“La realtà è una trappola, l’immaginazione è libertà. Sognare è una forma di resistenza.”

Federico Fellini


Nel 1965, un momento irripetibile si consuma nella storia del cinema e del giornalismo culturale italiano. Il giornalista Sergio Zavoli incontra Federico Fellini e ne nasce Zoom su Fellini, un documentario che è molto più di una semplice intervista: è un viaggio nell’anima di un artista che ha fatto dell’immaginazione la sua lingua madre e della realtà un materiale da deformare, reinventare, liberare. È un colloquio pacato, profondo, che non cerca di spiegare Fellini, ma di ascoltarlo. Un’operazione oggi rara.

Fellini, in quella conversazione, chiarisce la sua visione: la realtà è una prigione, un meccanismo rigido e spesso ingannevole. Solo l’immaginazione permette una forma di libertà autentica, interiore e artistica. Per lui, ogni film è un atto di autoterapia, ma anche una ribellione collettiva contro l’omologazione. Il suo cinema non cerca il realismo, ma una verità più profonda, archetipica, che emerge attraverso il simbolo, l’immagine, il sogno.

Al centro della sua poetica c’è il rapporto con la psicoanalisi, in particolare quella junghiana, che lo porta a esplorare l’inconscio e a costruire i suoi film come percorsi iniziatici, densi di archetipi, visioni, fantasmi. Dopo l’incontro con lo psicoanalista Ernst Bernhard, il suo immaginario si popola di madri giganti, clowns, doppi, figure oniriche e mitiche che sfuggono a ogni definizione. Il suo cinema diventa una seduta collettiva, una terapia dell’anima.

Accanto alla psicoanalisi, la magia occupa un posto centrale: Fellini la intende come percezione del mistero che attraversa la vita. Non è superstizione, ma una forma di sapienza primitiva, arcaica, che restituisce alla narrazione il potere del mito. Il cinema diventa così un atto magico, un incantesimo collettivo, un rito dove la realtà si dissolve nel meraviglioso.

In questo contesto, il ruolo di Zavoli è esemplare: non interviene, non interpreta, ma crea le condizioni perché Fellini possa manifestarsi. Zoom su Fellini è un modello di giornalismo culturale che non cerca la semplificazione, ma accompagna lo spettatore in un’esperienza. E oggi, in un tempo in cui l’informazione corre dietro all’attualità, quell’approccio risulta quanto mai necessario.

Ma cos’è davvero il cinema? Per André Bazin, teorico fondante della modernità cinematografica, esso è una finestra aperta sul mondo: uno strumento capace di rivelare la verità oggettiva del reale. Difendeva l’integrità del tempo e dello spazio filmico, la profondità di campo, la durata continua, l’anti-montaggio come fedeltà alla realtà. Bazin è spesso citato come il padre spirituale del Neorealismo e del cinema d’autore moderno.

Eppure, il suo allievo prediletto, François Truffaut, ne ha tradito (o meglio: trasformato) la lezione. Se Bazin credeva nel realismo, Truffaut – pur figlio della sua teoria – ha praticato un cinema fortemente stilizzato, emotivo, costruito sulla soggettività e l’invenzione narrativa. I suoi film, da I 400 colpi a Effetto notte, non sono reportage, ma racconti personali, stilizzati, spesso metacinematografici. È la dimostrazione che anche chi nasce nel culto del reale può, da artista, scegliere l’immaginazione come strumento di verità più profonda.

Questa tensione tra realtà e visione attraversa tutta la storia del cinema. Come ha scritto Gilles Deleuze, il cinema non è solo uno specchio del mondo, ma anche una forma di pensiero autonoma. Nei suoi L’immagine-movimento e L’immagine-tempo, Deleuze mostra come il cinema possa diventare una macchina filosofica, capace di dare corpo al tempo, al sogno, alla crisi della percezione. Fellini – come Lynch, Resnais, Tarkovskij – rappresenta per Deleuze un punto di svolta: il cinema che non racconta più storie logiche, ma sogni, memorie, visioni.

Questo è anche il cuore del cinema di Paolo Sorrentino, forse il più fedele erede contemporaneo di Fellini. I suoi film – La grande bellezzaYouthÈ stata la mano di Dio, e ora Parthenope – non si preoccupano di “rappresentare” la realtà, ma di reinventarla poeticamente. In Parthenope, Napoli è vista attraverso la lente mitica della sirena fondatrice; la protagonista stessa è una figura sospesa tra mito e realtà, tra corpo e simbolo. Il film non racconta, evoca. È un viaggio interiore, un canto visivo, una confessione muta.

Eppure, mentre questo cinema dell’immaginazione sopravvive, il panorama italiano dominante sembra volgersi tutto al realismo: film premiati, acclamati, celebrati, che raccontano storie vere, drammi civili, cronache familiari. È un cinema spesso nobile, ma che si è fatto sistema, quasi ideologia. L’estetica del reale è diventata l’unico linguaggio ritenuto legittimo, e ogni deviazione verso il sogno, la metafora, il simbolo appare sospetta, marginale.

Questa “smania di reale” ha contagiato anche Hollywood, che da anni alterna solo due registri: da un lato, l’iperrealismo tragico o biografico, dall’altro, la fuga escapista del blockbuster. Tra questi poli, poco spazio resta per un cinema della visione, della psiche, del mistero.

Ecco perché registi come Sorrentino sono tanto preziosi. Il suo non è un cinema decorativo o astratto: è un atto politico dell’anima. È una risposta all’omologazione. In lui, come in Fellini, ogni film è una dichiarazione d’amore per ciò che non si può spiegare. È cinema che non riflette la realtà, ma la sogna. E proprio per questo, la rivela.

Come Deleuze ci ha insegnato, il cinema può pensare. E come Fellini ci ha mostrato, può anche farci sognare. In un mondo dove il reale è ormai un’ossessione, forse proprio l’immaginazione è la forma più radicale di verità.

Carlo Di Stanislao, com.unica 12 maggio 2025

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