Lo scrittore e saggista americano svela ad Antonio Monda il suo primo romanzo. Tra storia, epica, solitudine e quotidiano eroismo, mette al centro una grande figura del passato Abraham Lincoln. Con molto da insegnare ai leader del presente. (da La Repubblica delle Donne).

NEW YORK. George Saunders è un uomo spiritoso e gentile, che ha compreso da anni quanto sia importante trovare l’equilibrio tra il non prendersi troppo sul serio e mantenere nello stesso tempo un’impeccabile professionalità. Riflette sempre un momento prima di rispondere, e anticipa ogni replica con un sorriso complice e sornione: lo sguardo che ha sul mondo è in primo luogo religioso, ed è segnato da una ricerca costante, che probabilmente non terminerà mai. Il suo ultimo libro, in uscita in Italia presso Feltrinelli con il titolo Lincoln nel Bardo e traduzione di Cristiana Mennella, è il suo primo romanzo, e conferma un’altissima qualità di scrittura anche nella forma lunga: l’eccellenza raggiunta in passato nei racconti sembra ulteriormente arricchita da uno sguardo che affronta anche le sfide della memoria, oltre che da una solida costruzione narrativa, che riflette una concezione della vita nella quale le domande sono molto superiori alle risposte. Amatissimo dagli scrittori proprio per il suo approccio umile, è riuscito a conquistarne l’entusiasmo anche con questa prova ambiziosa: Thomas Pynchon ha dichiarato che la sua è una “voce straordinariamente intonata: aggraziata, buia, autentica e divertente: scrive le storie di cui abbiamo bisogno di questi tempi”. Gli hanno fatto eco Jonathan Franzen (“ottiene l’impossibile senza sforzo: siamo fortunati ad averlo”) e Zadie Smith, che si è spinta a definire il romanzo “un capolavoro”, mentre perfino il più ostico e temuto dei critici americani, Michiko Kakutami, ha scritto sul “New York Times”: “nessuno scrive con maggior potenza sul concetto di perdita, sfortuna e mancanza di appartenenza.”

È una storia tragica, quella che racconta Saunders, e questo è il primo dato sorprendente: il sorriso a cui ci ha abituato in passato lascia lo spazio ad uno sguardo amaro sull’esistenza, e sull’inevitabilità del dolore. La vicenda parte dallo strazio di Abraham Lincoln per la morte del figlio undicenne Willie, e immagina il bambino in quella sorta di purgatorio che i tibetani definiscono Bardo. Questo immenso dolore privato è vissuto all’interno della tragedia nazionale della Guerra Civile, e, altro dato sorprendente, tutti i protagonisti sono già morti. All’interno di questo quadro cupo, non mancano tuttavia alcuni spunti ironici: Saunders ci invita a riflettere su cosa possiamo imparare dal passato e quali sono gli errori che ci ostiniamo a ripetere. Non mi faccio troppe illusioni: l’uomo non sa migliorarsi” racconta con un ennesimo sorriso “ma la nostra umanità, e forse la nostra grandezza, si misura proprio in questo tentativo che dobbiamo comunque mettere in atto anche se è destinato a fallire.”

Lei è religioso? 

Sì, sono buddista, anche se sono un neofita. E, anticipo, la tua domanda, l’idea del Bardo ha molto anche del Purgatorio cristiano. Io nasco cattolico e quella formazione rimane dentro di me: conoscerai certamente il detto “una volta che sei stato cattolico lo sei sempre.” Proprio ieri sono capitato in una chiesa, e oltre alla bellezza del luogo, ho sentito un imprescindibile senso di appartenenza. 

Lei crede nel Paradiso?

Certo.

E come se lo immagina?

Non me lo immagino, lo anelo.

E nell’inferno?

Certo, ma non so cosa sia. Tuttavia in terra ne vediamo delle manifestazioni chiare.

Sartre diceva che l’inferno sono gli altri.

Non sono mai stato d’accordo: l’inferno semmai è nella nostra mente, nella nostra anima tormentata.

Oggi si discute molto del rapporto tra religione e violenza.

Purtroppo c’è spesso una tragica connessione, ma anche una strumentalizzazione da parte di chi odia la religione. Io sono convinto che il fondamentalismo sia una degenerazione, e che la religione, quando è vissuta con onestà, rappresenti un’arma contro la violenza: la più efficace delle armi. E ciò è valido per ogni religione, ovviamente.

Lei si è affermato con magnifici libri satirici, ma oggi realizza un romanzo segnato innanzitutto dal dolore.

Ogni libro ha una sua voce, in qualche modo obbligata, ma devo dire che non ho mai visto un’autentica distinzione tra tragedia e commedia: la vita non lo consente. E il dolore è un mistero dell’esistenza. Come anche all’incanto, la meraviglia, la gioia. 

Come mai la satira ha meno fortuna con la critica di quanto ne abbiano le storie drammatiche o impegnate socialmente?

Credo che ci sia una grande miopia nel non comprendere che si può raggiungere la grandezza, e parlare di cose importantissime, con linguaggi diversi, a volte opposti. Penso anche che il nostro più grande errore –e non mi riferisco solo agli scrittori- sia quello di prenderci sul serio: chi smentisce questo assunto viene penalizzato. 

Come mai ha deciso di passare dal racconto al romanzo?

Questa storia meritava un respiro più vasto, e si è trattato di un passaggio meno traumatico di quanto immaginassi. Ho iniziato a lavorare con uno schema iniziale, attendendo che fossi pronto a raccontare tanto dolore. Ho fatto quindi un lavoro di limatura meticoloso, continuando ad andare avanti, nella consapevolezza che l’ispirazione è un mito: è il lavoro quotidiano a essere importante.

Tuttavia lei ha individuato un’ispirazione originale: la Pietà di Michelangelo.

Si tratta di una delle opere più grandi e pure della storia dell’arte, e il solo accostare il mio nome a quello di Michelangelo mi fa arrossire. Venticinque anni fa una mia cugina mi raccontò che Lincoln visitava la cripta del figlio: sono rimasto molto commosso dall’immagine di una personalità così grande, che stava cambiando il mondo, che si straziava sopra il corpo del suo bambino. Ho provato un sentimento di sgomento, che poi ho capito era paura. Mi è venuta in mente Maria, distrutta dal dolore, che tuttavia, nella scultura di Michelangelo, mantiene la grazia di cui parla la preghiera. È una immagine che mi è rimasta dentro, ma ci ho messo più di venti anni prima che riuscissi a scrivere il libro. 

Lei ha deciso di raccontare un grandissimo statista come Lincoln: esistono tuttavia presidenti letterariamente più interessanti?

I più interessanti sono quelli in cui la grandezza si è mescolata alla tragedia. In questo Lincoln, che dimentichiamo troppo spesso che era un repubblicano, ha avuto entrambe le caratteristiche: quella che gli americani chiamano la “vision”, grazie alla quale ha cambiato il suo paese e il mondo intero. I metodi, a volte discutibili, messi in atto per ottenere un risultato. I massacri che hanno portato alla vittoria sul Sud schiavista. E poi, oltre alla morte del figlio, anche l’attentato subito in teatro, l’agonia e la morte. È certamente affascinante un altro grande presidente repubblicano, Theodore Roosevelt: è con lui che l’America diviene grande e anche la sua vita è stata segnata dalla tragedia. Mi viene poi in mente il democratico del Sud Lyndon Johnson, tra i più odiati di sempre, eppure responsabile di riforme fondamentali. Ha sulle sue spalle, insieme a Kennedy, la guerra del Viet-Nam, e non dimentico i cortei che urlavano “LBJ, how many kids you killed today? (Johnson, quanti bambini hai ucciso oggi?). Tuttavia, dobbiamo moltissimo a lui e al suo coraggio: se Kennedy ha parlato del sogno americano, rendendolo seducente per il mondo, Johnson lo ha interpretato in prima persona e nei suoi atti. E per quanto riguarda la “vision” ne aveva molta anche il repubblicano Nixon, un personaggio tragico sul quale riflettere senza facili scorciatoie. Ha commesso certamente grandi errori, ma c’era grandezza nel suo operato, pensa al dialogo con la Russia e la Cina. La sua fine ha qualcosa di shakespeariano. 

Un romanzo con protagonista un presidente degli Stati Uniti rende inevitabile parlare di quanto sta accadendo oggi…

Ogni giorno sembra peggio e spesso penso che se non fossero eventi tragici, quelli che viviamo sarebbero comici. Tuttavia ritengo che anche in questo periodo assurdo e drammatico vedo qualcosa di buono: siamo tutti costretti a interrogarci sull’idea di democrazia. E a resistere tenendo gli occhi aperti.

Una volta mi ha raccontato che Trump rappresenta un tradimento di cosa rappresenta l’America. 

Lo è: questa amministrazione fa scelte basate sulla non accoglienza e sulla paura degli altri. Trump ci costringe a vivere nella caricatura di quello che l’America rappresenta per chi l’ha sempre odiata. Non mi sfugge che il mio paese è pieno di incredibili contraddizioni che sono l’altra faccia della sua energia e potenza. E non mi sfugge neanche che l’America spesso non riesce a mantenere le promesse dei suoi ideali. Ma quanto sta succedendo è l’opposto della promessa americana.

Lei si è distinto per l’uso di una satira a volte spietata, tuttavia, almeno finora, non l’ha usata contro un presidente come Trump.

Temo purtroppo che la satira con Trump sia completamente inefficace, e in questo periodo ne ho visto di intelligenti e spietate, come nel caso di Stephen Colbert e Seth Meyers: questo tipo di ironia parla unicamente a chi disprezza l’attuale presidente. L’elettore di Trump annusa subito l’elemento liberal e lo ignora: anzi si rafforza nelle sue convinzioni. Ovviamente la satira è uno dei primi sintomi della di libertà, ma credo che questo sia il periodo in cui si deve rispondere con la serietà, evitando però la seriosità e la supponenza.

Sono due caratteristiche delle quali si accusa il mondo liberal: perché a suo avviso quel mondo suscita oggi così tanto disprezzo?

I motivi sono tanti, ma il primo l’elitismo snob dei liberal: l’arroganza, il sentirsi migliori e possedere la verità. Poi la mancanza di lucidità nel comprendere un mondo diverso dal loro, limitandosi a disprezzarlo o demonizzarlo. Ancora oggi vedo che questo universo –del quale, devo ricordare, faccio parte anche io- non ha compreso cosa è successo, e si rifugia in uno sterile e tranquillizzante disprezzo intellettuale. Così si perderà di nuovo.

Qual è l’insegnamento maggiore che può dare oggi un presidente come Lincoln?

La sua apertura, e la sua capacità di adattamento: ha cambiato idee e strategie molte volte. All’inizio della sua carriera poteva apparire, e forse era, un uomo provinciale con un lavoro più grande di lui. Ma ha imparato presto dai propri errori e ha compreso come nessuno l’idea di libertà. Inoltre ha saputo ascoltare gli avversari. Ecco, lui non pensava che l’inferno sono gli altri, ma ha avuto la forza e il coraggio di opporsi con forza alle loro idee.

In uno dei passaggi più commoventi lei cita un libro di un autore chiamato Maxwell Flagg: “E così il Presidente lasciò il suo bambino in una tomba presa in prestito e tornò a lavorare per il paese.”

Devo dirle che ho inventato quella citazione, e che Flagg non esiste, ma quella frase rappresenta quello che penso e amo di Lincoln. Perché racconta comunque una verità: il giorno dopo il funerale prese cinque decisioni importantissime. Il suo era l’eroismo sobrio della normalità.

Si può inventare, o addirittura mentire, per raggiungere una verità artistica?

È un discorso pericoloso nel periodo di Trump e delle sciagurate fake news. Ma esistono grandissimi romanzieri, come ad esempio Tolstoj, che hanno inventato con grande successo, interpretando la psicologia di personaggi storici. Si può dire lo stesso di molti artisti, che si sono espressi con altri linguaggi. Non dimentichiamo che l’idea stessa di fiction porta con sé la caratteristica fondante di invenzione. E il realismo fine a se stesso è una illusione.

ANTONIO MONDA/Repubblica delle Donne, 26 agosto 2017