Le “prediche inutili” a Conte, Bonafede e agli italiani in tempi di imperante populismo politico, giudiziario e mediatico

Caro Babbo Natale,

alcuni giorni fa il Guardasigilli del Governo Italiano On. Alfonso Bonafede – avvocato con dottorato di ricerca in materie giuridiche – ha argomentato le ragioni a sostegno della imminente riforma della “prescrizione” dichiarando in una nota trasmissione televisiva che “quando per il reato non si riesce a dimostrare il dolo e quindi diventa un reato colposo, ha termini di prescrizione molto più bassi” [Porta a Porta, 12 dicembre 2019].

Che gran confusione – Ohibò! È stato per ciò (comprensibilmente) maramaldeggiato non solo sulla stampa e sui social media: addirittura i Consigli dell’Ordine degli Avvocati di Palermo e Cagliari ne hanno chiesto le dimissioni. Mi pare esagerato!

Ben più grave l’affermazione – sostanzialmente passata inosservata – del Sig. Presidente del Consiglio dei Ministri (Prof. Giuseppe Conte) – anche lui avvocato, e in più abilitato all’esercizio dinanzi alle giurisdizioni superiori e professore universitario ordinario in diritto civile: “Per principio non sono né per il giustizialismo né per il garantismo, che riflettono visioni manichee” [20 aprile 2019].

Eh no! Questa affermazione è veramente grave e davvero denota una grossa (recte, grassa) ignoranza perché i due concetti (giustizialismo e garantismo) non stanno sullo stesso piano: il “giustizialismo” è una degenerazione populista (di origine sudamericana peroniana) di quanti, autoproclamandosi interpreti dello spirito del popolo (Volksgeist), invocano una giustizia tanto severa quanto sommaria in riferimento a fatti di cronaca di maggior allarme sociale; il “garantismo” invece è espressione diretta dei sommi principi dello Stato di diritto immanenti nella nostra Costituzione (per la responsabilità penale, si veda la presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva affermata nell’art. 27 della Costituzione, nonché l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo).

Tuttavia non si può ignorare che l’esigenza di decisioni veloci e sommarie sia sempre più di moda in questo periodo di imperante populismo politico, giudiziario e mediatico. Quante volte abbiamo ascoltato espressioni analoghe a quella improvvidamente pronunciata dal Presidente del Consiglio Prof. Giuseppe Conte?! Ci siamo già dimenticati, ad esempio, delle dichiarazioni sue e dell’ineffabile Ministro Toninelli lo stesso giorno del crollo del ponte Morandi?

«La soluzione si trascina»; «il problema, una volta posto, deve esser risolto»; «urge, non si può tardare oltre ad affrontare la questione». Chi legga queste e simiglianti sentenze pensa: perché il governo, perché il parlamento, perché il ministro competente, tardano tanto? Codesti frettolosi non riflettono: è questo davvero non uno dei tanti, ma il problema; e come accade che di volta in volta, ogni giorno diversi, tanti siano i problemi urgenti, dei quali la soluzione non può farsi attendere senza danno, anzi senza grave danno? Perché è così lungo l’elenco dei problemi urgenti; e così corto quello degli scritti nei quali sia chiaramente chiarito il contenuto di essi? Come si può deliberare senza conoscere?

Nulla, tuttavia, repugna più della conoscenza a molti, forse a troppi di coloro che sono chiamati a risolvere problemi. […] Giova deliberare senza conoscere? Al deliberare deve, invero, seguire l’azione. Si delibera se si sa di potere attuare; non ci si decide per ostentazione velleitaria infeconda. Ma alla deliberazione immatura nulla segue. Si è fatto il conto delle leggi rimaste lettera vana, perché al primo tentare di attuarle sorgono difficoltà che si dovevano prevedere, che erano state previste, ma le critiche erano state tenute in non cale, quasi i contraddittori parlassero per partito preso? Le leggi frettolose partoriscono nuove leggi intese ad emendare, a perfezionare; ma le nuove, essendo dettate dall’urgenza di rimediare a difetti proprii di quelle male studiate, sono, inapplicabili, se non a costo di sotterfugi, e fa d’uopo perfezionarle ancora, sicché ben presto il tutto diventa un groviglio inestricabile, da cui nessuno cava più i piedi; e si è costretti a scegliere la via di minor resistenza, che è di non far niente e frattanto tenere adunanze e scrivere rapporti e tirare stipendi in uffici occupatissimi a pestar l’acqua nel mortaio delle riforme urgenti.

L’azione va incontro all’insuccesso anche perché non di rado le conoscenze radunate con fervore di zelo non erano guidate da un filo conduttore. Non conosce chi cerca, bensì colui che sa cercare. Perché le commissioni alle quali è affidato il compito del conoscere non debbono essere composte solo di pratici, di competenti, di funzionari; giova includere un piccolo, anzi piccolissimo, pizzico di teorici. Dicendo teorico, non si vuole accennare agli “esperti” – in lingua italiana detti “periti” – i quali conoscono tutto del problema nei minimi particolari: precedenti, esperienze comparate estere, discussioni passate presenti e future; tutto, salvo il filo conduttore atto a scoprire il vero problema da risolvere. I periti hanno pronta la ricetta specifica adatta alla soluzione; e non occorre essere periti perché le ricette specifiche sono di dominio pubblico, subito esposte nelle lettere ai direttori dei quotidiani da lettori meravigliati non siano ancora state usate. Occorre occupare i disoccupati? Basta diminuire da 48 a 40, da 40 a 36, da 36 a 30 le ore settimanali di lavoro; basta mandare a casa i figli, le figlie, le mogli degli impiegati in carica, perché altrettanti posti si facciano vacanti e la disoccupazione scompaia.

Fatta qualche eccezione, la quale non è connessa col rimedio, ma con circostanze diverse contemporaneamente verificatesi o indipendentemente provocate, quasi sempre le ricette sono empiastri su una gamba di legno. Un teorico, ossia un uomo di buon senso che sappia ragionare ed abbia conoscenza critica del passato e degli infiniti spropositi commessi in passato, giova a far schivare le proposte più ovviamente sbagliate, le analisi mal condotte; sovratutto giova ad inspirare un salutare scetticismo sulla possibilità di giungere a soluzioni logiche in quelle che sono le complicate situazioni sociali ed economiche di questo mondo mal fatto, rese più complicate dalla difficoltà grandissima di scartare analisi e soluzioni politicamente popolari e di accogliere invece quelle buone, necessariamente impopolari. Spetta ai pratici e politici il compito specifico di far trangugiare all’opinione pubblica le soluzioni buone e spiacevoli travestendole da cattive e gradite.

Ma la conoscenza non si ottiene se invece del teorico o uomo di buon senso la ricerca del vero è affidata al dottrinario. Costui è un personaggio che possiede una dottrina, ed ha fede in quella. Egli non ragiona sul fondamento dei dati da lui conosciuti e della tanta o poca capacità di raziocinio ricevuta alla nascita da madre natura e perfezionata collo studio e colla esperienza. No; il dottrinario ragiona “al punto di vista”. Prima di studiare, egli sa già quel che deve dire. Anche se non è iscritto ad alcun partito; anche se non teme di essere espulso dal suo gruppo parlamentare; anche se non parla e non vota in conformità alle tavole statutarie deliberate nelle assise della sua parte, egli è genericamente liberale o socialista o comunista o democristiano o socialdemocratico o laburista o corporativista. Quindi sa che, “al punto di vista” della sua fede sociale e politica, la soluzione è quella. Non importa conoscere l’indole propria del problema, la sua nascita, le sue cause, i suoi precedenti. La soluzione è bell’e trovata. Talvolta, pressato dalle osservazioni persuasive del contraddittore, arriva sino a confessare «sì, quel che tu dici è esatto e si dovrebbe tenerne conto; ma io, con rincrescimento, debbo tener fermo ai principi che informano la mia condotta».

In verità, quei “principi”, non sono niente, sono tutto fuorché “principi”. Non esistono “principi”, i quali non siano fondati sulla esperienza e sul ragionamento, e non possano essere contraddetti da altri ragionamenti e da altre esperienze. Gli uomini del “punto di vista” non dichiarano principi, bensì vecchie fruste frasi fatte che, forse, un secolo o mezzo secolo fa avevano, in altre circostanze di fatto, un contenuto ed ora sono l’ombra di se stesse. Tuttavia, siccome la mente umana, fuor della fisica, della chimica, del calcolo matematico e di simiglianti territori vietati ai dilettanti e ai chiacchieroni, è pigra e nel tempo stesso amantissima delle novità, specie se popolari e seducenti ed odia le novità che promettono poco in seguito a lunga fatica, così quel che un tempo era parso nuovo ed era entrato nel bagaglio di una certa corrente ideologica seguita per inerzia ad essere magnificato come l’ottimo modernissimo portato del più ardimentoso progresso. I liberali avevano un tempo accolto, per ottime ragioni ed entro precisi limiti, ambi validissimi tuttora, il principio del “lasciar fare e lasciar passare”? Ancora oggi, taluno si sente liberale solo perché, ad ogni proposta di intervento dello stato, salta su come un istrice e dice che così si cammina sulla strada che porta alla tirannia comunistica, anche quando quello specifico intervento intende e non di rado riesce a promuovere la iniziativa privata e la concorrenza tra produttori. I socialisti un tempo, un secolo fa e più, avevano assunto come segnacolo in vessillo la nazionalizzazione di qualche industria? Ecco che ancor oggi, chi si professa socialista crede di dovere scegliere una qualunque soluzione solo perché nazionalizzatrice. Frattanto la esperienza ha dimostrato che la nazionalizzazione, in se stessa ed accolta per principio in ogni caso, è una grossa fandonia, venuta a noia a quegli stessi fabiani che tra il 1880 e il 1890 l’avevano chiarita ed ai laburisti che parzialmente l’avevano tradotta poi in atto. Fabiani e laburisti non hanno abbandonato la formula; ancora la sbandierano nei programmi annui, dove si elencano in proposito centinaia di postulati; ma la difendono in sordina e vanno affannosamente in cerca di qualche altro principio, meglio fecondo di bene al paese. Sinché il vento delle parole non sia mutato, quello è tuttavia il “principio” al cui “punto di vista” l’uomo socialista deve sottomettersi. Forseché, sussistendo “un punto di vista”, fa d’uopo cercare e, cercando, conoscere?”

Questo ampio stralcio dalle “Prediche inutili” di Luigi Einaudi risale al Natale 1955 (“Conoscere per deliberare”) conserva – purtroppo – intatta la sua urgenza e attualità.

PQM

Voglia l’Eccellentissimo Babbo Natale in via principale, contrariis reiectis, accogliere la predica einaudiana di “Conoscere per deliberare” e per l’effetto ordinare ai Sig.ri membri del Governo e delle Istituzioni in generale di astenersi dal deliberare e/o esternare dichiarazioni “a vanvera”.

In via subordinata, la supplica è rivolta a San Silvestro.

In via ulteriormente subordinata, alla Befana (che da sempre porta cenere e carbone ai sommari somari).

Con vittoria di spese nel senso di riduzione del debito pubblico.

Marco Mariani*, com.unica 22 dicembre 2019

*Avvocato amministrativista, Docente universitario a contratto, Direttore Affari Europei Fondazione Luigi Einaudi onlus