Riapre il Museo di Libeskind con la mostra su mille anni di antisemitismo, persecuzioni, Shoah ma anche cultura, religione e vita quotidiana.  Un articolo di Tonia Mastrobuoni su “Repubblica”

La zia di Wolfgang Fischer tornò dal campo di concentramento di Theresienstadt e trasformò la sua stella di David in un puntaspilli. «Per tutta la vita ha continuato a uccidere la stella degli ebrei, ma senza esserne consapevole», scrisse il nipote. Il puntaspilli è esposto ora nel Museo ebraico di Berlino (nella foto), il più grande d’Europa, che riapre oggi dopo tre anni di lavori con una mostra permanente rivoluzionata, più attenta agli aspetti culturali dell’ebraismo, all’interazione tra ebrei e cristiani in mille anni di storia tedesca. Come ha scritto giustamente un giornale tedesco, «la nostra storia è la vostra». Ed è sempre ipnotico attraversare i piani nel meraviglioso edificio di Libeskind, affacciato sull’esterno attraverso feritoie che è facile associare alle profonde ferite inflitte dalla Germania agli ebrei.

Inevitabilmente una parte importante dell’esposizione è dedicata alla Shoah. Ed è impressionante passare accanto ai lunghi pannelli bianchi che elencano le leggi antisemite, che in Germania cominciarono nel 1930 con il divieto, in Baviera, della macellazione kosher. Uno stillicidio restituito con efficacia attraverso l’avvicendarsi sempre più fitto dei pannelli. Altrettanto straziante, ascoltare le testimonianze dei sopravvissuti dei campi, raccolte dallo psicologo lettone-americano David Boder immediatamente dopo la guerra. Uno di loro, Juergen Bassfreund, confermò nel 1946 quello che Primo Levi scrisse ne I sommersi e i salvati: «I tedeschi non capiscono».

Quando Bassfreund cercava di raccontare delle marce della morte da Auschwitz a Dachau e della sua devastante esperienza nel campo di sterminio, «i tedeschi mi dicevano: “I miei parenti sono morti sotto le bombe, è uguale”». No, non era uguale, come ci ricorda la dolorosa sezione sul più orrendo dei crimini dell’umanità. Anna Kaletska racconta che quando gli americani arrivarono a Lippstadt «pensavano si trattasse di un manicomio. Alcuni di noi si buttarono a terra a baciare i cingoli dei carrarmati». Come disse Hannah Arendt in un’intervista proiettata in loop nel museo, con la Shoah «è successo qualcosa con cui nessuno riesce a fare i conti ». Il museo dedica anche una parte rilevante al periodo del dopoguerra, alla diaspora e alla fondazione di Israele, alle restituzioni e al grande esodo dall’Urss post 1990. Le sezioni più innovative sono quelle dedicate ai culti e alle relazioni tra cristiani ed ebrei. Proprio perché tutti i tedeschi sanno cos’è la Shoah, ma pochi sanno come si legge la Torah durante le funzioni religiose o cos’è la zedaqa, l’imperativo a donare, o come si rispetta lo shabbat e perché il cibo degli ebrei deve essere kosher, il museo mette insieme pannelli interattivi, video e testimonianze che lo spiegano approfonditamente. La sezione medievale offre spunti importanti, racconta la peste che scatenò una delle peggiori persecuzioni della storia o illustra le discriminazioni quotidiane, ma anche miti e personaggi che ebbero un’enorme influenza storica.

Come il più grande commentatore del Talmud, il Rabbi Rashi, o la tragica vicenda di Dulcea ed Eleazar, fondatori della scuola talmudica di Worms. Intorno alla fine del Quattordicesimo secolo, dopo i massacri della peste, Jakob von Koenigshof scrisse che «se non fossero stati ricchi, se i proprietari terrieri non fossero stati tutti loro debitori, gli ebrei non sarebbero stati bruciati». La mostra invita anche a riflettere sull’odio contro gli ebrei che si annida in alcuni dibattiti ricorrenti. Anzitutto nella questione della famosa lapide della chiesa di Wittenberg delle fiammanti prediche di Martin Lutero — feroce antisemita — che rappresenta la Judensau, la scrofa ebrea. Una delle più violente immagini antisemite che secondo molti storici dovrebbe essere rimossa o ricontestualizzata in un museo. E nei video dell’esposizione si alternano voci a favore o contrarie alla questione che in Germania tiene banco da secoli. Viceversa, nella riflessione sul rapporto degli ebrei con la Germania, c’è un’imperdibile doppia intervista su Richard Wagner a due geni della vita culturale berlinese, Daniel Barenboim e Barrie Kosky, direttore di uno dei più innovativi teatri d’opera al mondo, la Komische Oper. I due furono tra i primi direttori d’orchestra ebrei a mettere in scena Wagner, tra enormi polemiche.

La nuova direttrice, Hetty Berg, è approdata al Juedisches Museum dopo un periodo difficile, in cui il suo predecessore, Peter Schaefer, aveva dovuto lasciare per una controversa mostra su Gerusalemme ma soprattutto per un tweet dell’ufficio stampa a favore della campagna di boicottaggio contro Israele. Berg arriva a Berlino dopo aver diretto il Quartiere ebraico di Amsterdam. E sulla riorganizzazione del museo spiega che «la storia degli ebrei non è cambiata. Ma è cambiata la nostra prospettiva su di essa».

Tonia Mastrobuoni, La Repubblica 23 agosto 2020