L’analisi dello storico Timothy Garton Ash in occasione dell’anniversario della riunificazione tedesca (da Repubblica/Guardian)

Buon compleanno alla Germania, che sabato 3 ottobre 2020, anniversario della riunificazione del 1990, ha compiuto trent’anni. Però, un momento, in realtà non ne ha 71? Se si contano a partire dall’istituzione della Repubblica federale, nel 1949. Oppure 149, risalendo alla prima unificazione tedesca del 1871? O 1220, considerando l’incoronazione di Carlo Magno nell’anno 800 la data di nascita di quello che i tedeschi chiamano Reich, più universalmente noto con il nome di Sacro Romano Impero. Oppure 2000, se vediamo Bastian Schweinsteiger, lo straordinario centrocampista del Bayern Monaco, un lontano discendente di quelle tribù guerriere, ma anche proto democratiche, descritte nella Germania di Tacito.

Rispondere alla domanda all’apparenza semplicissima “Quanti anni ha la Germania?” è tutt’altro che semplice. Ma concedetemi un azzardo: le ultime tre decadi della sua lunga e complessa storia sono state le migliori. Se trovate un periodo più felice per la maggioranza dei tedeschi e i loro rapporti con i Paesi confinanti, dite pure. Questa è la migliore Germania mai vista. Nel mondo di oggi, turbato da populismo, fanatismo e autoritarismo, la Repubblica federale è un faro di stabilità, civiltà e moderazione – qualità incarnate dalla cancelliera Angela Merkel.

Ma le sfide affrontate dalla Germania a livello nazionale e regionale negli ultimi trent’anni impallidiscono al confronto di quelle globali che ci aspettano nei prossimi trenta. A differenza di altre democrazie, tra cui Paesi europei del Sud membri dell’Eurozona come Grecia e Spagna, la democrazia tedesca non ha ancora affrontato la prova di una grande crisi economica. Lo si deve alla grande forza economica della Germania, ma anche alla crescita di mercati di esportazione come la Cina aperti dalla globalizzazione, al vantaggio di avere l’euro (invece di un marco tedesco meno competitivo) e una riserva di forza lavoro specializzata a basso costo in Europa centrale orientale. Negli anni a venire non esiste garanzia di condizioni geoeconomiche altrettanto vantaggiose, né di un ambiente geopolitico favorevole.

Timothy Garton Ash

In occasione della recente presentazione online del suo eccellente Why the Germans Do It Better, al giornalista britannico John Kampfner è stato chiesto cosa pensano i tedeschi della Brexit. Dopo aver osservato giustamente che all’inizio sono rimasti sorpresi, poi scioccati, quindi sdegnati dal pasticcio che la Gran Bretagna sta combinando, ha aggiunto che se i tedeschi avessero deciso un analogo della Brexit avrebbero immediatamente istituito una commissione composta da tutti i gruppi del Parlamento federale per elaborare un piano di attuazione serio e razionale.

È un esperimento mentale interessante, ma dobbiamo evitare l’errore di generalizzare. Un voto tedesco a favore dell’uscita dall’Ue presupporrebbe il trionfo di un movimento nazionalista al cui confronto l’AfD sembrerebbe una Ong vegetariana. Un movimento simile non rispetterebbe i criteri attuali della politica tedesca, equilibrata e mirata a creare consenso. Inoltre far parte integrante dell’Unione europea ha per la Germania importanza vitale, cosa che non è per la Gran Bretagna, e per l’Ue la Germania conta di più. È possibile immaginare una Gran Bretagna post-Brexit che in qualche modo se la cava fuori dall’Ue e una Ue senza la Gran Bretagna. Non è possibile invece immaginare una Germania simile alla Repubblica federale di oggi avulsa dal forte contesto europeo – per non parlare di una Ue senza la Germania.

Tutto questo emerge chiaramente da una nuova magnifica breve storia della Germania, intitolata Wie wir wurden, was wir sind (Come siamo diventati quello che siamo) opera di Heinrich August Winkler, uno dei massimi storici tedeschi. Winkler identifica il primo Reich, il Sacro romano impero, come realtà costitutiva fondamentale della storia tedesca, equiparandolo alla “posizione insulare favorevole alla libertà” (parole sue), per la storia inglese. A differenza di quella inglese, la storia medievale e moderna tedesca è stata caratterizzata da vari livelli di legislazione, sovranità e autorità. Winkler, famoso per il suo monumentale saggio intitolato Grande storia della Germania. Un lungo cammino verso Occidente, inizia la sua ultima opera, più snella, citando la ponderata dichiarazione del presidente federale Richard von Weizsäcker del 3 ottobre 1990: “È giunto il giorno in cui, per la prima volta nella storia, la Germania intera ha trovato la sua collocazione permanente nell’ambito delle democrazie occidentali”. Ma di questa opera dello storico ormai ottantunenne (nato a Königsberg, oggi Kaliningrad, nel 1938) a colpirmi è il tono scettico, preoccupato, addirittura allarmato con cui esorta i compatrioti a restare saldamente integrati non solo in Europa ma anche nell’Occidente transatlantico.

Mi sembra un allarme giustificato. L’adesione all’Europa, malgrado l’euroscetticismo xenofobo di AfD, non deve impensierirci più di tanto, perché nei discorsi dei politici tedeschi il termine “Europa” compare con la frequenza dell’Amen in chiesa. I tedeschi in genere comprendono perfettamente che il loro futuro è inseparabile da quello dell’Unione europea. Lo stesso non vale più per l’Occidente che, se menzionato, assume carattere di residuato della Guerra fredda, sorpassato come la telescrivente. Gran parte degli europei è esterrefatta e disgustata da Donald Trump, ma l’atteggiamento tedesco nei confronti degli Stati Uniti in generale è particolarmente duro. I media tedeschi ormai mettono l’America sullo stesso piano della Cina e della Russia.

Il grido di battaglia di Emmanuel Macron “sovranità europea” è stato accolto da vivo entusiasmo. Se “sovranità europea” vuol dire “noi europei dovremmo impegnarci di più per difendere i nostri interessi” è senz’altro giusto. Se però significa “ce la caviamo da soli, Yankee” è pericolosamente sbagliato. Proprio il carattere internazionale delle sfide che affronteremo nei prossimi trent’anni, il riscaldamento globale, l’intelligenza artificiale, le pandemie come il Covid 19, e l’atteggiamento aggressivo della superpotenza cinese leninista-capitalista, richiede un partenariato globale, non solo regionale, delle democrazie.

Secondo una approssimativa analogia storica la Germania post 1990 ha avuto la grande fortuna di far parte di un Sacro romano impero e, a differenza dei Germani descritti da Tacito, anche di un Impero romano. Il Sacro romano impero dell’Ue ha garantito alla Germania la prosperità, incrementando notevolmente le libertà e le opportunità dei suoi cittadini. L’Impero romano dell’alleanza occidentale a guida americana le ha garantito la sicurezza militare, e le ha fornito un contesto più ampio di valori condivisi e un raggio d’azione globale.

La Roma americana non sarà mai più come prima. Se Trump conquista il secondo mandato può succedere di tutto. Il suo ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, sostiene che Trump potrebbe addirittura far uscire gli Stati Uniti dalla Nato. In quel caso l’Europa sarebbe obbligata a tutelare la propria sicurezza, compito per il quale è ancora scarsamente equipaggiata. Ma sotto la presidenza Biden gli Usa possono tornare ad essere l’indispensabile fautore dell’ordine liberale internazionale, da cui la Germania dipende più di ogni altro Paese. In questo senso la data importante per la storia tedesca non è il 3 ottobre, ma il 3 novembre, che vedrà probabilmente l’elezione americana più determinante della storia del moderno Occidente transatlantico.

Timothy Garton Ash, Repubblica 3 ottobre 2020