Secondo i dati ISTAT pubblicati nel novembre 2016, nel 2015 si sono registrati in Italia 82.469 divorzi e 91.706 separazioni. Le percentuali di divorzi e separazioni sono più basse nel caso dei matrimoni celebrati con il rito religioso e stanno rimanendo costanti nel tempo. Un luogo comune popolare un tempo evocava la crisi del settimo anno, ora c’è una novità: il report dell’ISTAT parla di crisi del diciassettesimo anno. Infatti secondo le rilevazioni dell’Istituto Nazionale di Statistica la durata media dei matrimoni italiani al momento della separazione è 17 anni. Negli ultimi vent’anni è aumentata la percentuale di separazioni che avvengono dopo un lungo matrimonio.

Quando si parla di un rapporto in crisi seguito da un rovinoso divorzio, è esemplare il film di Danny De Vito “La Guerra dei Roses”: all’inizio una vita ricca, perfetta e felice, poi le prime divergenze, i primi malumori. Lei scopre di non sopportare più lui, di non amarlo più ed inizia una guerra all’insegna delle umiliazioni, dei dispetti, dei ricatti, purtroppo con un brutto epilogo.

Ma qual è l’anatomia di un rapporto di coppia?

Innanzitutto è importante non gravare il rapporto di un’analisi continua, un partner non può essere esaminato e passato al microscopio in continuazione. Un compagno va accettato così com’è, con i suoi limiti e le sue risorse, perché si dovrebbero amare prima i difetti e poi i pregi, altrimenti è davvero tutto troppo facile. Le conferme e le “disconferme” fanno parte del viaggio e del percorso. Siamo abituati a pensare che il matrimonio sia l’obiettivo a cui si deve puntare, ma il matrimonio non è l’obiettivo, per cui una volta arrivati ci si lascia andare, tanto il più è fatto. È semmai un punto di partenza, è l’inizio di un percorso insieme. Un percorso insieme con il fine comune di formare una coppia “sana”, in cui convivono unità e diversità, in cui ognuno ha aspetti in comune con l’altro, ma ciascuno è diverso dall’altro.

La diversità deriva dall’unicità umana, va accolta come un dono e non come motivo di guerra o peggio, come una ferita. Il partner è un individuo e non è la nostra proiezione. Finché l’altro dovrà rispondere ai nostri bisogni emotivi e psicologici, finché si ripeterà lo schema della relazione genitore-bambino, ci sarà disarmonia. Bisognerebbe imparare ad avere a che fare con la persona e non con l’idea che si ha di quella persona. La sanità della coppia corrisponde alla possibilità di trattare con la persona reale. Sembra strano, ma quando scegliamo qualcuno lo facciamo proprio per le diversità. L’innamoramento ci permette di accogliere l’altro, perché nell’altro amiamo ciò che non riusciamo ad amare in noi stessi. Ci si innamora, si perde la testa, vediamo in noi stessi e nell’altro solo gli aspetti più belli. Poi arriva il cambiamento, arriva la quiete e con la routine il funzionamento psicologico abituale riemerge e ci si scontra proprio con quegli aspetti che prima ci avevano attratto. Il passaggio dall’innamoramento all’amore è costellato da fasi drammatiche riassumibili con una sola parola: crisi. Se la relazione vacilla e sentiamo di non farcela, non pensiamo più alle occasioni di crescita sperimentate con il partner, ricordiamo solo che l’altro non ci ha amati abbastanza, negando il legame piuttosto che accettarne i cambiamenti. Allora l’altro, che prima incarnava tutte le risposte, adesso si è trasformato in un tiranno dispotico e sadico, in una parola: il Nemico. I membri della coppia diventano così due guerriglieri che si sono trasformati in persecutori l’uno dell’altro. Ci si sveglia la mattina con la missione di far pagare all’altro un elenco di mancanze, rendendolo responsabile delle proprie scelte, in un crescendo di distruttività che si spera resti solo verbale. Ma non è “l’altro-dispotico” a ferirci, ma il nostro personale senso di fallimento, che proviene dall’imprevisto crollo di un illusorio senso di Sé.

Allora, che fare? Sarebbe meglio tornare ad affrontare il nostro tiranno con una maggiore neutralità di osservazione e coerenza nei comportamenti. Imparare a trasformare la propria energia, trasformando di riflesso quella dell’altro, ricordandosi che oltre a noi stessi esistono anche altri esseri umani. Dobbiamo quindi utilizzare ciò che succede nella coppia, invece di combatterlo in virtù di un ideale di normalità poco aderente alla normalità. Certo c’è un rischio: iniziare a gestire la propria vita. Da soli. Che vuol dire anche saper chiedere aiuto all’altro. Imparare a guardare l’altro nella coppia significa imparare a vedere sé stessi. Con grande malessere e sofferenza, ma da qui inizia la strada verso la conoscenza, dove l’uno che guarda l’altro significa vivere la coppia con serenità. I matrimoni coinvolti continuamente nella risoluzione dei conflitti non prosperano. Non si può lavorare sempre sul rapporto: ci devono anche essere scambi positivi, compiti condivisi, vita familiare quotidiana. È importante la gioia comune di risolvere situazioni difficili, sono importanti l’intimità e l’erotismo, ma si ha bisogno anche di una consuetudine familiare. È importante tranquillizzarsi e tranquillizzare l’altro. Questa tranquillizzazione smussa gli spigoli dei momenti difficili quando la coppia si trova ad affrontarli. È più facile che i coniugi divorzino quando si criticano a vicenda continuamente.

Le coppie felici, anche a lungo termine, sono quelle che fanno più asserzioni positive, invece che negative, l’uno sull’altro. Certo i complimenti non sono la chiave della risoluzione dei conflitti di coppia, ma aumentano i livelli di benevolenza. Le coppie hanno bisogno di esperienze condivise significative che forniscano motivazioni e sostanza alle affermazioni positive. Il ciclo di crescita è fondamentale, perché più si è differenziati, più è probabile che il matrimonio possa sopravvivere a crisi coniugali sfortunate o agli eventi drammatici e luttuosi. Non bisogna evitare il conflitto, intendiamoci, ma portare avanti il proprio punto di vista senza scontrarsi o demolire l’altro, magari utilizzando l’umorismo e i sentimenti positivi per diluire l’antagonismo e ridurre le probabilità di stimolare reazioni difensive. Ridere anche nei momenti di tensione, sdrammatizzare una situazione per evitare l’escalation. Questo è facile per le coppie differenziate, lo è meno se c’è fusione, se la crescita di uno è vissuta negativamente dall’altro. Quando i partner diventano più capaci di auto-confrontarsi e auto-tranquillizzarsi, hanno meno bisogno di controllarsi a vicenda. Riescono a mantenere la loro stabilità emotiva e si preoccupano di meno di quello che fa il partner. Smettono di aspettarsi che il partner li capisca e si concentrano di più sulla comprensione di sé stessi, riducendo così l’aggressività e la combattività. Non ci si deve aspettare che il partner sia lì per noi: il matrimonio felice e stabile non è basato su uno scambio di vantaggi. Siamo noi che dobbiamo prenderci cura di noi stessi. “Prendersi cura di noi” è importante per noi stessi, ma è anche un aiuto per il nostro partner. Le nostre scelte comportano sempre dei rischi e delle responsabilità. Le nostre azioni, ma anche le mancate azioni, hanno un impatto sugli altri, quindi sul partner. Auto-valutazione, auto-convalida, maggior controllo di sé, permettono di riconoscere che si sta trattando con un altro essere umano: limitato, sbagliato, anaffettivo, sfuggente e persino immaturo, ma pur sempre un essere umano. E allora migliora tutto, anche la comunicazione e la scelta dei codici.

(Nadia Loreti, com.unica 17 aprile 2017)