La scrittrice somala naturalizzata americana Ayaan Hirsi Ali, 46 anni, vive da anni sotto scorta 24 ore al giorno per le minacce di morte ricevute dai fondamentalisti islamici dopo aver collaborato in Olanda alla produzione al documentario “Submission” del regista e suo amico Theo Van Gogh, poi assassinato un anno dopo. Oggi risiede negli Stati Uniti, dove le minacce jihadiste non l’hanno certo fatta desistere dalla sua battaglia ideale contro l’estremismo islamico. Tre mesi fa ha pubblicato un saggio (Eretica, uscito in Italia per Rizzoli) in cui sostiene la necessità di una profonda riforma dell’Islam. Un libro che ha suscitato un grande dibattito sulla stampa internazionale e in quella americana in particolare.

eretica

Pochi giorni fa la Ali è intervenuta nuovamente sui temi affrontati in quel saggio con un lungo articolo pubblicato sulla rivista culturale “New Yorker” (ripreso anche da Repubblica domenica scorsa) in cui ha voluto sottolineare come l’Occidente non sia stato capace finora di dare una risposta convincente sul piano delle idee alla minaccia rappresentata dall’Islam militante. Per spiegare meglio il concetto la scrittrice di origine somala si richiama all’intervento pronunciato dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama nel settembre dello scorso anno all’Assemblea delle Nazioni Unite, quando ha dichiarato solennemente che “l’Islam insegna la pace”. Poi a novembre, scrive Ali, “Obama ha condannato la decapitazione dell’americano Peter Kassig parlando semplicemente di «malvagità», rifiutando l’uso del termine «Islam radicale» per definire l’ideologia degli assassini. Alla Casa Bianca quell’espressione ormai non si sente più. Il termine approvato è «estremismo violento».” La scelta di non chiamare la violenza nel nome dell’Islam è una strana decisione, “un po’ come se ai tempi della guerra fredda i leader occidentali – leggiamo nel suo saggio – avessero definito il comunismo un’ideologia pacifica. È ora di lasciar perdere gli eufemismi e i giri di parole. Il concetto stesso di “estremismo violento” implica che gli Usa non hanno nulla contro gli estremisti, purché non ricorrano alla violenza. Ma questo ragionamento non coglie il rapporto tra chi predica la jihad e chi poi la realizza”.

Occorre invece un deciso cambio di rotta e dire le cose come stanno: è la premessa necessaria per chiedere di appoggiare la riforma religiosa islamica e di inserire la questione dei musulmani dissidenti e riformisti nei negoziati con alleati e nemici. Al contempo l’amministrazione Usa deve smettere di coprire in pubblico le pecche dell’Islam non riformato.

La proposta della Ali ha un precedente importante: “Ai tempi della guerra fredda – scrive – gli Usa incoraggiarono e finanziarono gli intellettuali anticomunisti, per contrastare l’influenza dei marxisti e della sinistra attraverso la denuncia dei mali del sistema sovietico. Oggi si dice che la guerra fredda è stata vinta con mezzi economici, ma è sbagliato. Chi viveva oltre la Cortina di ferro subiva il fascino degli Usa non tanto grazie al livello di vita superiore in America, ma anche alla libertà individuale e allo stato di diritto di cui gli Usa si facevano paladini. Oggi molti dissidenti sfidano l’Islam non riformato con altrettanto coraggio. Sfidano un’ortodossia che contiene i semi di un’escalation della jihad, ma l’Occidente ignora i riformisti o li snobba”.

Tutto questo non significa certo dichiarare una guerra santa ma si tratta di incoraggiare con mezzi pacifici quei dissidenti che si battono per una riforma dell’Islam, significa in altri termini sostenere che nel ventunesimo secolo non c’è spazio per gli appelli alla guerra santa.

“Immaginate una piattaforma riservata ai musulmani dissidenti che ne diffonde il messaggio attraverso You-Tube, Twitter, Facebook, e Instagram” – conclude la scrittrice. “Immaginate che della riforma si parli alla radio e alla televisione in lingua araba, dari, farsi, pashtu, urdu. Immaginate borse e premi per i riformisti più attivi, e finanziamenti per scuole che offrano un’alternativa alle madrasse. Questa strategia permetterebbe inoltre agli Stati Uniti di spostare le proprie alleanze verso i musulmani, individui e gruppi, che realmente condividono i valori americani: quelli che lottano per una vera riforma musulmana e che attualmente sono vittime di diffamazione, se non di persecuzione, proprio da parte dei governi sostenuti da Washington”.

(com.unica/22 luglio 2015)

* fonti The New Yorker e Repubblica