Péter Gárdos, i cui genitori conobbero i lager, spiega perché non si debbano negare né dimenticare gli orrori della Storia.

Péter Gárdos (Budapest, 1948) è un regista ungherese di film e documentari e autore del romanzo, uscito lo scorso anno, Febbre all’alba (Bombiani), storia dell’incontro dei suoi genitori, reduci dal lager nazista di Bergen-Belsen. Proprio il tema della memoria dei sopravvissuti all’Olocausto è al centro dell’intervento che anticipiamo in questa pagina e che Gárdos terrà questa sera, alle 21, al Piccolo Teatro Grassi a Milano nell’ambito del festival «La Milanesiana» ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi. L’evento, in collaborazione con Fondazione Cariplo, vedrà la partecipazione anche di Antonio Gnoli, Elena Stancanelli e Moni Ovadia con la conduzione di Armando Besio.

Appresi la mia vera identità grazie a un ceffone paterno. Quando avevo all’incirca 9 o 10 anni, avevo un compagno di nome Weisz che di tanto in tanto riempivamo di botte con l’incurante crudeltà tipica dei bambini. Solitamente queste atrocità avevano luogo vicino a casa nostra, all’angolo tra la Hernád e la Peterdy. In una occasione mio padre guardò fuori dalla finestra e vide quello che stavamo facendo. Al mio rientro a casa mi domandò perché avevamo pestato quel bambino. «Perché era ebreo» fu la mia risposta. Mi rifilò un ceffone talmente forte che finii per sbattere contro la credenza. «Proprio come te» replicò mio padre. Quel ricordo mi ha segnato profondamente, anche se non ne riparlammo mai. Devo precisare che, alla mia nascita, ricevetti il battesimo della chiesa greco ortodossa, giacché i miei genitori credevano di potermi così evitare tali stimmate. Come se un pezzo di carta potesse essere di un qualche aiuto.

Mio padre morì il 30 luglio del 1989.

Qualche giorno dopo, mentre stavamo riordinando le sue cose, mia madre mi allungò una scatola ammaccata. Dentro c’erano delle lettere. La corrispondenza tra mia madre e mio padre di 54 anni prima. Entrambi finirono in Svezia dopo essere sopravvissuti all’Olocausto, dove furono curati in ospedali e centri di riabilitazione a 600 chilometri di distanza l’uno dall’altra. A mio padre venne diagnosticata una grave e incurabile forma di tubercolosi, e gli dissero che gli rimanevano sei mesi di vita o giù di lì. Si procurò allora i nomi e gli indirizzi di tutte le ragazze ebree ungheresi curate in Svezia e cominciò a spedire loro delle lettere. Ciò dimostra come la prognosi del suo dottore, sebbene così allarmante, alla fine non gli importasse granché. Cominciò una corrispondenza epistolare con 117 ragazze. Mia madre era una di loro…

Nel 1989, cinque giorni dopo la dipartita di mio padre, divorai in una sola notte le lettere che mio padre e mia madre si scambiarono tra l’agosto 1945 e il marzo 1946.

Queste lettere mi spalancarono una porta.

***

In quelli che furono forse gli istanti più spaventosi della sua vita, mio padre gettò corpi avvizziti ed emaciati nel fuoco; divenne un «personaggio» di un quadro di Hieronymus Bosch; era stato all’inferno, e ne aveva fatto ritorno.

Credo di essere arrivato a uno dei punti più importanti. In profondità. Dovevo reagire in qualche modo.

Due domande mi diedero molto da riflettere.

Perché non aveva raccontato per iscritto la storia della sua corrispondenza con mia madre o, in altre parole, la nascita del loro amore, che è quasi poetico nella sua singolarità ed eccezionalità? L’altra domanda era, perché non parlava mai del suo passato? E le due domande sono collegate.

Il suo passato e lui.

La cremazione dei cadaveri.

Oggi ritengo che si vergognasse di tutto questo, di essere sopravvissuto, a differenza di molti altri, agli orrori del campo di concentramento.

Posso solo immaginare quali strategie dovette mettere in atto per riuscirci. Sono un regista, tendo a pensare per immagini e situazioni.

Vedo davanti ai miei occhi il cortile del campo di Bergen-Belsen. I prigionieri sono in fila. Centinaia, forse anche più di mille uomini condannati a morte se ne stanno lì in piedi nella divisa a righe durante l’adunata del primo mattino. Di fronte a loro ci sono giovani atletici dagli occhi azzurri, in uniforme e con un fucile assicurato alle spalle con una cinghia. Uno di loro, l’ufficiale superiore, sta proponendo un accordo con frasi semplici e chiare. Vuole dei volontari per gettare alcuni defunti compagni di prigionia nel fuoco. In cambio, la loro razione quotidiana di pane sarebbe aumentata di 5 decigrammi.

5 decigrammi di pane.

La vita stessa!

Immagino mio padre che, dopo qualche esitazione, alza la mano…

È possibile spiegare un gesto simile in tempo di pace?

Qualcuno può raccontare una cosa del genere al proprio figlio 40 o 50 anni dopo?

5 decigrammi di pane…

Credo che col senno di poi questo sia qualcosa di cui vergognarsi, qualcosa da seppellire in profondità, o da rinchiudere nel ripostiglio per poi gettar via la chiave.

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In realtà, non sono affatto sorpreso che negli ultimi cinquant’anni i miei genitori non mi abbiano raccontato che qualche breve aneddoto sul loro passato.

Adesso vorrei parafrasare la seguente domanda: Cosa dovremmo fare con quelle persone e ce ne sono parecchie in Ungheria, proprio come in qualsiasi altro posto che dicono di averne abbastanza dell’Olocausto? «Ne ho già sentito parlare troppo, lasciatemi in pace con queste storie; è successo talmente tanto tempo fa che è quasi come se non fosse mai accaduto; anche se è accaduto realmente, ne avete già parlato abbastanza, l’avete già sfruttato al massimo, ne avete ricavato dei quattrini, adesso sparite!».

Ecco cosa vorrei dire a queste persone con il mio romanzo Febbre all’alba: «Va bene. Raccontiamolo in modo diverso. Parliamo dell’amore nato dal terrore. Per una volta parliamo di due persone che sono restie a odiare, e anzi scommettono sulla vita».

Allora, a questi ventenni che ne hanno avuto abbastanza dell’Olocausto, questa storia, la storia dello straordinario amore tra i miei genitori dopo la guerra, riguarda, al di là delle atrocità, due persone che tentano di lasciarsi la morte alle spalle e decidono di ricominciare da capo. Riguarda il loro ritorno alla vita e il loro innamorarsi contro ogni previsione. Non c’è nulla di più importante di ciò. Spero che questo gesto umano, e in un certo senso sovrumano, possa permettere a coloro che hanno una tendenza a rifiutare meccanicamente questi temi di comprendere la passione che mi ha spinto a scrivere questo romanzo.

Per sessant’anni la società ungherese ha ostinatamente taciuto questa colpa che è invece necessario affrontare. Non è solo che il partito ungherese della Croce frecciata ha aiutato i soldati di Eichmann, l’ufficiale delle SS tedesche; fu necessario il tacito o attivo sostegno dell’intera società dai ferrovieri ai funzionari statali per portare così tante persone nei campi di sterminio con tale velocità, facilità e risolutezza.

Seicentomila morti.

Seicentomila ebrei ungheresi.

Ungheresi ebrei.

Fu necessaria una terribile cospirazione del silenzio per raggiungere questa cifra spaventosa. I civili ungheresi chiusero le imposte, ignorarono le persone marchiate con il segno di riconoscimento giallo che venivano trascinate via per essere eliminate. Per sessant’anni non c’è stato altro che occultamento, edulcorazione e dissimulazione della questione.

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Infine vorrei raccontarvi quella che è stata per me l’esperienza più sbalorditiva in relazione a tutto ciò. Ho avuto la possibilità di fare un film basato su Febbre all’alba, uscito lo scorso dicembre. Si è trattato di una coproduzione ungaro-israelo-svedese. Quando i partner svedesi hanno deciso di partecipare alla produzione, hanno richiesto esplicitamente di non includere solo personaggi svedesi positivi nel film. Ero sbalordito.

Ho provato un moto di sincera gratitudine verso la Svezia. Nel ’45 solo tre paesi europei furono disposti ad accogliere i sopravvissuti dei campi di sterminio. La Svezia era uno di questi. Le lettere scambiate dai miei genitori confermavano che nei centri di riabilitazione c’erano infermiere e dottori zelanti, amabili e sensibili perché avrei dovuto ritrarre dei personaggi negativi?

E poi quei finanziatori svedesi della coproduzione vengono a dirmi che dobbiamo essere obiettivi, dato che una percentuale significativa della popolazione svedese sostenne Hitler fino alla fine. Capii così che loro, gli svedesi, non hanno alcuna pietà per il proprio passato, neppure dopo sessant’anni.

Ecco perché ho dovuto inserire nella sceneggiatura un fanatico di Hitler.

Credo che una società con una mentalità sana non possa funzionare altrimenti.

Peter Gardos/IL GIORNALE 29 giugno 2016