque del proprio tempo, parole di distaccata perplessità.

Mai acide, mai recriminatorie, mai basse, perché non è quello lo stile della persona; ma certo non partecipi e non complici. Diciamo: distaccate, così come è distaccato il ruolo di Walter Veltroni dalla politica italiana, dopo una lunga stagione da protagonista. La freschezza dell’Italia di ieri, di quella Rai entusiasta e compresa nel suo ruolo educativo, di quel cinema, di quegli intellettuali, di quella società nascente, di quelle giovani madri e di quei giovani padri che sorridevano alla pace riconquistata, di quella Roma ariosa e splendente, è evocata dal figlio scrittore con una nostalgia struggente. Che si compenetra, ovviamente, con la nostalgia del padre perduto: ma è anche, indiscutibilmente, nostalgia di una stagione molto felice del nostro paese, la nascita della democrazia, l’ingresso nella modernità.

Ho un anno in più di Walter Veltroni, sono nato a Roma come lui, in una famiglia borghese come la sua, e la mia prima infanzia è stata spesa in un giardino pubblico (quello di piazza delle Muse) apparentabile a quel Parco dei Daini dove giocava lui da bambino, e dal quale prende abbrivio  –  omaggio all’infanzia  –  questo suo romanzo. So di conservare traccia di quel sole, di quei profumi, di quella vertiginosa giovinezza di tutte le cose. Sono dunque nelle condizioni emotive, autobiografiche, direi “climatiche” ideali per condividere la gratitudine all’Italia dei nostri padri e delle nostre madri. Gratitudine che, a differenza di Veltroni, forse non ho avuto abbastanza modo di esprimere ai miei genitori, benché se ne siano andati entrambi in tarda età (ci sono separazioni che non discendono dalla morte, ma dalla vita).

Eppure, una volta chiuse le pagine del libro, mi sono chiesto se l’ingombro dei nostri ricordi non stia diventando  –  non trovo altra parola  –  un problema. Nostro e non solamente nostro. Walter Veltroni non è un italiano qualunque. È stato, tra le altre cose, il capo della sinistra italiana tra il 2007 e il 2009, con largo consenso, al culmine di una carriera politica importante e tutt’altro che “conservatrice”. Diciamo  –  è una battuta, ma non del tutto  –  che nel caso di una reale compresenza tra i due Veltroni, il grande protagonista sarebbe il figlio, e il padre il suo partecipe telecronista. Eppure c’è, nelle parole del figlio, quasi una timidezza nel rivendicare la propria statura personale e politica, quasi una ammissione di “minorità” rispetto alla breve ma fortunata avventura paterna.

Un’ammissione di sconfitta  –  la sconfitta delle grandi speranze politiche degli anni Sessanta e Settanta  –  al cospetto di una vittoria, forse la sola vera vittoria dell’Italia repubblicana: essere riuscita a nascere, a darsi una Costituzione, una fisionomia sociale, culturale, politica. I discorsi “di generazione” lasciano sempre il tempo che trovano. Hanno un picco “basso”, quello della disputa tra tifoserie anagrafiche (vedi lo slogan spiccio della “rottamazione”) e uno “alto”, il dibattito sulla trasmissione del sapere (e del potere); o sull’interruzione, sempre patologica, di quella trasmissione. Questo libro lascia intatto, e forse rafforza, il sospetto che la mia generazione, quella dei sessantenni, patisca una sua specifica incompiutezza: si porti addosso un “complesso della sconfitta politica” in vistosa contraddizione con i valorosi esiti professionali e personali conquistati sul campo.

A differenza di Vittorio Veltroni (e a differenza di mio padre), noi sessantenni non abbiamo conosciuto il fascismo, la guerra, la fame, i bombardamenti delle nostre case; e abbiamo potuto dedicare tutte le nostre energie, spesso con profitto, al lavoro e al consolidamento della nostra condizione sociale, culturale, psicologica. Avere vinto e non essercene neppure accorti, avere superato il Padre e non essere capaci di prenderne atto: potrebbe essere questo il rilievo che un ipotetico “gran giurì” di ragazzi (quelli di adesso) potrebbe muoverci, chiedendoci, infine, di crescere abbastanza da non sentirci più figli, ma definitivamente padri.

È possibile che il faticoso, troppo lento ricambio in atto (o la sua precipitosa accelerazione: ma è la stessa cosa) discenda anche dalla nostra prolungatissima e tutto sommato felice, molto felice giovinezza: del dopoguerra noi siamo stati i soli, grandi, veri, fortunati beneficiari, e almeno in questo senso la gratitudine che dobbiamo avere per gli italiani che ci hanno generato è infinita, e questo libro ne è una appassionata testimonianza. Ma poiché l’autore di questo libro è anche e prima di tutto uno dei più importanti leader dell’età repubblicana, viene da pensare che gli sviluppi recenti della politica italiana, specie quelli dentro la grande famiglia della sinistra, abbiano molto a che fare con quell’urgenza di vivere che fu di Vittorio Veltroni e della generazione dei costituenti. Le nuove leve hanno non solo molta voglia, ma anche assoluta necessità, di munirsi di ricordi propri e, eventualmente, sconfitte (e vittorie) proprie. In questo senso i giovani italiani di oggi sono in una condizione esistenziale molto più simile a quella di Vittorio Veltroni che a quella di noi baby boomers.

Michele Serra, LA REPUBBLICA, 15 ottobre 2015