Viktoriia Roshchyna, la detenzione, le torture e la morte in un carcere russo

Gli ultimi mesi della giornalista ucraina che indagava sugli arresti e le torture sistematiche dei civili. Il reportage del Guardian, in collaborazione con altri media partner
Non era una soldatessa. Non portava armi. Aveva solo un taccuino, dei file che si autodistruggevano e la testardaggine di chi, a ventisette anni, crede ancora che dire la verità sia un dovere, non una condanna. Viktoriia Roshchyna è morta da sola in una prigione russa dopo un anno di detenzione senza accuse, senza avvocato, senza giustizia. Il suo corpo è tornato a casa in Ucraina liscio come la pietra. I capelli, che portava lunghi con le punte bionde, rasati. Il corpo segnato. Piedi bruciati da scariche elettriche, costole fratturate, ematomi su fianchi e testa. Mancavano il cervello, gli occhi, la laringe. L’autopsia ha parlato di “numerosi segni di tortura”.
“Ci è voluto tempo per identificarla,” scrive The Guardian. “All’inizio era solo una sigla: NM SPAS 757. Un corpo senza nome, con arterie coronarie danneggiate. Era una donna. Non un soldato. Una giornalista.”
Viktoriia Roshchyna è stata arrestata nell’estate del 2023 vicino alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, durante il suo quarto viaggio oltre la linea del fronte. Era l’unica cronista ucraina che ancora osava entrare nelle zone occupate dai russi. Indagava su un argomento che pochi osavano toccare: la detenzione e tortura sistematica di civili ucraini.
Aveva cominciato da sola a raccogliere nomi, testimonianze, localizzazioni di luoghi di detenzione illegali, i cosiddetti “black sites”. Sapeva di essere sorvegliata. “Usava telefoni multipli, file che si cancellavano da soli. Spariva per settimane, poi ricompariva con un pezzo,” ha raccontato Sevhil Musaieva, direttrice di Ukrainska Pravda. “Non aveva vita sociale. Solo lavoro. Ma un lavoro straordinario.”
La sua ultima missione la porta, con un giro lungo, attraverso la Polonia, la Lituania e la Lettonia, fino in Russia. Lì attraversa il confine dal posto di Ludonka, diretta a Melitopol. È il 25 luglio. Il 3 agosto scompare. Suo padre, Volodymyr, lancia l’allarme. Viktoriia aveva preso in affitto un appartamento a Enerhodar. Lasciato lo zaino, è uscita per indagare. Ha detto alla compagna di cella che un drone l’aveva avvistata. Poi l’arresto. Prima fermata alla stazione di polizia — un palazzo blu, finestre sbarrate. Poi trasferita a Melitopol, città oggi sinonimo di detenzione clandestina. “Lì l’FSB ha centri temporanei di detenzione. Triagiano i prigionieri come in un ospedale da campo,” ha dichiarato un funzionario europeo. Viktoriia era una “speciale”.
La cella era un garage. Le torture, sistematiche. “Scosse elettriche durante gli interrogatori,” racconta la testimone. “Aveva ferite da coltello sul braccio e sulla gamba. Una profonda, tre centimetri, fra polso e gomito. Sopra il tallone, una ferita di cinque centimetri. ‘Vi prego, non toccatemi la gamba,’ diceva.”
Poi il trasferimento a Taganrog, prigione Sizo 2. Un buco nero. Lì Viktoriia smette di mangiare. “Era confusa, gli occhi terrorizzati,” ha detto la compagna di cella. “Stava rannicchiata dietro la tenda del gabinetto.” Pesava 30 chili. “Dovevo sorreggerla per farla alzare.”
“Non era uno sciopero della fame dichiarato,” racconta Yevgeny Markevich, ex prigioniero. “Diceva che era per motivi religiosi. Poi diceva che non ci riusciva, per salute.”
A giugno, Viktoriia viene portata via in barella. Ricoverata in ospedale, sorvegliata da sei guardie armate. Mosca sperava di usarla come merce di scambio. Rientra in prigione a luglio, con una flebo attaccata. Rifiuta anche le banane. Ma un segnale di speranza arriva in agosto: una telefonata. “Mi hanno promesso che a settembre sarò a casa,” dice ai genitori. Poi la chiusura: “Ecco, è tutto. Ciao. Mamma, papà, vi amo.”
L’8 settembre, viene preparata per il rimpatrio. Ma non arriva mai al punto di scambio. “Un agente ci ha detto: ‘Non è colpa nostra. È colpa sua,’” ha testimoniato un ex prigioniero. Il 19 settembre, secondo i russi, muore. Nessuno ha detto come.
Il padre riceve solo silenzi. Una lettera dalla Russia: “Non risulta nei database.” Ma una targhetta legata al corpo diceva “V.V. Roshchyna”. Il DNA ha confermato. Era lei.
Nel 2022, Viktoriia aveva rifiutato di volare a Los Angeles per ricevere un premio al coraggio dalla International Women’s Media Foundation. Mandò un messaggio: “Rimaniamo fedeli alla nostra missione. Contro la propaganda, per la verità. Dedico questo premio ai colleghi caduti, che sono morti per raccontare i crimini russi.”
Era nata a Kryvyi Rih, come Zelenskyj. Suo padre, reduce dell’Afghanistan, la vedeva come una combattente. Forse l’unica con armi spuntate: parole, domande, una voce ferma. “Era la più coraggiosa che abbia mai conosciuto,” ha detto Musaieva. “E non ha fatto altro che ciò che amava.”
La verità, in guerra, è spesso la prima vittima. Ma chi la cerca, come Viktoriia, la tiene in vita più a lungo. Per questo, forse, hanno avuto tanta paura di lei.
A cura di Sebastiano Catte, com.unica 30 aprile 2025
Fonte “The Guardian“
*Nella foto Viktoriia Roshchyna al lavoro. Fonte: hromadske