La stella di Betlemme e la congiunzione tra Saturno e le Pleiadi

La versione italiana di uno studio di Felice Vinci pubblicato sulla rivista scientifica americana “Journal of Anthropological and Archaeological Sciences”
Abstract
Il Vangelo di Matteo racconta che “Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo”. Fu in epoca moderna che diversi studiosi, a partire dall’astronomo Keplero, iniziarono a chiedersi se ciò che i Magi avevano visto fosse non una stella, ma una congiunzione astronomica fra pianeti. In questo articolo presentiamo le ragioni a sostegno dell’ipotesi che il fenomeno celeste a cui si riferisce Matteo sia stata la congiunzione tra il pianeta Saturno e l’ammasso delle Pleiadi avvenuta nella primavera dell’anno 3 a.C., finora ignorata dagli studiosi sebbene lo storico greco Plutarco ci abbia tramandato che un antico popolo atlantico celebrava questa ricorrenza trentennale con grandi festeggiamenti. A favore della plausibilità di questa ipotesi stanno non soltanto le corrispondenze tra i Magi e la costellazione di Orione, strettamente legata alle Pleiadi, ma anche il fatto che tale congiunzione sia avvenuta in corrispondenza della transizione dall’età dell’Ariete all’età dei Pesci, per di più in coincidenza con la fine di un periodo politicamente molto turbolento, in cui era crollato il plurimillenario Regno d’Egitto, e ciò accresceva l’aspettativa, espressa da Virgilio nella IV Ecloga, di un ritorno alla mitica Età dell’Oro di Saturno. Pertanto, tenendo anche conto dell’importanza attribuita da molte culture alle Pleiadi ed in particolare a Maia, la stella centrale dell’ammasso, identificata con la Madre Terra, la congiunzione avvenuta il 3 a.C. dovette essere considerata come l’incontro celeste tra due grandi entità divine, una maschile (Saturno) e l’altra femminile (Maia), da cui era lecito aspettarsi – “come in alto, così in basso” – la nascita sulla Terra di un Bimbo Speciale, il futuro re di una nuova era, che i Magi cercavano “per adorarlo”.
Introduzione
In questo articolo si propone l’ipotesi che la Stella di Betlemme – che avrebbe guidato i Magi alla capanna dove nacque Gesù – non sia stata una congiunzione tra due pianeti, come attualmente ritengono diversi studiosi, bensì quella tra Saturno e le Pleiadi avvenuta nell’anno 3 a.C.; a tal fine, sarà utilizzata una metodologia consistente in un nuovo esame critico di fonti non solo classiche, ma anche appartenenti ad altri contesti letterari e scientifici.
La Stella di Betlemme è il nome dato a un fenomeno astronomico che, secondo il racconto del Vangelo di Matteo, si verificò al tempo della nascita di Gesù: “Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo” [1]. Nelle prime icone cristiane, l’astro del presepe era effettivamente una stella, il cui esempio più antico è una pittura murale nelle Catacombe di Priscilla (IV secolo d.C.) a Roma. Nelle raffigurazioni altomedievali, il fenomeno celeste poteva assumere altre forme, come un cerchio luminoso, un rosone, un fiore, un angelo, un cherubino o lo stesso Gesù Bambino [2]. La rappresentazione a forma di cometa apparve per la prima volta all’inizio del XIV secolo, quando Giotto, impressionato dal passaggio della cometa di Halley nel 1301, raffigurò la Stella di Betlemme come una cometa dalla lunga coda in un affresco nella Cappella degli Scrovegni a Padova. Nei secoli successivi, questa rappresentazione ebbe uno straordinario successo artistico, al punto da essere tuttora considerata una classica icona della Natività di Gesù.
Un’altra ipotesi astronomica, risalente all’età moderna, è che la Stella di Betlemme non fosse una stella, né una cometa, né una supernova, ma una congiunzione di Giove con altri pianeti. Il primo a lavorare su questa idea fu Keplero, che nel 1614 studiò una serie di congiunzioni di Giove con Saturno verificatasi nell’anno 7 a.C. [3]. Tale ipotesi è stata poi ripresa da altri studiosi, tra cui recentemente dall’archeologo Simo Parpola [4]. Inoltre, diverse altre congiunzioni, molto significative dal punto di vista astrologico, ebbero luogo negli anni 3 e 2 a.C. Tre di queste coinvolsero Giove con la stella Regolo della costellazione del Leone, considerata anch’essa un simbolo regale, mentre altre, avvenute nei pressi di Regolo, coinvolsero Venere e altri pianeti, tra cui Marte e Mercurio [5].
Ma perché a guidare i Magi a Betlemme potrebbe essere stata una congiunzione planetaria? Era evidentemente necessario che l’evento fosse considerato eccezionale ed avesse un particolare significato astrologico, secondo l’antica idea tradizionale secondo cui ciò che accade sulla Terra è un riflesso di ciò che avviene in Cielo. Già nell’VIII secolo d.C., l’astrologo persiano Masha’allah ibn Athari, basandosi su dati e teorie astrologiche di origine iraniana e babilonese, sostenne che ogni importante cambiamento religioso o politico, comprese le nascite di Cristo e Maometto, era legato alla congiunzione tra Giove e Saturno [6].
Tuttavia, fra tutte le ipotesi di congiunzioni astronomiche da collegare a un evento eccezionale, non ci sembra che finora sia stato preso in considerazione l’incontro periodico, menzionato con grande enfasi dallo scrittore greco Plutarco (40-120 d.C. circa), tra il pianeta Saturno e la costellazione del Toro. Infatti, secondo una sua opera, in un’epoca remota ogni trenta anni, su un’isola atlantica dove il dio Crono era tenuto prigioniero, si celebrava una grande festa, allorché nel firmamento notturno la “Stella di Crono”, cioè Saturno, faceva ritorno nella costellazione del Toro [7].
Ma ora, prima di proseguire, dobbiamo subito chiederci se sia ragionevole supporre che in un remoto passato l’Oceano Atlantico fosse navigabile, come Plutarco sostiene nel passo [8] in cui riporta questa notizia. In effetti, abbiamo già cercato di dare una risposta razionale a tale quesito in un precedente articolo [9], di cui ora riportiamo i punti salienti. In esso abbiamo innanzitutto sottolineato che qui Plutarco menziona un grande continente che circonda l’Atlantico, a suo dire raggiungibile seguendo una rotta lungo la quale si incontrano alcune isole intermedie. La prima è Ogigia, l’isola della dea Calipso nell’Odissea, situata “a cinque giorni di navigazione dalla Britannia, verso il tramonto”; poi ce ne sono altre tre “distanti l’una dall’altra quanto da essa”, prima di raggiungere il “grande continente” che circonda il “grande mare” [10]. È importante qui sottolineare che si tratta di isole tutte situate a un’alta latitudine: lì, infatti, d’estate i viaggiatori “vedono il sole scomparire alla vista per meno di un’ora ogni notte per un periodo di trenta giorni, seppure con una breve oscurità, mentre un crepuscolo riluce a ovest” [11]. Considerando che in un precedente lavoro avevamo identificato Ogigia con una delle Isole Fær Øer [12] (che si trovano “verso il tramonto” rispetto all’estremità settentrionale della Scozia durante la stagione della navigazione, cioè intorno al solstizio d’estate, quando il sole, data l’elevata latitudine, tramonta quasi a nord), le altre tre isole del Nord Atlantico lungo la rotta verso il continente americano sono l’Islanda, la Groenlandia e Terranova.
Inoltre Plutarco subito dopo afferma che sulla costa di quel continente oltremare si trova “un golfo non meno esteso della Meotide (l’odierno Mar d’Azov, presso la Crimea), la cui foce sta esattamente in linea retta con lo sbocco del Mar Caspio” [13]. Secondo Minas Tsikritsis [14], il riferimento è al Golfo di San Lorenzo, sulla costa atlantica del Canada: infatti la latitudine del suo sbocco nell’oceano, 47°, corrisponde a quella dello sbocco del Caspio, cioè il delta del Volga. Ciò la dice lunga sulle conoscenze geografiche degli antichi e sulla loro capacità di navigare attraverso gli oceani [15] e al tempo stesso ci dà un’ulteriore conferma dell’attendibilità di Plutarco e del suo racconto.
D’altra parte, la possibilità che sul versante americano del Nord Atlantico vi fossero antichi insediamenti europei – forse legati anche all’estrazione del rame dalle antiche miniere di Isle Royale [16], l’isola più grande del Lago Superiore – emerge da vari indizi (su cui ci siamo soffermati nell’articolo sopra citato), quali la persistenza di miti e leggende paragonabili a quelli del Vecchio Mondo, nonché i tratti caucasici di alcuni nativi americani, che sembrano confermare l’idea di antichi contatti tra le due opposte sponde dell’Atlantico. D’altronde vi sono studiosi che hanno collegato il mito di Atlantide al megalitismo [17], le cui tracce si trovano quasi in tutto il mondo, insieme a miti e leggende molto simili in civiltà anche lontanissime tra loro. Ciò è in accordo con i risultati di un autorevole studio sul megalitismo europeo, pubblicato recentemente, in cui si mette in evidenza “il trasferimento del concetto megalitico sulle rotte marittime provenienti dalla Francia nord-occidentale e l’avanzata tecnologia marittima e la navigazione nell’era megalitica” [18].
Questa ipotizzata globalizzazione preistorica attraverso la navigazione, che precedette di millenni quella realizzata dalle flotte europee a partire dal XVI secolo, fu resa possibile dall’Optimum Climatico Olocenico (HCO), con temperature medie significativamente superiori a quelle odierne. Infatti, fino al terzo millennio a.C., l’HCO rese da un lato l’attuale deserto del Sahara verde e umido [19], e dall’altro il Mare Artico navigabile durante l’estate [20]. Ciò favorì le comunicazioni dirette tra l’Atlantico e il Pacifico attraverso una rotta polare che prevedeva una facile navigazione costiera lungo la costa settentrionale canadese, evitando il passaggio per il lontanissimo e pericolosissimo Stretto di Magellano, situato all’estremità meridionale del continente americano.
Ma ora, dopo aver dimostrato la plausibilità delle affermazioni di Plutarco riguardo ad una antica civiltà atlantica, è arrivato il momento di affrontare direttamente la questione della stella dei Magi.
La congiunzione tra Saturno e le Pleiadi
Torniamo dunque alla notizia riportata da Plutarco, ovvero che in una remota antichità si dava una grande importanza al periodico incontro celeste tra Saturno e la costellazione del Toro. Ma perché? Riguardo a Saturno, esso astronomicamente si caratterizza per il fatto di essere il pianeta che, tra quelli visibili a occhio nudo dalla Terra (gli altri sono Mercurio, Venere, Marte e Giove), ha il suo moto ciclico apparente rispetto alle costellazioni più lento in assoluto. Esso infatti ritorna nella stessa posizione nel firmamento notturno ogni trent’anni circa, dopo aver attraversato in questo intervallo di tempo una dopo l’altra tutte le case dello Zodiaco.
L’importanza attribuita da molte culture antiche al ciclo di Saturno è attestata dal fatto che il dio egizio “Ptah fin dall’inizio portò il titolo di ‘Signore del Ciclo Trentennale’, cioè del periodo di Saturno” e che “in Cina Saturno era la Stella Imperiale” [21]. Ciò corrisponde al fatto che, secondo Plinio il Vecchio, nel mondo celtico i Druidi avevano “secoli (‘saecula’ in latino) che durano trent’anni” [22], dove per ‘saecula’ si intendono ‘cicli temporali’ (infatti il termine latino ‘saeculum’ è glottologicamente accostabile al greco ‘kyklos’, ‘ciclo’).
Inoltre è importante rilevare fin d’ora (ma è un discorso su cui torneremo in seguito) che Saturno, chiamato da Plutarco “la Stella di Crono”, è il pianeta corrispondente al grande dio – chiamato Saturno dai Romani, Crono dai Greci – che prima di essere detronizzato e mandato in esilio era stato il Signore della mitica Età dell’Oro, di cui all’epoca della nascita di Gesù si attendeva il ritorno poiché era in corso il passaggio dall’età dell’Ariete a quella dei Pesci, come vedremo meglio in seguito.
Quanto alla costellazione del Toro, l’altro protagonista di questo periodico appuntamento celeste raccontato da Plutarco, la sua importanza è legata al fatto che di esso fanno parte le Pleiadi, un ammasso stellare, distante circa 440 anni luce dalla Terra, che contiene più di mille stelle (anche se ad occhio nudo è possibile vederne solo da sei a dodici, a seconda delle condizioni di visibilità e dell’acutezza visiva dell’osservatore). Le Pleiadi, menzionate nelle leggende di moltissimi popoli, erano tradizionalmente considerate sette, le Sette Sorelle della mitologia greca e romana, tra le quali, secondo Cicerone, la più importante era la “Santissima Maia” [23].
L’importanza delle Pleiadi è anche legata al fatto di avere avuto un ruolo fondamentale nei calendari di molte culture tradizionali, in particolare nell’antica Mesopotamia, dove “Le Pleiadi svolgono un ruolo importante nel computo calendariale (…). Il sorgere delle Pleiadi è fissato nel secondo mese del calendario babilonese Ayāru (aprile/maggio). Va notato che il nome sumero del mese richiama il nome della costellazione del Toro (…). Le Pleiadi potrebbero rappresentare una ‘pars pro toto’ della costellazione del Toro e quindi apparire nello Zodiaco in sostituzione del Toro (…). Il sorgere delle Pleiadi all’inizio del secondo mese è menzionato anche nel MUL.APIN: ‘Il 1° di Ayāru le Pleiadi diventano visibili’” [24] (MUL.APIN è il nome di un antico compendio astronomico e astrologico mesopotamico, risalente forse a 3000 anni fa).
In sostanza, il sorgere delle Pleiadi nel calendario mesopotamico corrisponde al primo giorno del secondo mese dell’anno, Ayāru, il segno zodiacale del Toro in lingua sumera. Ma la centralità delle Pleiadi in molte culture si ritrova anche in calendari quali quelli dei Basotho (Africa meridionale) [25], degli Zulu [26], dei Filippini precoloniali [27], degli Aztechi [28], degli Inca [29], degli Hopi (Nativi Americani) [30], delle tribù della Guyana [31], degli Hawaiani [32].
Però prima di coinvolgere direttamente le Pleiadi – ed il loro celeste incontro con Saturno – con la Stella di Betlemme, vediamo se ve ne siano tracce anche nel contesto biblico e soprattutto se vi sia una diretta relazione tra di esse e quanto racconta Matteo sui Magi e sulla nascita di Gesù.
La Bibbia menziona le Pleiadi tre volte, in Giobbe 9:9, Giobbe 38:31 e Amos 5:8 (sempre insieme con Orione, la costellazione che vi si trova davanti e che porta il nome del mitico personaggio ad esse più strettamente legato, su cui torneremo fra poco). Un altro punto di contatto tra il mondo ebraico e le Pleiadi è il fatto che Gerusalemme è situata su sette colli [33], il che la collega a Roma e ad altre città antiche anch’esse situate su sette colli, pur appartenenti a culture lontane e molto diverse, quali Teheran, Bisanzio, Armagh, La Mecca, Besançon, Bamberg e molte altre (perfino Macao in Cina). Infatti Roma, come vedremo meglio fra poco, è una città strettamente legata alle sette Pleiadi sia per i Sette Colli – che ne rappresentano la proiezione sulla Terra, secondo il motto “come in alto, così in basso” tradizionalmente attribuito a Ermete Trismegisto – sia per la sua data di fondazione, il 21 aprile, ossia il primo giorno del Toro, che, come abbiamo visto poco fa, nel calendario mesopotamico corrisponde al sorgere annuale delle Pleiadi.
Ma ora, prima di giungere alle conclusioni, a questo quadro occorre aggiungere un ulteriore elemento. Ci riferiamo alla costellazione di Orione, che nel cielo notturno appare simile a una grande clessidra, posta di fronte al Toro e alle Pleiadi (Fig. 1), con al centro tre stelle quasi allineate, chiamate “la Cintura di Orione”. Notiamo che in molte mitologie, compresa quella greca, Orione è un gigantesco cacciatore, le cui storie spesso sono intrecciate a quelle delle Pleiadi.

Fig. 1. La costellazione di Orione (a sinistra) con le tre stelle della Cintura al centro che puntano verso le Pleiadi (in alto a destra).
A questo punto dobbiamo verificare se vi è una relazione tra le Pleiadi, Maia, Orione e il racconto del Vangelo di Matteo sui Magi e sull’apparizione della stella.
Osserviamo subito che nella mitologia finlandese il nome della Cintura di Orione è ‘Väinämöisen vyö’, ‘la Cintura di Väinämöinen’. Väinämöinen è un uomo saggio, che nell’ultima runa del Kalevala è direttamente coinvolto nella storia della vergine Marjatta e di suo figlio: costei si trovò miracolosamente incinta, partorì in una stalla e depose il neonato, destinato a diventare il re dei Careli, in una mangiatoia [34]. Qui troviamo sorprendenti somiglianze con la storia della nascita di Gesù riportata nel Vangelo di Luca, inclusa la profezia che “il Signore Dio gli darà il trono di Davide” [35].
Notiamo anche che nel Kalevala, una raccolta di poemi epici del XIX secolo compilata da Elias Lönnrot a partire dal folklore orale della Carelia e della Finlandia, Väinämöinen è il più anziano di una triade di personaggi mitici (gli altri due sono il fabbro Ilmarinen e il giovane Lemminkäinen) che presentano le stesse caratteristiche di età che la tradizione attribuisce ai tre Magi: uno anziano, uno di mezza età e uno più giovane.
A questo punto, colpisce il fatto che in molte tradizioni popolari le tre stelle della Cintura di Orione hanno il nome di “I Tre Re” o “I Re Magi”: ad esempio in Inghilterra [36], in Olanda, tra gli afrikaans in Sudafrica [37], nell’Italia centro-settentrionale [38] e in alcune ex colonie spagnole come il Messico [39] e Porto Rico [40].
Ma cosa significa tutto ciò? Se prolunghiamo la linea immaginaria che collega fra loro le tre stelle pressoché allineate della Cintura di Orione, vediamo che essa punta quasi esattamente in direzione delle Pleiadi. Insomma queste tre stelle, chiamate ‘i Magi’ in varie tradizioni, con il loro allineamento indicano le Pleiadi, ovvero la ‘Santissima Maia’ menzionata da Cicerone. Tutto ciò collega le Pleiadi direttamente alla stella dei Magi. Oltretutto, a questo punto appare quanto meno curioso che la stella Maia, collocata al centro delle Pleiadi, sia nel contempo la dea Maia che secondo la mitologia greca diede alla luce Hermes, figlio del dio del cielo Zeus, di notte e in una grotta [41].
Da tutto quanto sopra detto consegue che il fenomeno astronomico osservato dai Magi, a cui fa riferimento il Vangelo di Matteo, potrebbe effettivamente corrispondere alla congiunzione tra Saturno e le Pleiadi avvenuta nella primavera dell’anno 3 a.C. (Fig. 2).

Fig. 2. Ricostruzione con il software Perseus del cielo notturno del 1 aprile del 3 a.C. Sulla sinistra appare Orione con le tre stelle della Cintura al centro, quasi allineate, che puntano verso Saturno e l’ammasso delle Pleiadi (in basso a destra).
Questa data a sua volta trova riscontro nel fatto che per alcuni studiosi, come Andrew Steinmann [42] e W.E. Filmer [43], la nascita di Gesù avvenne tra il 3 e il 2 a.C.; inoltre Jack Finegan, che colloca la morte di Erode nell’1 a.C., ritiene che, se Gesù fosse nato uno o due anni prima, la sua nascita sarebbe avvenuta nel 3 o nel 2 a.C. [44].
La fine di un’era e l’inizio dell’età dei Pesci
A questo punto possiamo chiederci se la congiunzione di Saturno con le Pleiadi del 3 a.C. non abbia avuto per gli astronomi dell’epoca un significato maggiore rispetto a quelle avvenute in precedenza, tale da giustificare le aspettative espresse dai Magi secondo il racconto di Matteo.
Ora, ricordando da un lato che nell’antichità gli astronomi erano anche astrologi, e dall’altro che per affrontare correttamente problemi come quello che stiamo trattando “l’approccio razionalistico è sterile senza lo sforzo di calarsi nella mentalità dell’epoca e del popolo con cui abbiamo a che fare” [45], dobbiamo tenere conto del fatto che all’epoca della nascita di Cristo era in atto la transizione dall’età dell’Ariete a quella dei Pesci (così come ora, dopo circa 2.000 anni, si parla già della transizione dai Pesci all’Acquario).
Ciò è dovuto al fenomeno della precessione degli equinozi, dovuta ad un moto a trottola dell’asse terrestre che nel tempo tende lentamente a spostare le costellazioni sullo sfondo della volta celeste, impiegando poco meno di 26.000 anni per completare un ciclo completo e tornare alla posizione di partenza. Tra le conseguenze della precessione, oltre al fatto che la Stella Polare non rimane sempre la stessa ma cambia ciclicamente nel tempo, c’è anche il fatto che il segno zodiacale in corrispondenza del quale all’equinozio di primavera sorge il sole (attualmente quello dei Pesci, che al tempo della nascita di Cristo stava subentrando all’Ariete ma che ora, circa duemila anni dopo, verrà presto sostituito dall’Acquario) non rimane fisso, ma tende anch’esso a spostarsi, seppur molto lentamente, ed in tal modo dopo un paio di millenni o poco più finisce per cedere il passo al segno che lo precede nella sequenza dei segni zodiacali. Secondo le credenze dell’astrologia, questa alternanza periodica delle costellazioni avrebbe un forte impatto sugli eventi e sui destini degli uomini e dei popoli.
Notiamo a questo punto che le Pleiadi, misuratrici del ciclo annuale così come del ciclo trentennale segnato dal suo incontro periodico con Saturno, secondo un passo del Libro di Enoch (un testo apocrifo della Bibbia) dovevano essere considerate responsabili anche della precessione degli equinozi: “E colà vidi sette stelle del cielo legatevi sopra, insieme, come grandi montagne e come di fuoco ardente. Allora io dissi: Per quale peccato sono state legate? E perché sono state gettate qui? E Uriele, uno degli angeli santi, quello che era con me e mi guidava, mi disse: O Enoc, perché domandi, chiedi e ti preoccupi? Queste sono, fra le stelle, quelle che trasgredirono l’ordine di Dio altissimo, e sono state legate qui fino a che si compiano diecimila secoli, il numero dei giorni della pena del loro peccato!” [46].
In questa potente immagine delle sette stelle del cielo legate insieme, “come grandi montagne e come di fuoco ardente”, sono immediatamente riconoscibili le sette Pleiadi – quali si ritrovano anche nella Bibbia: “Puoi tu legare le catene delle Pleiadi?” [47] – però a prima vista il significato della loro punizione per aver trasgredito un ordine divino sembrerebbe sfuggirci (quanto all’idea delle sette Pleiadi paragonate a montagne, si ritrova nel loro rapporto con i sette colli di Roma e Gerusalemme, di cui parleremo tra poco, così come nella mitologia greca, dove erano considerate anche come ninfe dei monti [48]).
Ma ora, ricordando che nel mondo mesopotamico le Pleiadi erano strettamente connesse alla misurazione del tempo, ci sembra ragionevole supporre che la loro “trasgressione” si riferisca proprio al fenomeno della precessione, che, spostando gradualmente nel tempo il polo celeste e di conseguenza la posizione delle costellazioni nel firmamento, doveva essere considerata una gravissima violazione dell’immutabile ordine cosmico stabilito da Dio. Ciò spiega l’esorbitante durata della pena (“diecimila secoli”), commisurata, come per una sorta di contrappasso cosmico, alla lunghissima durata della precessione. Il suo ciclo completo, infatti, come abbiamo detto, dura quasi 26.000 anni, che, suddivisi tra le dodici costellazioni dello Zodiaco, si traducono nel fatto che il sole sorge all’equinozio di primavera rimanendo nello stesso segno zodiacale per un periodo di circa 2.150 anni. Ciò rafforza l’idea dell’importanza che gli astronomi antichi attribuivano alle Pleiadi come misuratrici del tempo, che viene così addirittura esteso ad una scala, quella della precessione, ben più grande non solo di quella annuale (dovuta alla rivoluzione della Terra attorno al Sole), ma anche di quella trentennale (legata al movimento apparente di Saturno rispetto alle costellazioni dello Zodiaco, ma che in realtà è dovuta al suo moto di rivoluzione attorno al Sole).
In realtà, non è possibile stabilire astronomicamente una data esatta per il passaggio da un segno zodiacale all’altro, data la difficoltà nello stabilire i confini precisi di ciascuna casa dello Zodiaco rispetto a quelle adiacenti; è tuttavia del tutto ragionevole supporre che, nei periodi di transizione, per stabilire questa data gli antichi astronomi facessero riferimento proprio alla congiunzione tra Saturno e le Pleiadi, che invece è univocamente definibile e permette di scandire il tempo con precisione secondo un ciclo trentennale, ben più adatto di quello annuale perché è molto più lungo. Ora, abbiamo appena visto che la congiunzione più vicina alla nascita di Gesù ebbe luogo nella primavera dell’anno 3 a.C. [49], quando i tempi erano più che maturi per considerare l’Età dell’Ariete prossima alla sua conclusione, mentre nel contempo cresceva sempre più l’attesa per l’arrivo dell’età dei Pesci.
A tale proposito, una precisa testimonianza, molto indicativa delle aspettative connesse a questo passaggio epocale dall’Ariete ai Pesci, si può trovare nella letteratura dell’antica Roma. Ci riferiamo alla IV Ecloga di Virgilio, una composizione poetica databile attorno al 40 a.C., in cui il poeta canta l’imminente ritorno del mitico regno di Saturno che riporterà l’Età dell’Oro sulla Terra e donerà finalmente pace, giustizia e prosperità a tutta l’umanità: “Sta ormai arrivando l’ultima età dell’oracolo cumano:/ Nasce di nuovo il grande ordine dei secoli,/ Ormai ritorna anche la Vergine, ritorna il regno di Saturno,/ Ormai una nuova progenie discende dall’alto del cielo” [50] (quanto alla “ultima età”, si tratta dell’età dei Pesci, l’ultimo dei segni dello Zodiaco, mentre la Vergine è Astrea, la Giustizia, fuggita dalla Terra quando finì l’Età dell’Oro). Per inciso, è forse anche a questa Ecloga, considerata in passato una profezia della nascita di Cristo, che dobbiamo la fama di mago sapiente che accompagnò la figura di Virgilio anche nel Medioevo – basti pensare all’importanza che Dante gli attribuisce nella Divina Commedia – senza mai estinguersi del tutto, al punto da aver ispirato in tempi recenti la fiaba “Virgilius the Sorcerer” (“Virgilio lo Stregone”) dello scrittore e antropologo scozzese Andrew Lang. D’altronde ancora oggi a Napoli, dove si trova la sua tomba, a livello popolare Virgilio è considerato quasi un santo patrono della città.
Ad ogni modo, tutto il mondo di quell’epoca anelava a una stabilizzazione che ponesse fine alle continue convulsioni causate dalle interminabili guerre civili che avevano a lungo dilaniato il mondo romano e coinvolto molti altri popoli. In particolare, l’ultima di queste guerre, quella tra Ottaviano e Marco Antonio, vide il diretto coinvolgimento dell’Egitto, che pagò un prezzo altissimo: questo venerabile regno, altamente civilizzato e con una gloriosa storia plurimillenaria, intorno al 30 a.C., dopo la sconfitta di Cleopatra, crollò miseramente e si ritrovò ridotto a provincia di Roma! Questo fu certamente considerato il segno di un’epoca che stava finendo per sempre, il che dovette ulteriormente accrescere l’attesa per l’arrivo della nuova età dei Pesci. D’altronde, appena tre anni dopo la fine dell’Egitto, nel 27 a.C., Ottaviano, il vincitore, fu nominato Imperatore Augusto e poi, nel 12 a.C., divenne anche Pontefice Massimo: in questo modo riunì nella sua persona le due massime cariche, quella civile e quella religiosa, dello Stato romano, inaugurando una nuova fase di stabilità politica che Virgilio aveva predetto nella IV Egloga e poi ribadito in una importante profezia dell’Eneide: “Augusto Cesare, di stirpe divina, riporterà i secoli d’oro nel Lazio, per i campi dove a suo tempo regnò Saturno” [51].
A questo punto siamo finalmente in grado di rispondere alla domanda che ci eravamo posti in precedenza, se cioè la congiunzione trentennale fra Saturno e le Pleiadi avvenuta nel 3 a.C. potesse avere per gli astronomi/astrologi di quell’epoca un’importanza maggiore rispetto a quelle che la avevano preceduta. La risposta è certamente positiva, perché questa congiunzione – avvenuta al culmine della transizione tra l’Era dell’Ariete e quella dei Pesci, in cui si attendeva più che mai il ritorno all’Età dell’Oro dopo le interminabili convulsioni politiche su cui ci siamo soffermati poco fa – fu la prima di quel tipo ad aver avuto luogo dopo i momenti cruciali segnati dal crollo dell’Egitto, dalla fine dell’ultima guerra civile e dal potere imperiale e pontificale assunto da Ottaviano Augusto (a cui fece seguito l’inaugurazione dell’Ara Pacis, dedicata alla Pace di Augusto, su cui ci soffermeremo tra poco).
Qui occorre anche sottolineare che sia Saturno che la sua controparte greca, Crono, presentano il duplice aspetto del dio celeste, signore dell’Età dell’Oro, e quello del pianeta dal ciclo trentennale. Non a caso infatti, nel passo di Plutarco da cui ha preso avvio questo studio, il pianeta protagonista della congiunzione di cui stiamo occupando è chiamato “stella di Crono”, il dio che nell’antichità era considerato anche un dio del tempo, data anche l’affinità del suo nome, ‘Kronos’, con la parola greca ‘khronos’, ‘tempo’. D’altronde la dimensione temporale legata al ciclo trentennale di Saturno/Crono – che, ripetiamo, è il dio della mitica Età dell’Oro sia nella mitologia romana (Saturno) che in quella greca (Crono) – è perfettamente coerente con questo quadro e pertanto l’incontro con le Pleiadi e Maia (sulla cui dimensione di dea della Terra, o Madre Terra, in diverse culture ci soffermeremo tra breve) contiene valenze simboliche che gli astronomi/astrologi del mondo antico avevano certamente ben presenti.
Non è dunque affatto irragionevole supporre che non solo i Magi, ma forse anche i sacerdoti romani al loro interno – magari anche sollecitati da Augusto, nominato Pontefice Massimo da pochi anni e certamente interessato, anche politicamente, a temi astronomici e astrologici che nell’antichità erano normalmente di competenza specifica della classe sacerdotale – abbiano dato risalto a questa congiunzione celeste e l’abbiano considerata come l’inizio dell’età dei Pesci (gli astrologi attuali invece datano in genere tale inizio all’anno 1 [52], a cui però non viene collegato alcun fenomeno astronomico degno di nota). Nulla però trapelò al di fuori della cerchia sacerdotale, a causa del tabù connesso allo strettissimo rapporto tra Roma e le Pleiadi, che, come vedremo tra poco, doveva essere tenuto assolutamente segreto: a pagarne le conseguenze fu poco tempo dopo il poeta Ovidio, che per aver violato questo segreto nell’8 d.C. fu condannato da Augusto all’esilio perpetuo, con l’obbligo di tacere sul motivo della condanna [53].
L’importanza delle Pleiadi nel mondo antico
Nell’antica Mesopotamia “le Pleiadi sono tra i pochi corpi celesti che ricevono un culto, e ad esse sono dedicate preghiere specifiche. Dalle fonti emerge che le Pleiadi sono principalmente legate al movimento della luna, ed è interessante notare che l’elenco delle costellazioni dell’eclittica inizia proprio con le Pleiadi” [54]. Ciò attesta la loro importanza nel mondo antico. Fondamentali appaiono anche i loro rapporti con Roma, attestati non solo dalla data tradizionale di fondazione della città, il 21 aprile [55] – corrispondente alla data del loro sorgere annuale, secondo il calendario mesopotamico, nel primo giorno della costellazione di Ayāru [56] (il Toro) – ma anche dal fatto che, secondo il concetto tradizionale “come in alto, così in basso”, i Sette Colli di Roma erano considerati la proiezione sulla Terra delle sette Pleiadi [57] (Fig. 3).

Fig. 3. I Sette Colli di Roma, racchiusi dalle Mura Serviane, e le sette Pleiadi.
In particolare, il Palatino, il colle centrale su cui Romolo fondò la città, è il corrispondente terrestre della stella centrale dell’ammasso, Maia – non a caso chiamata ‘Santissima Maia’ da Cicerone – che era la segreta dea protettrice della città, il cui nome era nascosto dietro il nome generico di ‘Bona Dea’ (‘la dea benevola’). Ciò spiega immediatamente il vero motivo – che fu tenuto rigorosamente segreto – della condanna del poeta Ovidio all’esilio perpetuo: il suo crimine fu quello di aver menzionato in un passaggio di una sua opera, i Fasti, scritto immediatamente prima della condanna, lo stretto rapporto tra Maia, le Pleiadi e la fondazione di Roma [58], che era assolutamente vietato rivelare per ragioni di sicurezza dello Stato romano, esposte da Plinio [59] (il quale in precedenza si era soffermato sulla vicenda di Valerio Sorano, condannato a morte e giustiziato nell’82 a.C. per aver rivelato pubblicamente il nome segreto della città e della sua dea protettrice [60]).
A attestare che dietro il titolo di ‘Bona Dea’ ci fosse proprio Maia è Macrobio, scrittore romano del V secolo d.C., quando il mondo pagano con i suoi vincoli di segretezza era ormai tramontato: “Secondo Cornelio Labeone, alle calende di maggio fu dedicato un tempio a Maia, cioè alla Terra, sotto il nome di Bona Dea” [61]. Insomma, Maia, la stella centrale delle Pleiadi, era la Madre Terra, che dal cielo si rifletteva sul Palatino ed era la dea protettrice della città (e forse non è un caso che una delle due cime del Palatino fosse chiamata dai Romani “Cermalus”, nome accostabile a Hermes, che secondo la mitologia greca era figlio di Maia e di Zeus). E a confermare l’identificazione di Maia con la dea tutelare di Roma è il fatto che ciò ha finalmente consentito di chiarire il significato, finora rimasto ignoto, del pannello con la raffigurazione della “Saturnia Tellus” [62] (Fig. 4) nell’Ara Pacis Augustae di Roma (un altare dedicato alla dea Pace, inaugurato dall’imperatore Augusto nel 9 a.C.).

Fig. 4. La Saturnia Tellus
Qui la figura centrale è Maia, augustamente velata, che tiene tra le braccia i gemelli Romolo e Remo, mentre le due figure femminili ai lati, in posizione subordinata, sono due dee greche: Leda (la madre dei gemelli Dioscuri, riconoscibile dal fatto che accanto a lei vi è un cigno: si tratta di Zeus, che l’amò assumendo le sembianze di un cigno) e Latona (la madre dei gemelli Apollo e Artemide, raffigurata con il drago che l’aveva perseguitata per impedirle di partorire). Inoltre, nella parte inferiore del pannello è raffigurato un toro con la testa alzata, davanti ad un agnello con la testa abbassata: è una chiara allusione al 21 aprile, data della fondazione di Roma, in cui la costellazione del Toro, di cui le Pleiadi sono le stelle più rappresentative, prende il posto dell’Ariete, che infatti ha la testa abbassata (non per caso il nome arabo dell’Ariete è Hamal, ‘agnello’).
Il significato della “Saturnia Tellus” si inserisce perfettamente nel contesto politico/ideologico legato alla creazione dell’Ara Pacis: infatti Roma, controparte terrestre di Maia a cui la dea/stella concedeva la sua protezione e probabilmente anche il suo nome (ma tutto ciò doveva rimanere assolutamente segreto al di fuori di una ristretta cerchia sacerdotale), rappresenta l’apice e il compimento della storia del mondo, superando persino l’importanza e la grandezza della civiltà greca, evocata dalle storie parallele di Leda e di Latona, qui raffigurate col seno scoperto ed in una dimensione quasi ancillare rispetto a Maia, sebbene fossero anch’esse madri di divini gemelli, figli di Zeus. Pertanto la composizione nel suo complesso rappresenta un omaggio a Maia, la grande dea protettrice di Roma, nonché all’imperatore Augusto, artefice della pace, del potere e della prosperità di Roma e del suo impero.
Ciò ben corrisponde all’idea che l’anno 3 a.C. – ossia la prima ricorrenza della congiunzione trentennale fra Saturno (l’antico dio signore dell’Età dell’Oro) e le Pleiadi (le celesti corrispondenti dei Sette Colli di Roma) successiva all’assunzione del totale controllo politico e religioso da parte di Ottaviano Augusto – potesse essere considerato l’inizio della nuova età dei Pesci.
Un altro indizio, seppur indiretto, dell’importanza di questa data, potrebbe essere a nostro avviso rinvenuto nella data tradizionale della fondazione di Roma: il 753 a.C., come stabilito da Marco Terenzio Varrone, grande studioso dell’antica Roma che nell’ultima parte della sua vita si guadagnò il favore di Ottaviano, che nel frattempo era diventato il signore di Roma. Ora, poiché i primi secoli della storia romana sono avvolti nella leggenda, è difficile comprendere quali criteri siano stati utilizzati da Varrone per stabilire questa data; tuttavia, considerati gli stretti legami di Roma con le Pleiadi, è del tutto ragionevole supporre che Varrone – il quale, essendo un uomo coltissimo, doveva ben conoscere l’importanza della congiunzione di Saturno con le Pleiadi – pensasse che non solo il giorno della sua fondazione, il 21 aprile, ma anche l’anno dovesse essere collegato alle Pleiadi. È probabile, quindi, che abbia pensato a una data anteriore alle congiunzioni del suo tempo di un multiplo di 30 anni, arrivando così all’anno 753 a.C. Ma certamente non avrebbe mai potuto rivelare pubblicamente la vera spiegazione astronomica di questo calcolo, poiché alla base vi era la questione tabù dell’innominabile rapporto tra Roma e le Pleiadi: basti pensare che, quando Varrone era giovane (aveva 34 anni), Valerio Sorano fu condannato a morte per aver osato trasgredire la regola del silenzio su questo argomento. Va altresì notato che in realtà nel 753 a.C. non si verificò alcuna congiunzione di quel tipo: infatti la rivoluzione di Saturno attorno al sole non dura esattamente 30 anni ma circa 29,5, il che nell’arco di sette secoli comporta uno sfasamento di diversi anni. In ogni caso, su tratta di una questione che merita ulteriori approfondimenti.
Tra le antiche città sui sette colli, oltre a Roma, anche Armagh e La Mecca offrono spunti di riflessione. Riguardo ad Armagh, la capitale religiosa dell’Irlanda in epoca precristiana, essa fu un importante sito reale nell’Irlanda gaelica fin da tempi molto remoti, con un grande monumento cerimoniale chiamato Emain Mhacha [63], che prende il nome da Macha, la grande dea degli Ulaidh, il popolo che diede il nome alla provincia dell’Ulster. Infatti, ‘Ard Mhacha’ significa “colle di Macha” (poi anglicizzato in Ardmagh prima di diventare il nome attuale) e corrisponde ad uno dei sette colli di Armagh. A tale proposito, qui potremmo anche chiederci se non abbia a che fare con Armageddon, il nome del luogo, finora mai identificato, dove ebbe luogo una mitica battaglia menzionata dall’Apocalisse di Giovanni [64]: infatti ‘dūn’ (dall’irlandese ‘dún’, ‘fortezza’) significa infatti qualcosa come ‘forte’ o ‘città fortificata’ su un’altura [65].
Per quanto riguarda la Mecca, la città santa dell’Islam, caratterizzata dalle ‘Sette Montagne Storiche Islamiche’ [66], la grafia ufficiale inglese saudita è ‘Makkah’ [67], accompagnata dalla locuzione ‘Al-Mukarramah’, che si traduce in ‘l’Onorata’ o ‘la Nobile’, a significare il suo venerabile status [68], il che ricorda da vicino la ‘Santissima Maia’ menzionata da Cicerone.
È anche sorprendente che nel mondo slavo la dea della Terra sia chiamata Mokosh o Makosh [69], che nel greco miceneo Ma-ka (traslitterato come Ma-ga) sia la Madre Terra [70] e che Maka sia la dea della Terra persino tra i Sioux Lakota [71] delle pianure americane! Ma perché sorprendersi? Le Pleiadi sono chiamate Makali’i [72] nelle Hawaii e Maya-Mayi tra gli aborigeni australiani del Nuovo Galles del Sud; queste ultime erano sette sorelle, due delle quali furono rapite da un guerriero, Warrumma o Warunna (un nome che ci sembra accostabile a quello di Orione), e poi fuggirono arrampicandosi su un pino che cresceva ininterrottamente verso il cielo, dove si riunirono alle altre sorelle [73].
Ma tornando ai Sioux (i quali talvolta esibiscono tratti somatici che sembrano più caucasici che asiatici), oltre a chiamare la dea della Terra ‘Maka’, chiamano il cielo ‘Skan’, quasi identico alla radice di ‘sky’, ‘cielo’ in lingua inglese (che deriva dall’antico nordico sky “nuvola”, dal proto-germanico *skeujam “nuvola, copertura nuvolosa”, dalla radice PIE *(s)keu- “coprire, nascondere” [74]) e pertanto potrebbe essere forse accostato al greco ‘skiá’, ‘ombra’, che ritroviamo anche in Omero.
È altresì significativo che Skan e Maka, il Cielo e la Terra, siano stati creati da ‘Wakan Tanka’ [75], il Grande Spirito che dà vita all’Universo e a tutte le creature, il cui nome a sua volta trova una sorprendente corrispondenza sia nel suono che nel significato nel nome di ‘Waaqa’ [76], che significa Dio nella lingua del popolo Oromo dell’Etiopia, quasi all’estremità orientale dell’Africa! Per inciso, poiché nella mitologia degli Ainu – un gruppo etnico del Giappone settentrionale che spesso presenta fisionomie di tipo caucasico – Wakka-us Kamuy è la divinità (“Kamuy”) dell’acqua dolce, questo ci induce a sospettare che il nome ‘Wakka’, simile sia a ‘Wakan’ che a ‘Waaqa’, sia accostabile al latino ‘aqua’ (da cui lo spagnolo ‘agua’ e l’italiano ‘acqua’) attraverso una suggestiva metafora, su cui gli specialisti dovrebbero fare gli opportuni approfondimenti, che farebbe corrispondere lo Spirito universale, che anima tutte le creature (Wakan-Waaqa), all’acqua, che consente di vivere ai pesci e alle altre creature acquatiche.
A questo punto, è plausibile che anche l’assonanza tra il nome dei Magi, astronomi e astrologi, e quelli di Maka-Makkah-Macha-Makali’i-Maia-Maya-Mayi – che abbiamo visto associato alle Pleiadi in tante culture diverse, lontane sia nello spazio che nel tempo, ma tutte accomunate dall’attribuire una grande importanza a queste sette stelle – non sia solo dovuta al caso. Si potrebbe infatti supporre che uno dei compiti primari degli astronomi più antichi fosse proprio quello di osservarle e studiarle, al punto che essi stessi, come pure le loro attività (pensiamo alla parola ‘magìa’, che deriva dal greco ‘mageía’) avrebbero potuto prendere il nome della stella principale dell’ammasso. Ciò ovviamente rende ancora più plausibile l’ipotesi proposta in questo articolo: insomma l’associazione dei Magi alle tre stelle della Cintura di Orione potrebbe appartenere a un antico retaggio mitico, comune a molti popoli, che potrebbe essere stato finalizzato a preservare il ricordo della posizione della stella Maia, della cui importanza per i nostri antenati abbiamo un gran numero di testimonianze, a partire dalle tre stelle della Cintura di Orione, facilmente identificabili nel cielo notturno invernale (che per l’appunto sono chiamate “I Re Magi” o “I Tre Magi” in varie culture).
In questa stessa chiave si può leggere anche il fatto che per i Ciukci della Siberia, Orione (che anche nei loro miti è un cacciatore) scocca una freccia rappresentata dalla stella Aldebaran [79]. Essa infatti, che è una stella molto luminosa, si trova quasi esattamente a metà della “linea di mira” tra Bellatrix – la stella della ‘clessidra’ di Orione che nel cielo notturno appare più vicina alle Pleiadi – e le Pleiadi stesse (Fig. 1). In sintesi, Aldebaran può essere considerata una vera e propria “freccia indicatrice” che, partendo da Orione, permette di individuare subito le Pleiadi nel cielo notturno.
Una storia non molto diversa si ritrova tra i polinesiani di Manuae (Isole Cook), secondo cui le Pleiadi erano inizialmente una stella, la più luminosa del cielo, ma poi un dio per punirla chiese l’aiuto di Sirio, che le scagliò contro Aldebaran, frantumandola in sei pezzi e generando le Pleiadi [80]. Un’eco di questo tipo di leggenda, presumibilmente molto antica, a nostro avviso si può forse ritrovare in tutt’altra parte del mondo: ci riferiamo alla Sartiglia, una festa tradizionale della città di Oristano, che si celebra ogni anno durante il Carnevale. La Sartiglia è una delle più antiche giostre equestri dell’area mediterranea, nel corso della quale uomini a cavallo, con il volto coperto da una maschera bianca, devono riuscire a trafiggere con una spada una stella appesa in alto al traguardo di una corsa equestre che si svolge per le vie centrali della città [81]. D’altronde vi sono buone ragioni per pensare che il loro capo, ‘su componidori’, il cavaliere che guida la corsa, rappresenti l’immagine di una divinità (o, forse, di una stella nel cielo): egli infatti non può toccare terra per tutta la durata della cerimonia, in cui ricopre addirittura un ruolo sacro, quello di benedire la folla con un particolare mazzo di fiori chiamato “sa Pippia ‘e Maju”, “la bimba di maggio” (un nome che potrebbe ricordare Maia, mentre il mazzo di fiori potrebbe richiamare l’aspetto dell’ammasso stellare delle Pleiadi).
Ma è possibile che anche la corrida spagnola (che sembra assomigliare più a un rito sacrificale che a un combattimento vero e proprio) abbia avuto origine nello stesso tipo di mito, ovvero l’immagine di Orione che nel cielo notturno fronteggia il Toro? Infatti le Pleiadi erano considerate la spalla del Toro [82], cioè il bersaglio che il matador deve colpire con la sua spada, come il Toro Celeste ucciso da Gilgamesh in un poema sumero [83], o il toro sacrificato a Poseidone Eliconio nell’Iliade [84], per non parlare del toro ucciso dai re dell’isola di Atlantide durante una solenne cerimonia che Platone descrive in dettaglio [85] (del resto, il nome di Atlantide deriva da Atlante, il mitico primo re dell’isola, che secondo la mitologia greca era padre di sette figlie che poi “ascesero al cielo con il nome di Pleiadi” [86]). E forse saremmo tentati di aggiungere a questa casistica la settima fatica di Ercole – quella in cui combatte contro il toro cretese – tenendo presente che in un passo dell’Odissea è presente una singolare immagine di Ercole con una straordinaria cintura che regge una spada [87], su cui Omero si sofferma a lungo. In realtà questo singolare personaggio sembra più simile a Orione che a Ercole, considerando che sotto la Cintura si trova un gruppo di stelle che formano una linea verticale, chiamata “la Spada di Orione”.
Insomma, il mito delle sette Pleiadi è diffuso ovunque, dai Sioux Lakota alle isole della Polinesia, ed è molto curioso che sembri presentare ovunque caratteristiche simili: esse sono quasi sempre sette – come in una leggenda del popolo Wurundjeri dell’Australia sud-orientale, secondo cui sarebbero il fuoco di sette sorelle, che portavano carboni ardenti all’estremità dei loro bastoni da scavo, ma poi diventarono le stelle luminose dell’ammasso delle Pleiadi [88] – sebbene ad occhio nudo se ne possano contare fino a dodici. Questa straordinaria diffusione sia del loro nome che dei miti ad essi collegati sembra rimandare a una civiltà preistorica globale basata sulla navigazione – di cui Platone ci ha lasciato il ricordo nel mito dell’isola Atlantide – di cui abbiamo cercato di mostrare la possibile storicità in un precedente lavoro [89]. D’altronde in questo quadro ben si inserisce il fatto che il contesto in cui Plutarco colloca la ricorrenza della congiunzione tra Saturno e le Pleiadi sia un antico mondo atlantico, lo stesso in cui Platone ambienta il mito di Atlantide.
Un altro aspetto, forse ancora più sorprendente, dei racconti in cui le Pleiadi sono protagoniste è che a volte si parla di contatti diretti tra di esse (oppure una ‘terra nel cielo’ ad esse collegata) e gli esseri umani. Ritroviamo questo tema ad esempio tra i Mono della Sierra Nevada, che raccontano di sei mogli che amavano le cipolle più dei loro mariti e ora vivono felici nella ‘terra nel cielo’ [90], o in una tradizione del Borneo, che parla di un albero che permette a un uomo di arrampicarsi fino al cielo e riportare utili semi dalla ‘terra delle Pleiadi’ [91]. Ma non meno singolare è l’idea, riscontrabile presso alcune popolazioni americane come le culture guatemalteche di Monte Alto, Ujuxte e Takalik Abaj [92], che i loro mitici antenati discendessero dalle Pleiadi; analogamente, in un racconto dei Wyandot, nativi americani della regione dei Grandi Laghi, sette ‘fanciulle cantanti’, figlie del Sole e della Luna, che vivevano nella Terra del Cielo, scesero sulla Terra e danzarono con i bambini umani [93]. Inoltre, un mito degli Ojibwe (un gruppo di nativi americani che parlano in lingua algonchina) racconta che essi giunsero dalle Pleiadi attraverso un passaggio tra la Terra e il ‘mondo delle stelle’ chiamato ‘Bagone-giizhig’ [94].
Ma pensiamo anche ai Dogon del Mali, nell’Africa occidentale, secondo i quali i loro antenati erano arrivati sulla Terra in una sorta di arca volante, al cui interno erano raffigurate le Pleiadi nell’area ad essi riservata [95]. E che dire dei Banrawat, un gruppo etnico seminomade himalayano, che chiamano le Pleiadi ‘le sette cognate’ e quando le vedono apparire ogni anno sopra le loro montagne dicono di essere felici di rivedere i loro antichi parenti [96]? Queste curiose storie sembrano fare il paio con le affermazioni di coloro che sostengono che, tra le varie specie di esseri alieni dall’aspetto umanoide che visiterebbero la Terra, ve ne sarebbe una dall’aspetto molto simile a quello umano, che proverrebbe dalle Pleiadi [97].
Forse una traccia di questa nostalgia per un paradiso perduto situato nel cielo – ovvero una mitica Terra Madre celeste che, secondo diverse mitologie, si sarebbe trovata tra le Pleiadi – si potrebbe riscontrare in una frase contenuta in una nota preghiera cristiana di un monaco tedesco vissuto nell’XI secolo, Hermann di Reichenau, che fu anche astronomo e storico: “Noi esuli figli di Eva a te sospiriamo, gemendo e piangendo in questa valle di lacrime” [98]. Ciò potrebbe anche dipendere dalla percezione di non sentirsi ben adattati alla vita sulla Terra, come sembra evidenziare il terzo capitolo della Genesi allorché racconta che la traumatica espulsione dei nostri antenati dal Paradiso Terrestre comportò il dolore associato al parto, la fatica per procurarsi il cibo e la necessità di vestirsi e coprirsi di pelli.
Osserviamo anche che questa singolare idea che tra le stelle possa esserci una bellissima Terra primordiale – cioè un paradiso perduto dove avrebbe avuto origine la specie umana, di cui questo pianeta, dove i nostri antenati sarebbero stati relegati in un remoto passato e dove si conduce una vita faticosa e difficile, sarebbe solo un pallido riflesso – potrebbe essere all’origine di uno straordinario passo in cui Platone nel dialogo Fedone si sofferma sull’immagine di una meravigliosa Terra nel cielo, abitata da uomini e animali, incomparabilmente più bella del nostro mondo attuale: “La terra pura si trova nel cielo puro dove stanno gli astri (…) A chi la guardi dall’alto appare come una di quelle variopinte sfere di cuoio, divise in dodici spicchi, dai colori diversi, simili questi, appena, a quelli che di solito usano quaggiù i pittori. E quella terra lassù, tutta di questi colori è dipinta, ma molto più luminosi e più puri dei nostri: ora, infatti, è purpurea, di una meravigliosa bellezza, ora è color dell’oro o tutta bianca, più bianca del gesso e della neve, e gli altri colori, poi, di cui è composta, assai più numerosi e più belli di quanti noi ne abbiamo mai visti (…) Ma vi sono anche animali, diversi da quelli di qui, e uomini pure (…) Lì vi sono anche boschi sacri e templi, dove realmente abitano gli dei e si avverano oracoli e profezie, per cui, veramente, quegli uomini hanno contatti visibili e concreti rapporti con le divinità” [99].
Riteniamo che in futuro converrebbe approfondire queste questioni per comprendere la vera origine di questi racconti, così singolari e diffusi nei miti di popoli anche lontanissimi tra loro. Nel frattempo, ogni ipotesi è lasciata al lettore.
Conclusioni
In questo articolo abbiamo verificato che non mancano le ragioni per supporre che la stella dei Magi menzionata nel Vangelo di Matteo sia stata la congiunzione tra Saturno e le Pleiadi avvenuta nella primavera dell’anno 3 a.C. Bisogna infatti considerare da un lato l’importanza che secondo Plutarco un antico popolo atlantico attribuiva a questa congiunzione, dall’altro il fatto che le tre stelle della Cintura di Orione, quelle che indicano le Pleiadi, in varie parti del mondo fossero o siano tuttora chiamate “I Tre Re” o “I Re Magi”.
Se a ciò aggiungiamo l’attesa che a quel tempo si nutriva per l’arrivo dell’età dei Pesci, con la connessa speranza del ritorno della mitica Età dell’Oro, in una fase critica della storia umana che tra l’altro aveva visto da poco il crollo del Regno d’Egitto, possiamo ben comprendere cosa quella data potesse significare per chi allora si occupava di queste tematiche. In effetti, se proviamo a metterci nei panni di un antico astronomo/astrologo, quella congiunzione tra Saturno e le Pleiadi rappresentava in realtà l’incontro di due entità mitiche molto importanti: da una parte, il pianeta che portava il nome di Saturno, l’antico Re del Cielo nonché Signore della perduta Età dell’Oro, il cui ritorno era atteso con l’avvento dell’età dei Pesci (è un sentimento espresso con grande forza, e al tempo stesso con profonda umanità e delicatezza, da Virgilio nella IV Egloga); dall’altra, le Pleiadi, ovvero la ‘Santissima Maia’, la Madre Terra, la dea protettrice per eccellenza (e non è per caso, infatti, che ci siamo soffermati sulla sua figura nell’ultima parte di questo studio). Si trattò, insomma, di un incontro in Cielo tra due entità divine, sovrumane, una maschile e l’altra femminile, che, date le circostanze, assunse in quel particolare momento uno straordinario valore simbolico e da cui era lecito aspettarsi, quale controparte sulla Terra – “Come in alto, così in basso” – la nascita di un Bimbo Speciale, il futuro re di una nuova era di felicità e di benessere che i Magi cercavano “per adorarlo”.
Questa, a nostro avviso, è l’essenza del discorso rimasto a lungo nascosto dietro le parole del Vangelo di Matteo, ma che ancora affonda le sue radici nell’inconscio di molti esseri umani (il che spiega perché, dopo duemila anni, il motivo del Natale e della Stella di Betlemme continui ad esercitare un grande fascino).
In ogni caso, la grande distanza che separa le culture coinvolte nel presente studio attesta l’antichità di queste concezioni, avvalorando l’idea che esistesse una civiltà preistorica globale diffusa su tutto il pianeta, di cui Platone ci ha lasciato l’ultima memoria tramandandoci il mito di Atlantide, di cui quanto è qui emerso sembra rappresentare un’ulteriore conferma. Ciò tra l’altro implica che tale civiltà avesse una notevole dimestichezza con l’arte della navigazione (il che a sua volta presuppone una conoscenza approfondita degli astri e dei loro moti ciclici nella volta celeste, essenziale per determinare la posizione delle navi e calcolarne la rotta), come confermato da recenti studi sul megalitismo.
Riteniamo infine che sia utile e necessario approfondire le tematiche toccate in questo studio, le quali certamente richiedono ulteriori approfondimenti da parte degli specialisti a supporto dell’ipotesi qui proposta. Riterrei inoltre molto opportuno lavorare su tutti i temi legati all’importanza che molte culture del passato hanno attribuito alle Pleiadi e in particolare a Maia, la Madre Terra. Infatti i futuri studi su questi argomenti potrebbero forse gettare nuova luce sulla preistoria dell’umanità e contribuire ad indicare nuove prospettive per il futuro.
L’articolo originale in lingua inglese è leggibile sul sito https://lupinepublishers.com/anthropological-and-archaeological-sciences/pdf/JAAS.MS.ID.000346.pdf
Riferimenti bibliografici
1. Matteo 2:1-2.
2. Cfr. Allison D C Jr (1993) What Was the Star that Guided the Magi? in Bible Review.
3. Mosley J (1981) Common Errors in “Star of Bethlehem” Planetarium Shows, in Planetarian Vol. 10 n. 3, p. 4.
4. Parpola S (2001) The Magi and the Star, in Bible Review, p. 16.
5. Newman R (2001) The Star of Bethlehem: A Natural-Supernatural Hybrid? Interdisciplinary Biblical Research Institute.
6. Kennedy E S, Pingree D (1971) The Astrological History of Masha’allah, Harvard University Press, Cambridge, MA.
7. Plut. De Facie quae in Orbe Lunae Apparet, 941c.
8. Cfr. Plut. De Fac. 941a-942b.
9. Vinci F (2024) A Hypothesis on the Pillars of Heracles and their True Location, in JAAS Vol. 9 – Iss. 3, 202. (Versione italiana leggibile in www.agenziacomunica.net/2024/05/20/unipotesi-sulle-colonne-dercole-e-la-loro-reale-localizzazione/).
10. Plut. De Fac. 941a.
11. Plut. De Fac. 941d.
12. Vinci F (2006) The Baltic Origins of Homer’s Epic Tales, Inner Traditions, Rochester VT, p. 16.
13. Plut. De Fac. 941c. La Meotide corrisponde all’attuale Mar d’Azov (che, come afferma Plutarco, è più piccolo del Golfo del San Lorenzo).
14. Tsikritsis M (2016) Travelling from Canada to Carthage in 86 AD, Conference Paper.
15. The excellent knowledge of geography at the time of Plutarch (1st century AD) is also attested by his statement that the distance from the Moon to the Earth is “fifty-six times greater than the radius of the Earth” (De Facie 925d). In fact, multiplying the mean radius of the Earth (6,371 km) by 56, we obtain an Earth-Moon distance of 356,776 km, while their actual distance at perigee is 356,500 km. L’eccellente conoscenza della geografia al tempo di Plutarco (I secolo d.C.) è attestata anche dalla sua affermazione che la distanza tra la Luna e la Terra è “cinquantasei volte maggiore del raggio terrestre” (De Facie 925d): infatti, moltiplicando il raggio medio terrestre (6.371 km) per 56, otteniamo una distanza Terra-Luna di 356.776 km, mentre la loro distanza effettiva al perigeo è di 356.500 km.
16. Cfr. Griffin J B (1961) Lake Superior copper and the Indians: miscellaneous studies of Great Lakes prehistory. Università del Michigan, Ann Arbor MI.
17. Cfr. Castellani V (2005) “Quando il mare sommerse l’Europa”, Torino.
18. Cfr. Schulz Paulsson B (2019) Radiocarbon dates and Bayesian modeling support maritime diffusion model for megaliths in Europe, in PNAS, vol. 116/9/3465 (https://doi.org/10.1073/pnas.1813268116).
19. Cfr. Gwin P (2024) Misteri e segreti del cimitero del Sahara. in National Geographic Magazine, 9/2024, p. 84.
20. Cfr. Pinna M (1977) Climatologia, Torino.
21. de Santillana G, von Dechend H (2003) Il Mulino di Amleto, Milano, p. 239.
22. Plin. Nat. Hist. 16, 45.
23. “Alcione e Merope, Celeno e Taigete,/ Elettra e Sterope, insieme con la Santissima Maia” (Cic. Arat. 270-271).
24. Verderame L (2016) Pleiades in ancient Mesopotamia, in Mediterranean Archaeology and Archaeometry, Vol. 16, No 4.
25. Ashton E (1967) The Basuto: a social study of traditional and modern Lesotho. Londra, p. 130.
26. Bryant A (1970) The Zulu People as they were Before the White Man Came. New York, p. 251.
27. Cfr. Mintz M W (2011) The Philippines at the turn of the Sixteenth Century, Canberra.
28. Cfr. Aveni A (2001) Skywatchers of ancient Mexico. Austin TX.
29. Per quanto riguarda il calendario Inca, “Il primo approccio (…) suggerisce che si tratti di un calendario lunare siderale basato sulle Pleiadi; Il secondo approccio propone che si tratti di un calendario luni-solare, probabilmente sincronizzato attraverso osservazioni siderali, in particolare utilizzando le Pleiadi”, Quijano Vodniza A J (2023) The Pleiades and the Agrarian and Ritual Calendar of the Incas, in Revista Colombiana de Antropología, vol.59, n.2, p. 118.
30. Malotki E (1983) Hopi time: a linguistic analysis of the temporal concepts in the Hopi language. Vol. 20. Berlino, p. 445.
31. De Goeje C H (1943) Philosophy, initiation and myths of the Indians of Guiana and adjacent countries. Leida, p. 27.
32. Cfr. Mātāmua R (2018) Matariki: the Star of the Year, Wellington.
33. Nissan E, Maiuri A, Vinci F (2019) Reflected in Heaven, Part Two: Ovid’s Evidence for a Motif, Shared by Rome and Jerusalem, of Material Features of the Metropolis of the Respective People Being Reflected in a Constellation in Heaven, Part Two, in MHNH, 19, pp. 87-166.
34. https://bifrost.it/FINNI/Fonti/Kalevala50.html
35. Luca 1, 32.
36. Hinckley A R (1936) Star-names and their meanings, New York, p. 316.
37.https://web.archive.org/web/20100129083441/http://www.psychohistorian.org/astronomy/ethnoastronomy/three_kings_cape_clouds.php
38. Miglietta A (2013) I segni del tempo, in Anthropos & Iatria XVII-1, Genova, p. 70.
39. https://web.archive.org/web/20050215131931/http://sepiensa.org.mx/contenidos/s_reyes/reyes.htm
40. https://web.archive.org/web/20131024111539/http://www.elnuevodia.com/tresreyesmagosenelcieloestanoche-1421862.html
41. Inno omerico a Hermes, 23.
42. Cfr. Steinmann A (2011) From Abraham to Paul: A Biblical Chronology. St. Louis, MO.
43. Filmer W (1966) The Chronology of the Reign of Herod the Great”, in The Journal of Theological Studies, 17(2):283.
44. Finegan J (1998) Handbook of Biblical Chronology: Principles of Time Reckoning in the Ancient World and Problems of Chronology in the Bible. Peabody MA, p. 301.
45. Ferri G (2010) Tutela Urbis, Stoccarda, p. 219.
46. 1 Enoch 21, 3-6, in Sacchi P (1981) Apocrifi dell’Antico Testamento, Torino, p. 498.
47. Giob. 38:31.
48. Cfr. https://www.theoi.com/Nymphe/NymphaiPleiades.html
49. Per questo calcolo Domenico Ienna ha utilizzato ‘Perseus’, un software di simulazione astronomica per Windows, progettato e realizzato da L. Fontana e F. Riccio. Livello e versione utilizzati: III, 1.13.4. Perseus utilizza il calendario gregoriano per le date dal 15 ottobre 1582 in poi, il calendario giuliano per le date precedenti. L’anno 3 a.C. trovato con Perseus corrisponde al 2 a.C. nel software ‘Stellarium’ (utilizzato da Paolo Colona) poiché quest’ultimo ha anche l’anno 0, che in realtà non esiste, quindi tutte le date a.C. devono sempre essere diminuite di 1. Ringraziamo il dott. Domenico Ienna e il prof. Paolo Colona per il loro contributo.
50. Virg. Ecl. 4, 4-7.
51. Virg. En. 6, 792-794.
,53. A questo proposito, Ovidio afferma: “La mia colpa devo tacerla” (“Culpa silenda mihi”; Trist. 2, 208).
54. Verderame L (2016) Pleiades in Ancient Mesopotamia, in Mediterranean Archaeology and Archaeometry, Vol. 16, No 4, p. 109.
55. Cfr. Vinci F, Maiuri M (2019) Le Pleiadi e la fondazione di Roma, in Appunti Romani di Filologia No 21, pp. 17-23; v. www.futuroquotidiano.com/wp-content/uploads/2018/07/Le-Pleiadi-e-la-fondazione-di-Roma-4.7.2018-def.pdf
56. Cfr. Verderame L (2016) Pleiades in Ancient Mesopotamia, in Mediterranean Archaeology and Archaeometry, Vol. 16, No 4.
57. Cfr. Vinci F, Maiuri M (2017) Mai dire Maia. Un’ipotesi sulla causa dell’esilio di Ovidio e sul nome segreto di Roma, in Appunti Romani di Filologia No 19, pp. 19-30; v. www.futuroquotidiano.com/wp-content/uploads/2018/04/Mai-dire-Maia-di-Felice-Vinci.pdf
58. Cfr. Ov. Fast. V, 81-106.
59. Plin. Nat. Hist. 38, 18.
60. Plin., Nat. Hist. 3, 65.
61. Macr. Satur. 1, 12, 21.
62. Cfr. Vinci F, Maiuri M (2023) La Saturnia Tellus e la dea Maia, in Folkloricum, Archive of Ancient Folklore, Roma 2023, v. www.folkloricum.it/la-saturnia-tellus-e-la-dea-maia/
63. Newman C (1998) Reflections on the making of a ‘royal site’ in early Ireland, in World Archaeology 30(1):127-141.
64. Apoc. Giov., 16:16.
65. Cfr. Gelling M (1984) Place Names in the Landscape, Worthing West Sussex.
66. https://theislamicinformation.com/travel/mountains-in-makkah-must-visit/
67. Long D E (2005) Culture and Customs of Saudi Arabia, Westport CT, p. 14.
68. https://thepilgrim.co/makkah-al-mukarramah/
69. Gaydukov V (2000). Идеология и практика славянского неоязычества (Ideologia e pratica del neopaganesimo slavo), Univ. Herzen, San Pietroburgo.
70. Beekes R (2009) Etymological Dictionary of Greek, Leida, p. 269.
71. Cfr. https://www.maggiereid.com/lakota/mytwho.htm, sub “Maka”.
72. Cfr. Beckwith M (1970) Hawaiian Mythology, Honolulu.
73. Cfr. D’Arcy P (1994) The Emu in the Sky: Stories about the Aboriginals and the day and night skies. Canberra.
74. https://www.etymonline.com/word/sky
75. https://en.wikipedia.org/wiki/Wakan_Tanka
76. Adam H M, Ford R (1997) Mending Rips in the Sky, Trenton NJ, p. 126.
77. Cfr. Jinam T et al. (2015) Unique characteristics of the Ainu population in Northern Japan, in Journal of Human Genetics, 60 (10): 565–571.
78. Cfr. Ashkenazy M (2003) Handbook of Japanese Mythology, Santa Barbara CA.
79. Staal J 1988 The New Patterns in the Sky, Newark OH.
80. Schaaf F (2008) The brightest stars: discovering the universe through the sky’s most brilliant stars, Hoboken NJ.
81. https://sardiniarevealed.com/sartiglia-carnival-oristano/
82. https://cielososcuros.com.mx/the-pleiades/
83. Tigay J (2002) The Evolution of the Gilgamesh Epic, Wauconda IL.
84. Om. Il. 20, 403-405.
85. Plat. Criz. 120c. Il sacrificio del toro descritto nel Crizia presenta notevoli analogie con il sacrificio della renna nel mondo lappone: anche in questo caso, un certo numero di animali è rinchiuso in un recinto, uno di essi viene catturato con lacci e dopo il sacrificio una parte del suo sangue, versato in una coppa, viene bevuto dallo sciamano che dirige il rito. Inoltre il muso della renna viene coperto con un telo prima di ucciderla. È forse da questo gesto, volto ad impedire all’animale di riconoscere il suo uccisore e al suo spirito di vendicarsi, che potrebbe aver avuto origine l’usanza del matador di far roteare la muleta davanti al muso del toro prima di colpirlo.
86. Diod. Sic. Bibliot. St. 1.60.
87. “Terribile era la cintura intorno al suo petto, una bandoliera d’oro su cui erano raffigurate cose meravigliose, orsi e cinghiali, leoni dagli occhi scintillanti, conflitti, battaglie, omicidi e stragi di uomini. Anche chi con la sua arte sapesse costruire quella cintura, mai piú potrebbe fare un’altra opera pari ad essa” (Om. Od. 11, 609-614).
88. Mudrooroo (2020) Aboriginal mythology, Londra, p. 35.
89. Cfr. Vinci F (2025) Striking Correspondences Between Plato’s Atlantis and Greenland, in J Anthro & Archeo Sci 10(3) – 2025. JAAS (Versione italiana leggibile in www.agenziacomunica.net/2025/02/17/le-straordinarie-corrispondenze-tra-latlantide-di-platone-e-la-groenlandia/).
90. Cfr. Monroe J G (1987) They dance in the sky. Native American star myths, Boston MA.
91. de Santillana G, von Dechend H (2003) Il Mulino di Amleto, Milano, p. 255.
92. Cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Pleiades_in_folklore_and_literature
93. Connelley W E (1899) Wyandot Folk-lore, Topeka KS, pp. 109-111.
94. Cfr. Moose L, Moose M (2021) Bagone Giizhig: The Hole in the Sky, Brantford.
95. Griaule M (1968) Dio d’acqua, Milano, IV giornata.
96. Cfr. Fortier J (2009) Kings of the Forest: The cultural resilience of Himalayan hunter-gatherers. Honolulu HI.
97. Bryan C (1995) Close Encounters of the Fourth Kind: Alien Abduction, UFOs, and the Conference at M.I.T., Knopf, New York, pp. 30-31.
98. https://www.gregorianum.org/wiki/Salve_Regina_%28tono_simplex%29
99. Plat. Fed. 109b-111b (trad. E. Turolla).