Cosa abbiamo imparato a 30 anni dal genocidio di Srebrenica?

“Mai più” è una promessa che si ripete dopo ogni orrore. Ma a Srebrenica, quella promessa è stata tradita prima ancora di essere mantenuta. Trent’anni la domanda resta sospesa come un atto d’accusa
Srebrenica, luglio 1995. Una cittadina incastonata tra le colline della Bosnia orientale, un’enclave abitata da migliaia di bosniaci musulmani, divenuta “zona protetta” delle Nazioni Unite nel 1993. Un rifugio fragile, circondato dall’esercito serbo-bosniaco. Quando le truppe del generale Ratko Mladić fanno il loro ingresso, la protezione internazionale si sgretola nel silenzio. In pochi giorni vengono separati uomini e ragazzi dai 12 ai 77 anni, fucilati sistematicamente e gettati in fosse comuni. Sette-ottomila vite cancellate, mentre donne, bambini e anziani vengono deportati.
L’enclave di Srebrenica fu attaccata il 6 luglio del 1995, ma il genocidio vero e proprio si compì dall’11 al 22 luglio, come ricorda Maria Stefania Cataleta, docente di Tutela internazionale dei diritti umani e avvocato accreditato alla Corte penale internazionale. La missione ONU UNPROFOR non poté opporre resistenza e i caschi blu olandesi furono costretti ad arrendersi e a consegnare le armi ai serbi, tra cui le famigerate “Tigri di Arkan”. 500 carri armati entrarono in città mentre i fuggiaschi terrorizzati si erano raccolti attorno alle postazioni dei caschi blu.
Gli occhi del mondo erano puntati altrove. Il massacro fu rapido, chirurgico, e segnò l’epilogo brutale di una guerra che aveva già divorato la Jugoslavia. Trent’anni dopo, a Srebrenica si continua a scavare, si continua a piangere.
Giustizia a rilento
Il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, istituito nel 1993, ha riconosciuto Srebrenica come genocidio. Le condanne sono arrivate, ma a fatica. Radislav Krstić fu il primo ad essere riconosciuto colpevole nel 2001. Più tardi è toccato a Radovan Karadžić e, infine, nel 2017 a Ratko Mladić, condannato all’ergastolo. Altri responsabili, come Zdravko Tolimir, Jovica Stanišić e Franko Simatović, hanno atteso anni prima di finire sotto processo. Tempi lunghi, giustizia ritardata. Ma la vera giustizia, oggi, ha a che fare con la memoria. E con la capacità – o l’incapacità – dell’Europa di leggere in quegli eventi il riflesso delle sue fragilità.
Il peso della memoria
“Il genocidio di Srebrenica non è solo una tragedia bosniaca, ma un affare europeo”, ha affermato Benjamin Abtan, presidente dell’EGAM (Movimento Antirazzista Europeo), in un intervento di qualche anno fa ma ancora oggi attuale. “Srebrenica ci ricorda che il razzismo istituzionalizzato, la costruzione dell’odio etnico, la disumanizzazione dell’altro non sono fenomeni esotici o lontani. Sono elementi che possono crescere anche nel cuore dell’Europa, se si abbassano le difese della democrazia.”
Le parole di Abtan vanno dritte al punto: il genocidio non è cominciato con i fucili, ma con le parole. Con la propaganda, con la costruzione dell’identità etnica come frontiera invalicabile. E con l’indifferenza delle democrazie europee che hanno tardato, esitato, guardato altrove.
Tre decenni e cinque lezioni
In trent’anni, molte sono le riflessioni, poche le vere trasformazioni.
Zone protette senza protezione. La storia di Srebrenica mostra come le zone umanitarie, se non presidiate da una volontà politica forte, rischiano di diventare trappole mortali. È una lezione che ancora oggi interroga le missioni internazionali.
La giustizia è possibile, ma non basta. Il lavoro del Tribunale Penale Internazionale dell’Aia ha avuto un’importanza storica: ha stabilito un precedente. Ma la lentezza e la frammentazione dei processi hanno ridotto la portata simbolica delle condanne. La giustizia, per essere completa, deve essere accompagnata dalla verità e dalla responsabilità collettiva.
Il negazionismo avanza. Negli ultimi anni, è cresciuto il numero di leader politici e opinionisti che minimizzano o negano apertamente il genocidio. I memoriali vengono vandalizzati, le vittime insultate. In Bosnia, e non solo. “Il negazionismo è un crimine continuo”, denuncia Abtan, “perché uccide due volte: prima le persone, poi la loro storia.”
La memoria non si insegna da sola. La trasmissione della memoria richiede strumenti, volontà politica e risorse. E serve iniziare dalle scuole. L’Europa non ha ancora inserito con decisione Srebrenica nei programmi scolastici. Senza educazione, la memoria si fa labile. E la storia rischia di ripetersi.
Le vittime sopravvissute sono il volto della verità. Ogni anno, Marš Mira, la Marcia della Pace, ripercorre i 100 chilometri che separano Nezuk da Srebrenica, lo stesso tragitto tentato invano da migliaia di fuggitivi nel ’95. È una testimonianza viva che non si può archiviare. Una memoria che cammina.
L’Europa davanti allo specchio
A trent’anni da Srebrenica, l’Europa si guarda allo specchio e scopre che le promesse del “mai più” si sono incrinate. I discorsi di odio risuonano ancora nei parlamenti, nelle piazze, nelle reti sociali. Il fantasma dell’identità etnica come destino ineluttabile non è stato sconfitto. “Ricordare Srebrenica”, conclude Abtan, “non significa solo onorare le vittime. Significa assumersi la responsabilità politica di ciò che non abbiamo impedito. E lavorare perché non accada mai più, davvero.”
La memoria è una scelta
A Srebrenica oggi ci sono lapidi, nomi incisi su pietra, ossa che emergono ancora dal suolo. Ma c’è anche una comunità che resiste, una verità che chiede voce, una domanda che non può essere elusa: cosa abbiamo imparato? Se la risposta è solo commemorativa, sarà troppo poco. Se è un impegno quotidiano – nella giustizia, nella scuola, nella politica – allora forse, davvero, non sarà stato tutto invano.
Sebastiano Catte, com.unica 10 luglio 2025