Durante la seconda guerra mondiale tradusse le sue opere in russo.

Mentre gli uomini fanno la guerra, un uomo, da solo, in un luogo fuori dal mondo, sta salvando l’Occidente. E lo fa, dal gorgo della Seconda guerra, traducendo Shakespeare. Quest’uomo, Boris Pasternak, non si sottrae alla lotta. «Nelle notti dei bombardamenti vegliai sul tetto di un edificio di dodici piani, scavai il rifugio blindato a casa mia, in campagna, e seguii i corsi di addestramento militare, che inaspettatamente rivelarono in me un tiratore nato». Svolto l’addestramento, nel 1941, Pasternak raggiunge la moglie e i figli, sfollati. «L’inverno nella città di provincia, distante dalla ferrovia, sulla riva di un fiume gelato, suo unico mezzo di comunicazione, mi tagliò fuori dal mondo esterno». Come in un bunker, mentre l’Occidente implode, Pasternak dialoga, per mesi, con Shakespeare. Traduce Romeo e Giulietta, «l’unico lavoro che mi sia rimasto, che vale». Nel 1939 aveva tradotto Amleto, e da lì comincia non tanto «l’evasione in Shakespeare, l’immersione in lui». Fino al 1946, tanto dura la permanenza di Pasternak in Shakespeare. “Parlare di Shakespeare significa fare un bilancio della propria vita, rivivere la giovinezza, proclamare il proprio credo poetico e filosofico”, scrive a Pasternak la cugina, Olga Fréjdenberg. «La semplicità shakespeariana, quella che solo i geni possiedono, è stata resa per la prima volta in russo», scrive la cugina, dopo aver letto l’Otello secondo Pasternak.

In sette anni Pasternak traduce Amleto e Romeo e Giulietta, Antonio e Cleopatra e Otello, Enrico IV e Re Lear, «scritto col linguaggio dei profeti veterotestamentari». Nel 1950 traduce Macbeth, che «potrebbe a buon diritto chiamarsi Delitto e castigo. Non riuscivo ad allontanare i paralleli con Dostoevskij quando lo stavo traducendo». Infatti, “Shakespeare fu padre e maestro del realismo”, scrive Pasternak nelle Annotazioni alle tragedie shakespeariane, pubblicate nel 1956, passate in Italia nel 1970, per Marsilio, nella raccolta di Saggi sulla letteratura e sull’arte, Quintessenza. Da Shakespeare dipendono Aleksandr Puskin e Victor Hugo, Schelling e Hegel, “Shakespeare è il precursore del futuro simbolismo di Goethe, nel Faust” (che per altro Pasternak tradusse), da Shakespeare dipende “il teatro di Ibsen e di Cechov”. Da Shakespeare, soprattutto, deriva lo stesso Pasternak: “Le traduzioni di alcune tragedie di Shakespeare si connettono organicamente a tutti i miei lavori”, confessa, settant’anni fa. Proprio allora, nel 1946, Pasternak mette le basi di «un lavoro molto serio», un romanzo che s’intitola Ragazzi e ragazze, è l’annuncio del Dottor Zivago. Il primo atto è la stesura della prima delle Poesie di Jurij Zivago, Amleto.

Nell’era oscura, Pasternak rappresenta la rettitudine dell’arte, il genio verticale contro la Storia. Pasternak non cede all’ideologia dominante, rifiuta l’avventato interventismo, “egli passava nel folto delle battaglie che avrebbero mutato la Russia, come un sonnambulo, destandosi a tratti per annotare con voce assonnata, non le gesta del popolo, ma i prodigi del cosmo” (Angelo Maria Ripellino). Nel giugno del 1935 Boris Pasternak fu spedito dal regime stalinista a Parigi, a intervenire al ‘Congresso per la difesa della cultura’. Pasternak non dormiva da giorni. Era convinto che in una delle retate che rapirono alla storia della letteratura Isaak Babel’, Osip Mandel’stam, Varlam Salamov e troppi altri, sarebbe stato coinvolto anche lui. Quel giorno di giugno, il 25, Pasternak incontrò Marina Cvetaeva, l’ennesimo genio disprezzato dal regime (si impiccò, Marina, annientata dall’indifferenza, nel 1941). L’intervento di Pasternak dura pochissimo. «La poesia rimarrà sempre eguale a se stessa, più alta di ogni Alpe d’altezza celebrata: essa giace nell’erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra», dice Pasternak a una falange di ‘compagni’. La poesia “sarà troppo semplice perché se ne possa discutere nelle assemblee”, perché “quanto più ci sarà felicità a questo mondo, tanto più sarà facile essere artisti.”

Davide Brullo, IL GIORNALE, 4 maggio 2016