Nei Pirenei Orientali un memoriale per ricordare il sito dove vennero internati prima ebrei e gitani, e poi, al termine della guerra algerina, i franco-arabi di seconda generazione. “Indesiderati, come i rifugiati di oggi”. Venerdì l’inaugurazione con il premier Valls.

Un monolito di cemento, “un peso gravoso sulla coscienza”, come lo definisce il suo stesso creatore l’architetto francese di origini italiane (ma – dettaglio forse non casuale – algerino di nascita) Rudy Ricciotti, che ha al suo attivo il recente Museo delle Civiltà d’Europa e del Mediterraneo di marsiglia. E’ il nascento museo-memoriale del Campo di Rivesaltes (nei Pirenei Orientali, Francia del Sud-ovest). Un luogo creato negli anni Quaranta e dismesso poco più di 50 anni fa, che tra il 1941 e il 1964 ha ospitato 60mila persone a cominciare dai militari spagnoli sfuggiti al Franchismo, passando per ebrei, gitani, per concludere con gli harkis, i franco-musulmani rimpatriati ai tempi della guerra franco-algerina. Un luogo esistito che nella sua migliore versione potrebbe essere definito un antesignano dei campi profughi attuali, mentre nella peggiore altro non era che un centro di smistamento ai campi di prigionia e di concentramento tedeschi, ma che comunque al nazismo è sopravvissuto nella sua forma soft per quasi vent’anni. Luogo in definitiva dove venivano collocati gli indesiderati della metà del ventesimo secolo.

 Il riferimento all’attuaità è tutt’altro che sfumato e fortuito, tanto che all’inaugurazione del sito prenderà parte il primo ministro transalpino Manuel Valls, venerdì prossimo. Lo storico francese Serge Klarsfeld definisce Rivesaltes la “Drancy du Sud”, in riferimento alla cittadina-sobborgo nordorientale di Parigi sede durante la guerra del più conosciuto campo di concentramento, da dove i tedeschi trasferivano ebrei e zingari direttamente ad Auschwitz, ma non è soltanto questo: “Si tratta del più grande campo di internamento dell’Europa occidentale, che è passato attraverso tre guerre, una civile, una coloniale e una mondiale -, spiega la direttrice del memoriale, Agnès Sajaloli. Tutto cominciò nel 1941, quando il sito militare Joffre fu trasformato in campo per una decina di soldati spagnoli in fuga dalla dittatura di Franco. Ben presto, su disposizioni dei tedeschi che allora occupavano la Francia, vi vennero condotti 5 mila ebrei, la metà dei quali saranno deportati in germania, oltre ai gitani oltre ai prigionieri di guerra e a chi comunque non collaborava con l’invasore. Ma Rivesaltes sopravvisse al conflitto mondiale, e 20 anni dopo, sul finire della Guerra Franco-Algerina arrivarono 20mila “harki”, i franco-arabi di seconda generazione, insomma i “non graditi del XX secolo”. “Diventavamo invisibili – ha raccontato oggi a AFP Fatima Besnaci-Lancou, figlia di uno dei profughi, che aveva 8 anni al suo arrivo -. E’ lo stesso meccanismo che si instaura oggi”.

Chiuso nel dicembre 1964, il campo è oggi l’unico nel suo genere ancora fisicamente “in piedi”, “l’’nico in Francia dove ci si rende conto di quel che è stato l’internamento”, spiega Denis Peschanski, studioso dirigente del Centro Nazionale di Ricerca Scientifica oltralpe. Insomma, il messaggio è chiaro. Nel contesto attuale, segnato dalla più grave crisi migratoria da sessant’anni a questa parte, la nuova struttura e la sua inaugurazione così mediatica rivestono un carattere particolare. “I siriani di oggi non sono gli ebrei di ieri – dice ancora Peschanski -, ma le reazioni di paura, di rigetto e di chiusura degli stati democatici sembrano seguire uno stesso meccanismo. La Storia convoca il presente e ci illumina sul futuro”.

La Repubblica, 12 ottobre 2015