L’analisi di Domenico Quirico su “La Stampa“: lo stato islamico è stato davvero sconfitto?

Dunque è finita, dopo tante annessioni e successi il califfato sta per passare di moda? Per molti è certo: il parassita delle nostre angosce muore in un giorno di giugno con la riconquista sciita, simbolica anche dal punto di vista cronologico, della moschea di Mosul in cui tre anni fa Al Baghdadi si proclamò millenario. Decadimento e apocalisse magistrale. Questa epopea sanguinaria sfumerebbe dunque in un modo in fondo così scialbo, così fiacco, così scarsamente pittoresco! C’è una pericolosa febbre da ultimo atto, ci stiamo ingarbugliamo, a occidente, nuovamente nelle nostre illusioni, nel felice torpore, pronti a corsi di oblio, alle delizie dell’amnesia.

Certo il controllo, e l’amministrazione spietata, di un territorio ha costituito la essenza del califfato, la novità che lo ha innalzato sulle esperienze di radicalismo islamico precedenti. Il Comintern islamista che riuniva le periferie europee alla via della seta all’Africa sub-sahariana aveva nella Mosca sull’Eufrate un riferimento pratico e una boa spirituale. Migliaia di combattenti stranieri che la biografia non collegava a una parte del mondo dove regnava una notte spaventosa sono venuti a pregare in quella moschea, a uccidere e a morire per difendere e estendere il primo califfato con aspirazioni totalitarie. Lì hanno scoperto che l’idolatria del sacro Avvenire è compatibile con l’atroce, che anzi conduce all’atroce. Sarà difficile disintossicarli. È prudente non abbandonarsi a baldorie liquidative, la caduta fisica e territoriale del califfato sposta il problema su un piano diverso ma non migliore. Innanzitutto Daesh, con il suo marchio, ha reso Siria Iraq e tutto il vicino Oriente irriconoscibili e ne ha compromesso per sempre la pace. Le virtualità di lacerazione e di conflitto che contenevano si sono attualizzate e concentrate nelle masse. Effetto politicamente voluto, soprattutto storicamente permanente che affliggerà il terzo Millennio: ricostruire i vecchi stati unitari è evidente follia poiché si ripete l’errore di affidarli agli aborriti tribalismi sciiti, curdi (o alqaidisti).

La seconda strategia del califfato è stata quella di schierare un centro e una periferia. La retrovia della Terra tra i due fiumi sono le zone in decomposizione, i margini del mondo musulmano. Qui, dal grande vuoto saheliano alle montagne afgane alle terre della transumanza somala fino all’Uzbekistan e allo Yemen, Daesh ha moltiplicato le metastasi creando delle linee di ritirata e di concentrazione pronte per altri dieci, mille califfati. La perduta gente di Mossul e di Raqqa, in realtà, non è afflitta da una cupa frenesia della fine, sembra in grado di attuare la più complessa delle operazioni militari, la ritirata verso nuovi basi. Non si riesce a fargli assaporare la solitudine dei vili, che è la vera sconfitta. La scomparsa di Al Baghdadi, re nascosto, funzionario burocratico e istituzionale della Missione, in questa prospettiva è incidente provvisorio di fronte alla perennità dell’istituzione: la monarchia islamista è più grande e infrangibile del suo re. Ancor meno accorto sarebbe illudersi che la fine della Guida mediorientale significhi l’isterilirsi delle vocazioni tra i giovani europei, asiatici o africani. Perché l’islamismo costituisce la faccia oscura della globalizzazione.

L’estremismo violento che contagia questa generazione non segna il risorgere di culture tradizionali ma, al contrario, il loro estinguersi. I giovani in esso si liberano del peso di tradizioni millenarie e cercano una identità sociale. Si radicalizzano per trovare una identità solida in un mondo che si appiattisce. L’estremismo in dio offre alla loro vita un senso e un destino glorioso. Il fondo bestiale dell’entusiasmo. Noi, invece, continuiamo a mancare di disponibilità metafisiche, di riserve sostanziali di Assoluto. Intanto i canali verticali di comunicazione tra le generazioni sono sostituiti da legami orizzontali tra pari, legami che attraversano il pianeta. La caduta di Mosul e di una moschea ridotta a emblematica rovina sono troppo poco per cancellare questa Storia trafelata.

(Domenico Quirico, LA STAMPA 1 luglio 2017)