Era il 15 dicembre 1675 quando Joannis van der Meer, passato alla storia come Johannes Vermeer, maestro pittore, si spense. Jan, come veniva affettuosamente chiamato dai familiari, aveva quarantatré anni, dieci figli ancora piccoli e tanti debiti. Sua moglie Catharina dichiarò all’Alta Corte di Olanda che il marito era caduto in uno stato “di decadenza e di deperimento” e che le preoccupazioni per la famiglia e la mancanza di risorse economiche gli avevano provocato “uno stato di frenesia che lo aveva portato alla morte in poco più di un giorno”. Forse si trattò di un avvelenamento volontario, forse di un ictus, un improvviso crollo fisico e mentale. La sua fine resta un mistero, come un enigma è stata la sua vita, tanto di meritarsi il soprannome la Sfinge di Delft. Restano le ricerche fatte dagli storici che si sono interessati a questo grande artista a partire dal secolo scorso e che hanno avuto come sfondo proprio la sua città natale, Delft, in Olanda. Di lui restano trentacinque, forse trentasei quadri, una ventina i pezzi firmati. Molte opere sono sicuramente andate distrutte dall’inclemenza del tempo e degli eventi, altre saranno nascoste in collezioni private, tuttavia non fu un artista particolarmente prolifico, forse perché troppo attento alla perfezione dell’esecuzione per rispondere alle necessità di mercato. La povertà in cui fu costretto a vivere e la sua triste fine non gli impedirono di essere apprezzato da una cerchia di intenditori e di diventare uno dei più importanti pittori dell’Epoca d’Oro olandese. Non si conosce nulla neanche della sua formazione, né si conoscono relazioni specifiche con artisti attivi a Delft nei sei anni di tirocinio previsto dalla gilda delle corporazioni. Si suppone che abbia seguito il suo apprendistato presso la bottega di Carl Fabritius, artista di grande talento, a sua volta discepolo di Rembrandt.

La pittura di Vermeer risentiva nel tessuto cromatico e nella profondità chiaroscurale dei temi caravaggeschi rielaborati in chiave olandese, mentre le scene in costume e gli interni – soprattutto nella prima opera datata e firmata, Dalla Mezzana di Dresda (1656)- la pennellata larga, la finezza psicologica, l’atmosfera densa e pulviscolare, rimandano ai caratteri rembrandtiani. Con le opere giovanili, prima del 1660, l’artista avvia la sua inconfondibile poetica degli interni, fatta di silenzi, figure assorte in attività quotidiane, ma mai banali, avvolte e nutrite dall’incantesimo dei colori e della luce. Il pittore gioca abilimente con gli scarsi elementi che caratterizzano le tele, seducendo l’osservatore con la magia delle prospettive e della luminosità, la ricchezza dei pigmenti cromatici: per il blu usava triturare il lapislazzulo afgano, molto pregiato. La sua capacità di fissare l’attimo, di rendere eterno ogni gesto e aspetto della quotidianità, si coglie anche nei suoi due unici paesaggi, Strada di Delft e Veduta di Delft, apice assoluto del vedutismo seicentesco, per l’equilibrio della visione, la lucidità ottica e l’attenzione agli effetti atmosferici: un paesaggio urbano ed umano colto in un attimo senza tempo e a cui si sentiva intimamente di appartenere. È stato detto che le innumerevoli minuscole lumeggiature di colore tradissero l’uso di strumenti ottici, come la camera oscura, ma tale ipotesi non è stata mai dimostrata. Dopo il 1660, con l’arrivo della piena maturità stilistica, il percorso artistico di Vermeer si perfeziona ulteriormente, l’impianto dell’opera diventa più rigoroso, i volumi sono più meditati, i giochi di luce e colori si fanno più raffinati. L’analisi dei dettagli è più acuta, i colori si riempiono di “grumi di luce” e dell’accordo – tipicamente vermeeriano – dei blu e dei gialli; le composizioni emanano calma e uno straordinario senso di equilibrio (Donna con Brocca La Lattaia). La tensione quasi ossessiva a misurare gli spazi ha permesso a Vermeer di raggiungere una estrema sottigliezza formale. Il più bel quadro in assoluto tra i più conosciuti di Vermeer è sicuramente Ragazza col Turbante (La ragazza con l’orecchino di perla), che è anche quello che esprime meglio l’evoluzione stilistica del realismo olandese. Nel 1665 Vermeer dipinse diverse “tronie”, dipinti di volti, tra queste, quella che ritrae la ragazza con l’orecchino di perla, è sicuramente la più bella: il volto della ragazza magnificamente luminoso è messo in risalto dal fondo nero e dal copricapo azzurro e giallo, avvolto come un turbante. All’orecchio, un grosso orecchino di perla cattura la luce. Gli occhi brillano e le labbra, socchiuse, sembrano umettate. La figura guarda lo spettatore come se fosse assorta in pensieri lontani.

Quando nacque Vermeer, nel 1632, Delft era un fiorente centro commerciale e industriale: la sua economia fondava sulla produzione della birra, la lavorazione dei tessuti e di una ceramica tipica chiamata appunto Blu di Delft. Suo padre vendeva opere d’arte e sua madre era una locandiera. Nel 1653 sposò Catharina Bolnes e qualche mese dopo si iscrisse come pittore alla Corporazione di San Luca. Ebbero in tutto quindici figli, quattro dei quali morirono in giovanissima età. Il peso della famiglia si faceva sentire. Vermeer aveva ereditato l’attività di mercante d’arte del padre, ma durante il periodo della guerra non riuscì a guadagnare quasi niente, perché costretto a dare via le opere con gravi perdite finanziarie. Interrompeva continuamente il lavoro di pittore, forse per problemi di salute o perché impegnato con il servizio nella Guardia Civica. Il 1675 fu un anno particolarmente difficile in cui non dipinse quasi niente; cercò di ottenere ad Amsterdam un prestito di mille fiorini, ma l’accordo andò a monte per la perdita di interessi preziosi. L’estate e l’autunno erano stati terribilmente secchi e si diffusero gravi malattie in tutta l’Olanda. Jan si aggirava per casa cupo e pensoso. Una settimana dopo la festa di San Nicola svenne, non si sa se per polmonite, attacco epilettico, depressione profonda o cos’altro. Nei suoi ultimi quadri i colori usati come base erano particolarmente scadenti, il senso di fallimento, come pittore e come padre di famiglia, doveva averlo gettato nella disperazione. Sul registro della Chiesa Vecchia fu annotato il funerale di Jan Vermeer, il 15 dicembre 1675. Fu calato nella tomba di famiglia, con i resti dell’ultimo figlio rimossi e messi sulla bara del padre. La Camera di Carità il giorno dopo prese nota di ciò che era stato donato e furono scritte solo tre parole: “Niet te halen”, “non è stato donato niente”. Ci volle molto tempo ancora per capire il valore delle opere di Vermeer, ma gli eredi non ne trassero alcun vantaggio.

(Nadia Loreti/com.unica, 19 dicembre 2016)