Elena Loewenthal raccoglie per “La Stampa” la testimonianza del rav Adin Steinsaltz, un grande esperto del Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo (secondo solo alla Bibbia) che comprende una serie di insegnamenti, usi, leggi e consuetudini ebraiche.

Questa non è un’intervista. Avrebbe dovuto esserlo, ma con rav Adin Steinsaltz, il più grande talmudista dei nostri giorni che martedì sarà in Italia per la presentazione del primo volume della traduzione italiana del Talmud (che reca la sua introduzione), è andata diversamente. Il suo primo nome significa in ebraico «delicato» e la sua voce è proprio così, un suono sottile eppure profondo carico di età e conoscenza. Però dopo la prima domanda non è arrivata una risposta ma un fiume in piena di parole, il privilegio di una lezione talmudica capace di aprire l’orecchio che ascolta in un modo tutto speciale che va dritto al cuore e alla testa. È vero che l’ebraismo non ha l’estetica nelle sue fibre. Riserva alla bellezza una quasi indifferenza. Ma no, non è così. Ascoltando rav Steinsaltz parlare di Talmud ci si confronta prima di tutto con la bellezza delle parole, con la capacità delle parole di costruire capolavori di immagini, suggestioni, ricordi, speranze, nostalgie, sogni.

Rav Steinsaltz, che cos’è il Talmud?
«Che cos’è il Talmud? (Nella più classica tradizione ebraica, il più grande talmudista dei nostri tempi risponde a una domanda con una domanda. Ma per fortuna non si ferma qui). Il Talmud è sostegno dell’ebraismo, della cultura ebraica. Non è il fondamento, perché quello è la Torah, cioè la Bibbia. Non è la destinazione finale, perché quello è il mondo a venire. È, come si direbbe in ebraico, la amud hatawwek – la colonna portante. Quella che sta in mezzo e sostiene tutto. (Non a caso, amud significa anche “pagina”). Vede, io vivo con il Talmud. Amo il Talmud. So che è fonte di vita per il popolo ebraico. Colonna portante. Un po’ come in quella immagine della parola “Emet” che in ebraico significa “verità” ed è composta da tre consonanti, la prima che è la alef, l’ultima che è la taw e in centro la mem che è a metà dell’alfabeto. Come a dirci che la parola “verità” contiene tutto. Vede, il popolo ebraico ha inventato tre cose. All’epoca biblica del Primo Tempio ha inventato il monoteismo. La Torah e la profezia hanno portato al mondo la fede nel Dio unico, che è arrivata ovunque. La seconda cosa che l’ebraismo ha inventato è la gheullah. L’idea di redenzione, di riscatto. La fede nella possibilità che il mondo cambi radicalmente. Anche questa idea è arrivata ovunque. Voglio dire che sì, c’è una linea di continuità che va dal nostro maestro Mosè sino a Mao Tse Tung… Ebbene queste due cose il mondo le ha già ricevute. La terza deve ancora riceverla, ed è il Talmud. Che è l’equilibrio fra le prime due. L’asse portante che sostiene quella mobile dinamica che corre fra l’osservanza della legge, cioè la halakhah, e la mistica, cioè la metafisica, quel porsi le domande universali sul senso del mondo e di noi. In mezzo c’è il Talmud, cioè lo studio. L’interrogazione. Se lei apre una pagina di questo testo, che cosa trova? Trova dei dialoghi vivi. La gente che parla nel Talmud è viva: la vediamo davanti agli occhi. Ma la parola viva vola via. Eppure il Talmud è un testo scritto. Questo è il suo paradosso. Non è l’unico: c’è nel Talmud un equilibrio molto ardito fra il generale e il particolare. Si parte da una questione estremamente specifica e in un brevissimo spazio di testo si arriva a qualcosa di universale. Il Talmud è fatto di libere associazioni, non di rado vertiginose. E poi la sua lingua. È la lingua del pensiero ebraico, che ti racconta non solo il “cosa” ma anche il “come” si pensa, una specie di codice mentale oltre che espressivo. È una lingua molto originale. Matematica ma al tempo stesso poetica, anche se le due cose paiono contraddittorie».

Colonna portante ma anche testo dinamico, mobile. Come spiegare questa doppia natura?
«L’immagine che mi viene in mente è quella dell’elettrocardiogramma. Il Talmud è come l’elettrocardiogramma dell’ebraismo, fatto di onde, di continue oscillazioni. Ma sostiene tutto. Crea equilibrio fra il particolare della legge e l’universale della mistica. C’è una parola inglese che secondo me definisce questa vocazione tutta speciale del Talmud: sanity. Lucidità? Forse in italiano non c’è, una parola così. Per secoli e millenni gli ebrei l’hanno studiato, ci hanno vissuto insieme. Il Talmud ha tenuto insieme l’identità, si è trasmesso di generazione in generazione. Badi bene, è un testo difficile e profondo, ma senza di esso non si comprende l’ebraismo, e l’ebraismo non comprende se stesso. La cultura ebraica si costruisce nello studio. Nell’interrogazione che va alla radice. Alla fonte: meqor haiim, “fonte di vita”».

Che cosa pensa di questa prima traduzione in italiano? C’è qualcosa che vuol dire a coloro che in questa lingua si avvicineranno al Talmud?
«Questa traduzione italiana è molto importante perché riporta il testo alle sue origini. L’ebraismo italiano è stato nella tarda antichità il ponte fra la Terra d’Israele e l’Europa. L’Italia è stata la prima tappa dell’esilio. E ha una lunga e gloriosa storia di studi talmudici, di testi nati dal Talmud. È, come si direbbe in ebraico, una “fonte di acqua viva” della cultura ebraica. L’ebraismo italiano ha saputo nei secoli conservare e tramandare il Talmud anche quando ne era vietata la trasmissione. Malgrado i suoi scarsi numeri, l’ebraismo italiano è stato grande centro di produzione culturale. A incominciare dallo Shulchan Arukh, “Tavola Apparecchiata”: il testo che dà ordine al materiale normativo talmudico. Quindi questa traduzione in italiano è un ritorno a casa, per il Talmud».

Elena Loewenthal, La Stampa 2 aprile 2016