Firenze, da capitale dell’Umanesimo a capitale del cubismo involontario

Ovvero: il Rinascimento aveva i “Maestri”, la decadenza ha i “permessi”.
Sulla vicenda del cosiddetto “cubo bianconero” svettante al posto dell’ex Teatro Comunale, le riflessioni dell’avvocato Marco Mariani, esperto di diritto amministrativo
C’è un’immagine che in questi giorni sintetizza più di mille parole lo stato del rapporto tra Firenze e il suo centro storico patrimonio mondiale dell’UNESCO: il cosiddetto “cubo bianconero” svettante al posto dell’ex Teatro Comunale. Non si tratta solo di un edificio: è un segno, un simbolo che incrina l’immagine stessa della città. Quel blocco bianconero, spigoloso e alieno rispetto alla morbida continuità dei tetti rinascimentali, non è soltanto una presenza visiva ingombrante, ma una dichiarazione di indifferenza verso l’eredità storica e artistica di Firenze. E pensare che, trattandosi di un volume “bianconero”, a Firenze sarebbe bastata la sola cromia per suonare un campanello d’allarme: qui, dove la rivalità con la Juventus è un fatto identitario, certi colori dovrebbero insospettire a prescindere. Invece – al di là delle battute – è passato tutto come se niente fosse, trasformandosi oggi nell’icona perfetta di una resa culturale e politica.
Stupisce innanzitutto il silenzio — o peggio, il rimpallo di responsabilità e le amnesie — dei politici locali. Amministratori che non perdono occasione di farsi immortalare mentre tagliano nastri o benedicono panchine, oggi si trincerano dietro il più classico scaricabarile burocratico. E la scena ricorda da vicino la vecchia barzelletta del chirurgo che esce trionfante dalla sala operatoria annunciando: «L’operazione è perfettamente riuscita, peccato che il paziente sia morto». Così anche a Firenze: tutti a rivendicare la correttezza dei procedimenti, mentre nessuno guarda l’esito finale, cioè un cubo bianconero che incombe sul cuore UNESCO della città. In questo quadro si inseriscono le dichiarazioni della sindaca Sara Funaro, secondo cui «non penso che si debba ragionare sui giudizi personali e sui pareri estetici quanto sui percorsi fatti… L’amministrazione ha già risposto in maniera puntuale con una nota che ha elencato tutti i passaggi effettuati. Non ho altro da aggiungere». Un ragionamento troppo sofista per risultare rassicurante: perché a fronte di uno sfregio evidente, rifugiarsi nell’elenco delle procedure equivale, ancora una volta, a dire che l’operazione è riuscita ma il paziente — la città — è morto.
La severità a geometria variabile della Soprintendenza
Sorprende poi che la stessa Soprintendenza fiorentina che in passato si è opposta con intransigenza persino all’installazione di alcune pensiline della tramvia — considerate evidentemente un attentato mortale al decoro cittadino — abbia invece trovato modo di autorizzare un parallelepipedo bianconero alto come un pugno in un occhio, piantato nel cuore del centro UNESCO. Una discrepanza che non può non sollevare domande: quali criteri sono stati adottati? Forse la pensilina del tram era troppo funzionale e utile al cittadino medio, mentre un blocco di appartamenti di lusso per affitti turistici incarna meglio lo spirito del tempo e il decoro cittadino? E chi ha ritenuto compatibile con il paesaggio di Firenze un volume che non solo spezza l’armonia urbana, ma la fa a pezzi con la stessa grazia di un maiale nel salotto (“the pig in the parlour” citato dalla giurisprudenza americana per casi analoghi)? Qui la severità paesaggistica sembra avere una singolare geometria variabile: inflessibile di fronte a una finestra, sorprendentemente permissiva di fronte a un grattacielo in miniatura che fronteggia la cupola di Brunelleschi.
Il caso non è più confinato a Firenze, né alle pagine locali di cronaca. La vicenda del “cubo bianconero” ha infatti varcato i confini cittadini, diventando un affare nazionale e perfino internazionale. Avvenire ha dedicato un’inchiesta approfondita all’edificio, definendolo senza mezzi termini un «simbolo in negativo della trasformazione urbanistica di Firenze», cioè l’emblema di una città che sembra sacrificare la propria identità millenaria sull’altare del turismo di massa e delle rendite immobiliari. Non solo: il quotidiano cattolico ha ricordato come la Procura di Firenze abbia già aperto un fascicolo esplorativo per verificare eventuali irregolarità edilizie o urbanistiche, segno che la questione non riguarda più soltanto il gusto estetico o il dibattito culturale, ma anche il rispetto delle regole.
Non meno dura la stampa estera. Il Times di Londra, rilanciato da La Nazione, ha scritto che un intervento del genere «potrebbe costare a Firenze lo status di sito UNESCO», un monito che suona come una clamorosa umiliazione per una città che dal 1982 vanta quel riconoscimento come sigillo della sua unicità. A rendere il quadro ancora più impietoso, il sondaggio proposto da La Nazione agli stessi lettori: quasi tre quarti si sono espressi per la demolizione del cubo, a conferma di un rigetto popolare che travalica le simpatie politiche e le sensibilità estetiche. In altre parole, non si tratta più di un caso isolato o di una polemica tra addetti ai lavori: Firenze è finita sotto osservazione a livello mondiale, con il rischio che un singolo edificio diventi la cartina al tornasole di un declino culturale e di una gestione urbanistica priva di bussola.
Il paradosso del Comune
Il Comune di Firenze, negli ultimi anni, si è distinto per regolamentazioni rigidissime a tutela del decoro del centro storico UNESCO, rivendicate come strumenti esemplari di protezione. Non si tratta di linee guida generiche, ma di divieti puntuali e prescrizioni capillari: solo per citarne alcuni, per tre anni sono stati vietati nuovi insediamenti di attività di commercio al dettaglio del settore alimentare, di somministrazione di alimenti e bevande e di attività artigianali alimentari; senza limiti temporali sono state escluse attività come quelle di preparazione e vendita di pizza in forma prevalente, l’uso di alimenti precotti o surgelati, i distributori automatici di bevande e generi alimentari, fino alle formule di fast food e self service.
Accanto a queste limitazioni sull’offerta commerciale, il Comune ha dettato regole minuziose sull’aspetto esteriore: divieti di esposizione in vetrina di alcolici, prescrizioni su gadget e souvenir, limiti alla pubblicità e alle insegne, obblighi di utilizzare materiali e colori tradizionali per tende e serramenti. Persino i dehors sono stati regolati al millimetro, con tipologie, materiali e tonalità cromatiche prestabilite, dimensioni massime fissate e divieti espressi per loghi, pubblicità e diffusione di musica. Da ultimo, il Regolamento del Comune di Firenze sugli affitti brevi, entrato in vigore il 31 maggio 2025, stabilisce che ogni unità immobiliare destinata a locazione turistica debba essere preventivamente autorizzata dal Comune, con un titolo della durata di cinque anni rinnovabile. Nella stessa data è scattato il divieto di rilasciare nuove autorizzazioni per immobili situati nell’area UNESCO, per un periodo di tre anni, con la possibilità di estensione. Il regolamento introduce inoltre ulteriori requisiti, come la superficie minima di 28 metri quadrati per ciascuna unità, l’istituzione di un Registro comunale delle locazioni turistiche e un regime sanzionatorio fino a 10.000 euro per chi esercita senza titolo o in violazione delle prescrizioni.
Eppure, di fronte a un intervento che altera in modo macroscopico la skyline di Firenze, quelle stesse cautele sembrano svanite. Il risultato è un paradosso difficile da spiegare: si può vietare l’insediamento di una piccola attività artigianale alimentare o impedire a un negozio di esporre una bottiglia di vino in vetrina, ma si autorizza un parallelepipedo bianconero che compete con la cupola di Brunelleschi. Una sproporzione che lascia l’impressione di un Comune inflessibile nei confronti delle microattività e sorprendentemente indulgente verso le grandi operazioni immobiliari.
Un paragone che non regge
Qualcuno ha tentato di ridimensionare la polemica evocando illustri precedenti e una certa riottosità ad accettare le novità: le contestazioni che accompagnarono la stazione di Santa Maria Novella di Michelucci, a suo tempo accusata di modernismo spregiudicato, o in Francia l’ostilità iniziale che accolse la Tour Eiffel e, decenni dopo, il Centre Pompidou. Ma il paragone non regge, e anzi rischia di risultare offensivo per la memoria di quelle opere. In quei casi si trattava di progetti che, pur tra mille resistenze, recavano in sé un’idea, una visione, un linguaggio architettonico forte e innovativo. La stazione di Michelucci è oggi considerata un capolavoro del Razionalismo italiano, la Tour Eiffel è divenuta l’icona stessa di Parigi e il Beaubourg ha ridefinito il concetto di centro culturale contemporaneo.
Il “cubo bianconero” fiorentino, al contrario, non lascia intravedere alcuna tensione ideale né un disegno culturale riconoscibile: non rappresenta una sfida estetica né una rottura consapevole col passato, ma piuttosto l’esito banale di esigenze speculative, con l’obiettivo evidente di massimizzare i volumi edilizi e minimizzare i costi. È un manufatto senz’anima, privo di quella carica di provocazione artistica che rende grandi persino le opere inizialmente detestate. Non siamo di fronte a un gesto creativo incompreso, ma a un’operazione immobiliare travestita da architettura. E per Firenze, città che ha consegnato al mondo il Rinascimento, la differenza è sostanziale: qui non c’è l’ardire di un nuovo linguaggio, ma il vuoto che resta quando l’opportunità economica prende il posto dell’arte.
Un equilibrio mancato
Ogni intervento edilizio, soprattutto in un contesto UNESCO, è il punto di intersezione di tensioni molteplici: esigenze tecniche e ingegneristiche, vincoli giuridici e regolatori, interessi economici e, non ultimo, valori culturali e artistici. In un equilibrio virtuoso, questi elementi dovrebbero dialogare, bilanciarsi e reciprocamente correggersi. Nel caso del cubo bianconero, invece, l’equilibrio è saltato: progettisti e committenti sembrano aver guardato solo agli aspetti burocratico-formali e a quelli economici, assicurandosi che le carte fossero in ordine e che i metri cubi fossero massimizzati, ma sacrificando del tutto la dimensione artistica e la sensibilità paesaggistica.
Il risultato è un’opera che, pur formalmente “regolare”, è sostanzialmente stonata: una costruzione che non dialoga con l’ambiente circostante, ma lo sovrasta e lo incrina. Altrove, in contesti meno fragili, potrebbe essere considerato un peccato veniale, frutto della logica di mercato che spesso piega l’architettura a esigenze di profitto. A Firenze, però, questo stesso peccato diventa mortale: perché qui non si interviene su un tessuto urbano qualunque, ma sul cuore di un patrimonio universale, riconosciuto dall’UNESCO come eredità dell’umanità intera.
La sproporzione è lampante: da un lato la ricerca spasmodica di ritorni economici, dall’altro il totale silenzio dell’immaginazione artistica. Eppure è proprio questo silenzio, in una città che ha fatto della bellezza la sua lingua madre, a risultare assordante. Lì dove cinque secoli fa Brunelleschi elevava la Cupola come simbolo di un’epoca di valori e visioni, oggi ci troviamo di fronte a un blocco muto, che parla solo la lingua del mercato e dell’opportunismo. È questa la vera ferita: non tanto l’errore estetico in sé, ma la rinuncia a cercare un equilibrio più alto, che tenesse insieme architettura, diritto ed economia senza tradire l’anima stessa della città.
Permessi e rimedi
Il dibattito non è solo estetico, né soltanto politico: c’è un nodo strettamente giuridico che merita di essere compreso, perché è lì che si gioca la possibilità concreta di intervenire. Occorre distinguere due piani che spesso, nel dibattito pubblico, vengono confusi. Da un lato c’è il permesso di costruire, titolo edilizio che, una volta rilasciato e consolidato, acquisisce un carattere di sostanziale irrevocabilità: non si può semplicemente decidere di ritirarlo perché l’opera non piace o perché ha suscitato un’ondata di indignazione collettiva. Dall’altro lato, c’è l’autorizzazione paesaggistica, che segue regole parzialmente diverse: qui non vige la stessa blindatura, e il provvedimento può (ricorrendone i presupposti di legge, da valutare dopo un attento esame della documentazione amministrativa) essere oggetto di revoca o sindacato laddove emergano vizi sostanziali o procedurali, ossia difformità dai parametri normativi, carenze istruttorie, valutazioni manifestamente illogiche o contraddittorie.
La domanda che molti si pongono è se il “cubo nero” possa essere rimosso per via giuridica. La risposta non è semplice e necessariamente passa attraverso un esame scrupoloso della documentazione amministrativa pertinente, ma esiste una distinzione chiara: il permesso di costruire è ormai un titolo edilizio consolidato e non può essere revocato solo perché l’opera non piace; diversa è invece la sorte dell’autorizzazione paesaggistica, senza la quale il permesso non sarebbe stato valido.
Qui la giurisprudenza è netta: un’autorizzazione paesaggistica non può essere annullata soltanto perché la Soprintendenza o un giudice hanno un “gusto estetico” diverso da quello espresso nel provvedimento. L’annullamento è possibile solo se emergono vizi di legittimità, come una motivazione apparente, un’istruttoria superficiale o una valutazione contraddittoria rispetto ai vincoli di tutela. In questi casi il provvedimento può cadere perché non regge al controllo di ragionevolezza.
Se invece l’autorizzazione è formalmente ben motivata, l’unico strumento resta la revoca, cioè la decisione che comporta l’esercizio di discrezionalità nel merito di ritirare un atto anche legittimo per sopravvenute esigenze di interesse pubblico. È la strada più difficile: comporta il bilanciamento dell’affidamento dei privati e, soprattutto, l’obbligo di tutelare l’affidamento e indennizzare chi ha già investito milioni nell’intervento. In altre parole, l’annullamento è una via strettamente giuridica e richiede di dimostrare errori o omissioni; la revoca è una scelta di merito (vale a dire di opportunità), ma ha un prezzo economico potenzialmente altissimo.
Questo aspetto, spesso relegato in secondo piano rispetto al clamore delle polemiche, è invece cruciale perché segna la differenza tra l’indignazione morale e la possibilità di un’azione concreta. E pone una domanda di fondo: se la skyline di Firenze è patrimonio mondiale dell’umanità, chi garantisce davvero che gli strumenti di tutela previsti dalle leggi siano stati applicati con il rigore che la situazione impone?
L’icona di un’epoca senza idee e valori
E così, mentre cinque secoli fa Brunelleschi innalzava la Cupola, simbolo eterno dell’Umanesimo e del Rinascimento, oggi la nostra epoca sembra accontentarsi di un cubo bianconero. Là dove un tempo la città parlava al mondo con la lingua della bellezza, dell’armonia e dell’ingegno, ora espone un blocco muto, che non racconta nulla se non la resa all’indifferenza estetica e alla dittatura dei calcoli economici.
Forse è inevitabile: ogni tempo ha le sue icone, e il cubo bianconero è lo specchio fedele della nostra contemporaneità. Un’epoca che non osa, che non sogna, che non costruisce simboli per l’eternità, ma accumula volumi edilizi come fossero caselle di un bilancio. Il Rinascimento celebrava la dignità dell’uomo e la centralità dei valori, noi abbiamo eretto il nostro monumento al vuoto: un vuoto culturale, prima ancora che architettonico, che sembra scolpito nella pietra e destinato a rimanere come promemoria del nostro tempo senza visione.
Dinanzi a un episodio di tale portata, una città del prestigio e della storia di Firenze non può accontentarsi dello spettacolo dello scaricabarile istituzionale a cui stiamo assistendo. Il centro storico patrimonio dell’UNESCO non è il palcoscenico per schermaglie di competenza o per dichiarazioni elusive: esso esige un riesame rigoroso e puntuale della vicenda, tanto sul piano amministrativo quanto su quello politico.
È dovere delle istituzioni coinvolte assumersi senza reticenze la piena responsabilità politica e amministrativa delle decisioni assunte, come pure delle omissioni compiute. In una città che ha consegnato al mondo la misura universale della bellezza, non è tollerabile che, di fronte a un intervento di così dirompente impatto, ciascuno si rifugi dietro il paravento degli “atti dovuti”, dei “non ricordo” o della mera correttezza formale delle procedure. Firenze esige trasparenza, coerenza e coraggio: la responsabilità di ciò che si fa e di ciò che non si fa non può essere rinviata, né delegata. Né tanto meno omessa o aggirata.
Non è un caso se il contrasto con il passato appare tanto impietoso: la Cupola di Brunelleschi era un inno alla grandezza dell’uomo e alla potenza della sua creatività, il cubo bianconero è un promemoria del nostro smarrimento. Se il Rinascimento innalzava lo spirito, noi costruiamo parallelepipedi che lo schiacciano.
Marco Mariani*, com.unica 31 agosto 2025
*Avvocato del Foro di Firenze | Presidente Commissione “Administrative and Regulatory Law” dell’UIA | Docente a contratto di “Land Use Law and Public Procurement” nell’Università di Milano Statale.
**Le opinioni e le valutazioni contenute in questo articolo riflettono esclusivamente il pensiero personale dell’autore e non impegnano in alcun modo le istituzioni, gli enti o le organizzazioni con cui egli collabora o a cui è affiliato.