L’euro avrebbe dovuto assicurare la prosperità comune, in realtà ha fatto esattamente il contrario, rallentando la crescita e seminando discordia. La riflessione di Joseph E. Stiglitz, Premio Nobel per l’Economia nel 2001.

L’euro potrebbe essere prossimo ad un’altra crisi. L’Italia, la terza più grande economia della zona euro, ha scelto quello che nella migliore delle ipotesi può essere definito come un governo euroscettico. Questo non dovrebbe sorprendere nessuno. La reazione negativa dell’Italia è un altro prevedibile (e previsto) episodio della lunga saga di un accordo valutario mal progettato, in cui la potenza dominante, la Germania, impedisce le necessarie riforme ed insiste su politiche che aggravano i problemi correlati, servendosi di una retorica apparentemente destinata ad infiammare gli animi.

Dal lancio dell’euro l’Italia ha registrato risultati mediocri. Il suo PIL reale (rettificato per l’inflazione) nel 2016 è stato lo stesso di quello del 2001. Ma neppure la zona euro nel suo insieme è andata bene. Dal 2008 al 2016, il suo PIL reale è aumentato in totale solo del 3%. Nel 2000, un anno dopo l’introduzione dell’euro, l’economia statunitense era solo il 13% più grande della zona euro; a partire dal 2016 risultava maggiore del 26%. Dopo una crescita reale di circa il 2,4% nel 2017 – non abbastanza da invertire i danni di un decennio di difficoltà – l’economia dell’eurozona sta di nuovo vacillando.

Se un paese va male, si incolpa il paese; se molti paesi vanno male, si incolpa il sistema. E, come sostengo nel mio libro The Euro: How a Common Currency Threatens the Future of Europe, l’euro era un sistema quasi destinato a fallire. La sua adozione ha comportato l’eliminazione dei principali meccanismi di aggiustamento dei governi (interessi e tassi di cambio); ed invece della creazione di nuove istituzioni per aiutare i paesi a far fronte alle diverse situazioni in cui si trovano, ha imposto nuove restrizioni – spesso basate su teorie economiche e politiche screditate – su deficit, debito e persino politiche strutturali.

L’euro avrebbe dovuto assicurare la prosperità comune, cosa che favorirebbe l’aumento della solidarietà e l’avanzamento dell’obiettivo dell’integrazione europea. In realtà, ha fatto esattamente il contrario, rallentando la crescita e seminando discordia.

Il problema non è la mancanza di idee su come andare avanti. Il presidente francese Emmanuel Macron, in due discorsi, lo scorso settembre alla Sorbona, e in maggio quando ha ricevuto il Premio Carlo Magno per l’Unità Europea, ha espresso una chiara visione per il futuro dell’Europa. Ma la cancelliera tedesca Angela Merkel ha di fatto gelato le sue proposte, proponendo, ad esempio, somme di denaro ridicolmente modeste per investimenti in settori che ne hanno urgente bisogno.

Nel mio libro, ho sottolineato l’urgente necessità di un sistema comune di garanzia dei depositi, per prevenire fenomeni di “bank run” contro i sistemi bancari dei paesi deboli. La Germania sembra riconoscere l’importanza di un’unione bancaria per il funzionamento di una moneta unica, ma, come sant’Agostino, la sua risposta è stata: “O Signore, rendimi pura, ma non ancora”. L’unione bancaria sembra essere una riforma da intraprendere in un futuro non precisato, e non importa quanti danni si fanno nel presente.

Il problema principale di un’area valutaria è come correggere i disallineamenti dei tassi di cambio simili a quello che oggi colpisce l’Italia. La risposta della Germania è quella di caricare il peso sui paesi deboli che già soffrono di elevati livelli di disoccupazione e bassi tassi di crescita. Sappiamo dove ciò porta: verso più dolore, sofferenza, disoccupazione, ed anche ad una crescita più lenta. Anche se alla fine la crescita riprendesse, il PIL non potrebbe mai arrivare ai livelli raggiungibili se si fosse perseguita una strategia più sensata. L’alternativa è spostare una quota maggiore dell’onere di adeguamento sui paesi forti, con salari più alti e una domanda più sostenuta supportata da programmi pubblici d’investimento.

Abbiamo già visto il primo e il secondo atto di questa commedia molte volte. Viene eletto un nuovo governo, che promette di fare un lavoro migliore negoziando con i Tedeschi per porre fine all’austerità e progettare un programma di riforme strutturali più ragionevole. Se i Tedeschi non si spostano affatto dalle proprie posizioni, non basta cambiare il corso economico. Aumenta il sentimento anti-tedesco e qualsiasi governo, sia di centro-sinistra che di centro-destra, accenna alle riforme necessarie, viene rimosso dall’incarico. I partiti anti-establishment vincono. Emerge il caos.

Nell’area dell’euro, i leader politici si dirigono verso una fase di paralisi: i cittadini vogliono rimanere nell’UE, ma vogliono anche porre fine all’austerità e ritornare alla prosperità. Viene detto loro che non possono avere entrambi. Sperando sempre in un cambio di posizione da parte dell’Europa settentrionale, i governi in difficoltà cercano di continuare sulla stessa strada, e le sofferenze delle loro popolazioni aumentano.

Il governo a guida socialista del primo ministro portoghese António Costa rappresenta un’eccezione a questo schema. Costa è riuscito a riportare il suo paese alla crescita (2,7% nel 2017) e ad ottenere un alto grado di popolarità (in aprile 2018, il 44% dei Portoghesi riteneva che la performance del governo superasse le aspettative).

L’Italia potrebbe rivelarsi un’altra eccezione – anche se in senso molto diverso. In Italia, il sentimento anti-euro arriva sia dalla sinistra che dalla destra. Con il partito della Lega di estrema destra ora al potere, Matteo Salvini, leader del partito e politico esperto, potrebbe effettivamente mettere in pratica quel tipo di minacce che altrove i neofiti hanno avuto paura di effettuare. L’Italia è abbastanza grande, con economisti abbastanza buoni e creativi, da gestire un allontanamento de facto – istituendo in pratica una doppia valuta flessibile che potrebbe aiutare a ripristinare la prosperità. Ciò violerebbe le norme sull’euro, ma il peso di un distacco de jure, con tutte le sue conseguenze, si sposterebbe su Bruxelles e Francoforte, con l’Italia che conta sulla paralisi dell’UE per evitare la rottura definitiva. Qualunque sia l’esito, l’eurozona sarà ridotta a brandelli.

Non si deve arrivare a questo. La Germania ed altri paesi dell’Europa settentrionale possono salvare l’euro mostrando più umanità e maggiore flessibilità. Ma, avendo già visto così tante volte i primi atti di questo dramma, io non conto su di loro per una modifica della trama.

Joseph E. Stiglitz, project-syndicate giugno 2018

*Premio Nobel per l’Economia nel 2001, insegna Politica Economica alla Columbia University ed è capo economista presso il Roosevelt Institute.