Sono passati cinquant’anni dalla guerra-lampo che cambiò la storia di Israele e del Medio Oriente. Il racconto di quei giorni nell’articolo di Lea Luzzati per La Stampa.

Tutto cominciò la mattina del 5 giugno 1967 alle 7,45. «Volavamo bassi e veloci su un deserto azzurro su nessun riferimento su cui basarci per l’orientamento. Ero molto teso e attendevo il momento nel quale avremmo svoltato verso Sud. Lo facemmo prendendo una rotta che ci avrebbe portato in direzione del delta del Nilo. Sorvolammo alcuni pescherecci ma i pescatori nemmeno alzarono la testa. Poi davanti a noi scorsi la striscia dorata di sabbia davanti al lago Bardawill nel Sinai… Pochi secondi dopo ci apparve il Canale di Suez. Il panorama sotto di noi cambiò. Ora era verde e coltivato mentre ci avvicinavamo al delta del Nilo e alla base aerea di Cairo West». La colonna portante dell’Israel Air Force era costituita da diversi tipi di aerei di progettazione francese, tra i quali non pochi Mirage IIICJ, dove l’ultima lettera della sigla stava per ju4′. Gli aerei volavano fuori della portata dei radar, talmente bassi sul mare da lasciare scie bianche sulla superficie. Poi si levarono, e neanche due ore dopo al capo di stato maggiore dell’esercito d’Israele, il maggior generale Itzhak Rabin, giunse la comunicazione: «L’aviazione egiziana ha cessato di esistere». Dei 420 aerei da combattimento dell’arsenale di Nasser restava poco o niente. Vittoria schiacciante.

L’operazione Moked («Focus») segna l’inizio della Guerra dei Sei Giorni, cinquant’anni fa: forse il più spettacolare Blitzkrieg della storia, nel corso del quale un Paese minacciato d’estinzione da un fronte più o meno compatto composto da Egitto, Giordania, Siria e Iraq si ritrova per le mani una vittoria schiacciante e un territorio quattro volte più grande – benché fatto in larga maggioranza di sabbia e sassi del deserto del Sinai. Tanto rapida e sorprendente ai limiti dell’incredibile fu la guerra e furono soprattutto i trionfi che l’esercito israeliano inanellò in vertiginosa sequenza su tutti i fronti – dal Sinai al Golan alla Cisgiordania – quanto estenuanti e drammatici i prodromi del conflitto, pesanti e imprevedibili quelle conseguenze che ancora oggi sono pane quotidiano dei tavoli politici, dei mezzi di comunicazione. Nel 1963 la dichiarazione del presidente iracheno Abdul Salam Ariq, «lo scopo degli Arabi è la distruzione di Israele», fu sottoscritta dal presidente egiziano Nasser. Due anni dopo – e non all’indomani della guerra dei Sei Giorni, per rivendicare i Territori Occupati – nasce l’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Contemporaneamente proseguono le operazioni siriane per deviare il Giordano e negare a Israele buona parte della sua acqua potabile. Del resto, come rileva puntualmente Simon Dunstan nel suo La Guerra dei Sei Giorni. 1967: Sinai, Giordania e Siria (in uscita per Leg edizioni nella traduzione di Vincenzo Valentini, pp. 305, 24), l’acqua fu cruciale anche per gli esiti della guerra. Per le campagne di terra, infatti, gli israeliani avevano valutato che nel deserto i soldati avevano bisogno di mezzo litro di acqua all’ora per essere operativi al massimo, e tanta era stata fornita. L’esercito egiziano, per contro, subì una terribile ritirata che costò la vita a migliaia di soldati, morti in larga maggioranza di sete e stenti.

Nel maggio del 1967 Nasser aveva ricevuto falsi rapporti dall’Unione Sovietica secondo cui Israele-che aveva negli ultimi mesi subito non pochi attacchi a civili sui confini con l’Egitto e la Siria – stava ammassando truppe al confine settentrionale; il presidente egiziano, anima del panarabismo, espulse le forze di interposizione internazionali da Gaza, dal Sinai e da Sharm el-Sheikh. Il 22 maggio chiuse alle navi israeliani lo stretto di Tira, che sin dal 1957 Israele aveva dichiarato che sarebbe stato considerato alla stregua di un atto di guerra. Se per l’attacco aereo l’aviazione israeliana si stava preparando da mesi – sulla base delle informazioni ricevute dai servizi segreti si erano costruite nel Neghev delle simulazioni «geografiche» sulle quali i piloti si erano esercitati – il resto della guerra, come ben racconta Simon Dunstan, era assolutamente imprevedibile. Più che mai lo fu la conquista di Gerusalemme Est e della sua Città Vecchia. II 5 giugno alle 10 del mattino i cannoni giordani cominciarono a bombardare Gerusalemme Ovest e Tel Aviv; l’indomani Gerusalemme era accerchiata dagli israeliani; il 7 giugno, dopo molte esitazioni da parte del generale Dayan, appena nominato ministro della Difesa, i soldati ebbero il via libera per entrare nella Città Vecchia e il momento in cui giunsero al Muro Occidentale (cioè il Muro del Pianto) fu indubbiamente il più intenso di tutto il conflitto. Dopo 1900 anni il popolo ebraico tornava sovrano sui propri luoghi santi. Conflitto infinito Dayan peraltro proibì ai suoi soldati di issare la bandiera d’Israele sul Monte del Tempio, cioè la Spianata delle Moschee. II mitico generale con la benda sull’occhio sapeva bene che la schiacciante vittoria del suo Paese siglata il 10 giugno con un «cessate il fuoco» disastroso per quegli eserciti arabi e il loro refrain «Non entreremo in Palestina calpestando la sabbia, entreremo calpestando il suo suolo imbevuto di sangue» significava anche una situazione terribilmente complessa.

Con la guerra dei Sei Giorni Israele divenne qualcosa di diverso da ciò che era prima. Era un Paese minuscolo con un’esistenza continuamente minacciata dietro quei muri di odio che erano i confini con tutti i Paesi arabi circostanti. Divenne un Paese molto più grande e forte ma non più sicuro, dentro e fuori da quei confini, come racconta Ahron Bregman al festival «èStoria» di Gorizia, Simon Dunstan e Ahron Bregman, gli autori rispettivamente di La Guerra dei Sei Giorni. 1967: Sinai, Giordania e Siria (Leg) e La vittoria maledetta. Storia d’Israele e dei Territori occupati (Einaudi), saranno a confronto domenica 28 maggio a Gorizia  nell’ambito della 13 edizione di «èStoria», in programma dal 25 al 28 maggio. Da allora ha restituito la gran maggioranza dello spazio occupato in quei sei fatidici giorni – il Sinai e la Striscia di Gaza – ma il nodo dei Territori Occupati e lo status di Gerusalemme sono all’ordine del giorno in un conflitto che è ancora al tempo presente benché la maggioranza dei due giovani popoli, israeliani e palestinesi, non fosse ancora nata, in quei giorni di cinquant’anni fa.

(Lea Luzzati, La Stampa 15 maggio 2017)