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Roberto Jorge Canessa Urta uruguayano di Montevideo oggi ha 62 anni ed è uno dei sedici sopravvissuti al disastro aereo delle Ande dove il 13 ottobre 1972 un Fokker F27 della compagnia aerea uruguayana si schiantò contro la montagna.  A bordo 40 passeggeri, compresa l’intera squadra di rugby «Los viejos cristianos» di cui faceva parte Roberto Canessa, allora giovanissimo come i suoi compagni, più i 5 membri dell’equipaggio. Dodici di quei ragazzi morirono nell’impatto, altri cinque nella notte, otto qualche giorno dopo quando una valanga travolse la fusoliera nella quale dormivano. Altri quattro morirono a causa delle ferite riportate e per assideramento nei giorni successivi.

Il 21 ottobre, otto giorni dopo la scomparsa dell’aereo, convinti che nessun sopravvissuto poteva esserci tra quelle montagne a quasi 4000 metri di altitudine, le autorità interruppero le ricerche del velivolo. Cominciarono per i sopravvissuti giorni tremendi nella consapevolezza delle enormi difficoltà da affrontare per il freddo polare e per la mancanza di cibo e di acqua. Si adattarono alla meglio e furono bravissimi nel darsi un ordine per le attività da svolgere che principalmente consistevano nella distribuzione di quel pochissimo cibo rimasto a bordo dell’aereo, nella raccolta di acqua, che ottenevano attraverso lo scioglimento di blocchi di neve su cui facevano riflettere i raggi del sole utilizzando dei rottami di lamiera, e nell’assistenza ai feriti. Ma intanto i giorni passavano e le pochissime scorte di viveri si esaurirono. Votati a morte certa incominciarono a riflettere sul che fare. Furono ore ed ore di silenzio dove lo sguardo, dapprima solo di qualcuno, poi di altri si indirizzava con terrore verso i corpi congelati di quelli che avevano perso la vita.  Roberto Canessa che era studente di medicina fu il più risoluto nel dire che non c’era alternativa: per sopravvivere dovevano mangiare le carni dei loro compagni morti. Alla fine anche quelli più contrari a tale pratica si adeguarono. Passarono 71 giorni e solo all’antivigilia di Natale di quel 1972, grazie alla decisione di organizzare una spedizione, Fernando Parrado e Roberto Canessa, camminando stremati per dieci interminabili giorni, raggiunsero un posto abitato in Cile, il paese di Puente Negro. Fu, finalmente possibile portare in salvo i 16 superstiti di quel disastro. 16 uomini ridotti allo stremo delle forze, qualcuno era dimagrito di 40 chili. 16 cannibali a cui i soccorritori non volevano credere quando risposero alla domanda sul come avevano fatto per sopravvivere.

Nel 1994 uno scalatore americano che guidava una spedizione di turisti sui luoghi del disastro, dove l’anno precedente fu girato il film “Alive” ispirato alla tragedia del 1972, trovò sacco azzurro contenente un maglione, alcuni rullini fotografici, un portafoglio con 13 dollari e mille pesos uruguayani, un passaporto, una patente, un libretto sanitario e un voucher «per ritirare il bagaglio a destinazione». Il nome sui documenti è quello di Eduardo José Strauch Uriaste, uno dei sopravvissuti che insieme agli atri 15 superstiti si cibò del corpo dei propri compagni per non morire.

Roberto Canessa il 15 ottobre del 2012 a sessant’anni, insieme ad altri undici compagni coetanei sfuggiti al disastro, ha indossato la maglia della squadra di rugby «Los viejos cristianos» per giocare la partita interrotta 40 anni prima. Alla stampa dichiarò: “Penso che avere mangiato carne umana sia la più grande tristezza della mia vita ma salvare una vita lo giustifica e mi piace pensare che se a morire fossi stato io, i miei compagni avrebbero fatto lo stesso”.

(Franco Seccia/com.unica 13 ottobre 2018)