Un saggio di Otto Friedrich (Solferino) ricostruisce i crimini compiuti nel più importante campo di sterminio. Il commento di Paolo Mieli sul Corriere

Elie Wiesel aveva quindici anni nel 1944, quando venne deportato ad Auschwitz assieme a suo padre, sua madre e le sorelle Hilda, Bea e Tzipora. Fu l’unico della sua famiglia che riuscì a sopravvivere. Dopo la liberazione, notò vent’anni fa Harald Weinrich in Lete (il Mulino), Wiesel subì la «tentazione dell’oblio». Nei primi tempi in cui fu restituito alla vita, «per circa dieci anni», sottolineò Weinrich, in lui «l’oblio si legò al silenzio, in un’alleanza problematica». Successivamente Wiesel iniziò a parlare e a scrivere per il pubblico, diventando, conformemente alla tradizione chassidica della sua famiglia, un «narratore di storie». E venne, anche per lui, il tempo di parlare di Auschwitz.

Primo Levi iniziò molto prima. Fu liberato da Auschwitz il 27 gennaio del 1945. Aveva ventisei anni. Presto si mise a scrivere e nel 1947 diede alle stampe Se questo è un uomo, per la piccola casa editrice torinese De Silva. Il libro restò praticamente invenduto, la De Silva fallì e, fece notare Weinrich, anche «i ricordi di Levi caddero nell’oblio». O almeno così sembrò. Anche qui per una decina d’anni. Nel 1958 Einaudi ripubblicò quel testo di Primo Levi che, negli anni, divenne un successo mondiale. Per entrambi, forse per tutti, Auschwitz aveva evidentemente bisogno di bagnarsi nelle acque di Lete, il fiume dell’oblio, prima di assumere al cospetto del mondo intero il ruolo che la storia avrebbe assegnato al suo nome, indissolubilmente legato allo sterminio degli ebrei. E non solo degli ebrei.

Il regno di Auschwitz, di cui si occupa lo straordinario libro del giornalista e storico statunitense Otto Friedrich, che esce domani per l’editrice Solferino, sarà il più grande. Il campo di Auschwitz fu creato dal nulla in diverse tappe, l’ultima tra il dicembre del 1941 e la metà dell’anno successivo, nella Polonia occupata, in una località sperduta nelle piane paludose della Vistola. E crebbe fino a diventare un «impero penitenziario di circa centocinquantamila abitanti», una città delle dimensioni di Tangeri o Aberdeen.

Friedrich, per concentrarsi sul Regno di Auschwitz, ha ripreso in mano le carte del processo di Francoforte (dicembre 1963-agosto 1965), dal quale erano emersi particolari agghiaccianti. Particolari che però fuori dalla Germania occidentale non avevano avuto il risalto che avrebbero meritato. Perché? Il processo era stato voluto dal procuratore capo dell’Assia Fritz Bauer, il quale — non fidandosi dei suoi connazionali — aveva precedentemente collaborato con i servizi segreti israeliani per la cattura di Adolf Eichmann. Successivamente Bauer aveva delegato all’indagine su Auschwitz alcuni collaboratori (Joachim Kügler, Georg Friedrich Vogel e Gerhard Wiese) sufficientemente giovani da non essere stati coinvolti nelle vicende che si accingevano ad approfondire. Le indagini durarono quattro anni e furono spesso ostacolate, talvolta sabotate, dalle autorità della Repubblica federale tedesca.

Dalle sue carte Friedrich capì che lo sterminio degli ebrei aveva avuto inizio assai prima che nella conferenza di Wannsee (convocata il 20 gennaio 1942 dall’alter ego di Heinrich Himmler, Reinhard Heydrich) venisse decisa la «soluzione finale», cioè la totale eliminazione degli israeliti. L’idea di costruire Auschwitz era stata di Himmler che aveva affidato l’impresa al maggiore delle SS Rudolf Höss, il quale al processo di Norimberga esagerò, persino, attribuendosi la responsabilità di aver eliminato due milioni e mezzo di individui (il conto lo avrebbe tenuto Adolf Eichmann) più «un altro mezzo milione morti per fame e malattie». In seguito Höss sostenne che tale cifra gli pareva «eccessiva» e la ridusse a 1.135.000. Il 14 giugno 1940 giunsero ad Auschwitz i primi 728 prigionieri politici polacchi che furono destinati alla costruzione del campo. A loro poi se ne aggiunsero altri che furono fatti lavorare come schiavi.

Nel giugno del 1941, quando appresero che Hitler aveva invaso l’Urss, gli internati ritennero che l’allargamento del conflitto avrebbe portato alla loro liberazione. E festeggiarono. Presto però dovettero accorgersi che stava invece per iniziare una stagione ancora più infernale della precedente. Höss riferì (a Norimberga) che con l’arrivo dei prigionieri russi lui stesso aveva assistito a casi di cannibalismo: i nuovi prigionieri, disse, «non erano più esseri umani». Dei dodicimila russi internati nell’autunno del 1941, solo centocinquanta sopravvissero fino all’estate successiva. Höss raccontò di aver deciso — assieme ad Eichmann — l’uso del gas Zyklon B per «sveltire» l’eliminazione dei reclusi già nell’estate del 1941 e che la prima «sperimentazione» fu fatta, in sua assenza, dal vicecomandante Karl Fritzsch il 3 settembre 1941.

Venne poi il turno degli ebrei. Il primo cosiddetto Transport Juden giunse alla stazione di Auschwitz il 26 marzo 1942: portava 999 donne provenienti dalla Slovacchia. La stazione — scrisse il poeta Tadeusz Borowski, sopravvissuto a tre anni di internamento — appariva «piccola e graziosa… una piazzetta di ghiaia chiara incorniciata da alti castagni». Le deportate non fecero però in tempo a compiacersi di questo quadretto idilliaco: «Vennero spogliate», racconta Friedrich, «rapate a zero, tenute in piedi per un appello che durò ore intere, picchiate, spedite a lavorare in gruppi e di nuovo picchiate». Dopodiché i nuovi arrivati furono divisi in due gruppi: i più, a cominciare da vecchi e bambini, venivano mandati direttamente a morte; quelli che apparivano in grado di lavorare venivano invece «salvati» anche se molti di loro sarebbero poi deceduti per stenti e malattie.

Come è possibile allora che quella stazioncina potesse apparire a coloro che arrivavano ad Auschwitz, quasi un miraggio. Wiesel nel libro La notte (Giuntina) ha provato a spiegare perché. La vita nei ghetti autoamministrati della Polonia occupata dai nazisti era parsa in qualche modo accettabile: gli ebrei pensavano perfino di trovarsi «in condizioni migliori che in passato… completamente autonomi, in una piccola repubblica ebraica». Wiesel ricorda che la sera prima della deportazione «le donne continuavano a cucinare uova, arrostire carne, preparare torte; i bambini gironzolavano dappertutto». Il giorno successivo, nei treni, sarebbe invece iniziato l’incubo. I nazisti stipavano gli israeliti in vagoni dove non c’erano né cibo, né acqua, né servizi igienici, né aria. «Chi aveva portato con sé un panino o della frutta si trovava presto a dover lottare per difendere il suo piccolo tesoro e quando queste misere riserve erano finite non rimaneva più nulla». I bambini «piangevano in continuazione, i vecchi deperivano e morivano». I cadaveri «restavano dove erano, tra le sconquassate valigie tenute insieme con lo spago». A volte i treni venivano lasciati fermi su binari morti per giorni e notti intere: nei vagoni sigillati si continuava a piangere, urlare, a morire, a calpestare i morti e alla fine poteva capitare che il numero di cadaveri rimasti su quei convogli superasse quello di chi ne usciva vivo.

Borowski ricevette l’incarico di pulire un vagone che aveva trasportato un centinaio di suoi correligionari: «Negli angoli», raccontò, «in mezzo a escrementi umani e orologi abbandonati giacevano i corpi senza vita di bambini schiacciati e calpestati, piccoli mostri nudi con teste enormi e pance gonfie». Talché per i deportati quando il treno finalmente si fermava in quella piccola cittadina sconosciuta, l’«arrivo» poteva apparire come «una sorta di liberazione». La fine di un incubo, appunto.

E in qualche modo l’inganno poteva continuare. Auschwitz, ricostruisce Friedrich, era «una società di complessità straordinaria». Per questo nel titolo del libro compare la parola «regno». Aveva il proprio stadio di calcio, la propria biblioteca, un laboratorio fotografico, perfino un’orchestra sinfonica. Nascondeva organizzazioni clandestine polacche di ispirazione nazionalista e altre di matrice comunista («i cui membri combattevano e a volte si uccidevano tra loro»). C’erano poi gruppi della Resistenza austriaca, russa, slovacca e francese. Vi si tenevano clandestinamente funzioni religiose di ogni culto: cattolico, protestante, ebraico. Il campo di sterminio ospitava anche un bordello, al quale «potevano accedere coloro che, tra gli internati, godevano di maggiori privilegi», quelli che «ottenevano permessi per buona condotta».

Le ragazze più belle erano invece costrette a diventare amanti di un qualche gerarca nazista. Anche Rudolf Höss ne ebbe una, Eleonora Hodys. A quelle giovani donne era consentito farsi ricrescere i capelli, il che però costituiva un marchio di infamia. Nel libro Cilka’s Journey, la scrittrice australiana Heather Morris ha ricostruito la vicenda di una di queste «fortunate», Cecilia Kovachova che, una volta libera, fu accusata dai russi di aver «collaborato» con il nemico e venne internata in un lager staliniano. La Hodys fu ancora più sfortunata: restò incinta di Höss e quando lui venne a saperlo ordinò che fosse gassata; fu salvata dal comandante del Blocco 11, Maximilian Grabner (anche lui sotto inchiesta per aver avuto una relazione con un’internata ebrea), e mandata — grazie al giudice Konrad Morgen — a Monaco, lontano da Auschwitz. Ma, prima che la guerra finisse, fu uccisa dalle SS.

Sul caso dell’amante di Rudolf Höss indagò anche il Morgen di cui si è testé detto, un magistrato in forza alle SS mandato ad Auschwitz per investigare sui fenomeni di corruzione che infestavano il campo di concentramento. In particolare Morgen fece indagini sul cosiddetto «Canada», un agglomerato di trenta baracche dove finivano le proprietà dei reclusi che avevano un qualche valore. Proprietà che in teoria avrebbero dovuto essere spedite al comando delle SS di Berlino, ma furono invece «immagazzinate» in quello che, scrive Friedrich, presto divenne il «più grande mercato nero d’Europa». Allorché nel gennaio del 1945 il campo fu liberato dai russi, i nazisti provarono a incendiare il «Canada», ma riuscirono a distruggere solo ventiquattro baracche su trenta e i sovietici trovarono una quantità incredibile di oggetti appartenuti agli ebrei: 863.255 abiti da donna, 38.000 scarpe da uomo, persino 13.964 tappeti… Ma Morgen aveva fatto in tempo a far arrestare e condannare Grabner, coinvolto nello scandalo, il quale dopo la guerra sarebbe stato riprocessato e condannato a morte in Polonia.

I tentativi di fuga da Auschwitz furono più di seicento. Quando qualcuno mancava all’appello, suonava una sirena e i prigionieri venivano portati all’aperto, dove dovevano aspettare sull’attenti mentre un plotone di SS con i cani inseguiva i fuggitivi. Due terzi dei quali furono ripresi, torturati per scoprire se qualcuno li aveva aiutati. Poi venivano portati in giro con al collo un cartello in cui era scritto «Evviva! Sono tornato» e infine impiccati.

Che cosa ne fu di quei pochi che riuscirono a darsi alla macchia? Possibile che nessuno abbia fatto giungere fuori dalla Germania notizie di quell’inferno? In realtà già nel novembre del 1940 un ufficiale polacco, Witold Pilecki, si era fatto internare ad Auschwitz per organizzare un movimento di resistenza e raccontare poi delle condizioni di vita del lager. Nell’estate del 1942 le notizie presero a circolare e a Londra il «Daily Telegraph» scrisse di un milione di ebrei uccisi nell’Europa orientale. Il 4 aprile del 1944 un aeroplano da ricognizione statunitense volò su Auschwitz e scattò foto assai nitide (rimaste inspiegabilmente sepolte negli archivi della Cia fino al 1979). Nell’estate del 1944 due fuggiaschi da Auschwitz, Rudolf Vrba e Alfred Weczler, confermarono e ampliarono le informazioni di cui già in molti sapevano. Ma anche coloro che si opponevano al nazismo decisero di non credere a quelle notizie. E il tutto rimase — come ha scritto Walter Laqueur in un libro edito in Italia da Giuntina — un «terribile segreto». Che fu poi svelato molto (troppo) per gradi finché, meritoriamente, Otto Friedrich ha descritto quell’inferno in ogni suo dettaglio.

Il libro di Friedrich racconta tutto: una rivolta ben organizzata nell’ottobre del 1944, le dispute religiose sul senso di quell’incubo, i tentativi di Himmler di distruggere le prove dell’accaduto, le ultime impiccagioni del 6 gennaio 1945. Infine la bolgia conclusiva della «liberazione», nel corso della quale i sopravvissuti avrebbero ritrovato — pur senza la nota claustrofobica — il disorientamento che avevano conosciuto nei vagoni sigillati. Questa è stata Auschwitz.

Paolo Mieli, Corriere della Sera 15 gennaio 2020