Intervista a David Grossman di Susanna Nirenstein. Il significato della fiaba per la crescita di un bambino (da Repubblica).

Parlare con David Grossman è come ascoltare un concerto di parole, poesia. Impossibile riprodurle. Se poi l’argomento sono i bambini la musica si fa cantante, delicata. E siccome gli telefoniamo proprio in occasione di una nuova fiaba per piccolissimi dai 3 ai 5 anni, Mia, tua, nostra, mentre è a Londra a promuovere il suo ultimo romanzo Applausi a scena vuota (e anche a pensare al suo prossimo libro), ecco che la voce si modula in un’armonia. Il contenuto del breve racconto è il primo incontro con l’ingiustizia per una bimba, Lilli (un nome che assomiglia a quello di sua figlia Lilah): all’asilo una compagna le sottrae di nascosto la bambola e la maestra non capisce a chi appartenga davvero. Smarrimento, urla, strepiti, pura disperazione (ben illustrati da Giulia Orecchia), ma man mano Lilli capisce che l’amica ha dimenticato il “suo” giocattolo a casa, e, in stile decisamente grossmaniano, le due arrivano alla comprensione e alla condivisione.

Ma come mai un autore così alto, che in Caduto fuori dal tempo ha varcato l’Ade e ha incontrato il dolore per la morte del figlio Uri, in Che tu sia per me il coltello si è infilato fino alle ossa dentro i tormenti dell’amore, e fin dai primi romanzi, da ebreo israeliano, ha elaborato l’orrore della Shoah a cui il nonno era scampato, come mai ha prodotto tanti racconti per bambini?

«Dopo ogni romanzo scrivo qualcos’altro, commedie, poesie, testi per un’opera, saggi, ma soprattutto fiabe. È un canale aperto con me stesso soprattutto da quando sono nonno di due nipotine, e ho il privilegio di assistere alla creazione di un essere umano, seguire il modo in cui impara a camminare, giocare, vivere nel kibbutz, dire io e dire tu, trovarsi in piccoli incidenti. Ogni esperienza per loro è assoluta e anche se non posso dire di saper entrare nella loro mente, accade che ogni cosa per me sia trasparente. L’incontro della bambina con l’ingiustizia è avvenuto davvero a mia figlia, e ricordo il modo in cui non sapeva esprimere la tristezza. E l’ho sperimentato io stesso, provando un enorme sollievo al momento della risoluzione del problema».

Copertina Grossman

Molti dei suoi romanzi hanno per protagonisti bambini e ragazzi. Cosa rappresentano per lei la sua infanzia e la sua adolescenza?

«Sono state fondamentali. E tuttora sono felice quando incontro qualcuno e colgo il bambino attivo che è in lui, la sua parte più fresca e limpida. Ed è importante anche il bambino che è in me. In tanti miei romanzi è con i ragazzi che vivo l’esperienza. In Vedi alla voce amore è Momik a elaborare la Shoah attraversata dal nonno, perché il bambino non si protegge e fa domande che nessuno porrebbe: Momik affronta la definizione “bestia nazista” usata dagli adulti come un dato di fatto, e invece la scava, la ricostruisce. Nella Grammatica interiore, Aharon attraversava il difficile passaggio dall’infanzia all’adolescenza curandosi in un ospedale immaginario. Ma più cresco e più capisco che la vita è breve, e diventa necessario immergermi anche in altre situazioni che non afferro altrimenti, come in A un cerbiatto somiglia il mio amore e in Caduto fuori dal tempo, devo confrontarmi con la morte».

Cosa significa una fiaba per un bambino?

«Il potere di una storia. Ricordo la forza magnetica per me di una favola, il registro della voce che cambia in chi legge, e rammento come sentir raccontare anche di un cane mi portasse a un altro livello, non realistico, ma nemmeno confuso, sconnesso. Perché ai bambini piace attivare l’organo metafisico dell’immaginazione e superare ogni frontiera mentre il padre o la madre li portano con la parola da qualche altra parte: insieme si prende a volare, ma al tempo stesso si è protetti. Ed è importante perché la loro mente è ancora caotica, non sa bene la differenza tra sogno e realtà: con la fiaba si entra nei loro sogni e li si accompagna, allargando l’esperienza della vita. E poi una storia quasi sempre legittima uno humour che non sempre è usato dagli adulti, un’altra dimensione in cui entrare e sorridere».

È più difficile oggi crescere?

«Sì, è più duro. Quando ero bambino e giovane genitore, i limiti erano più chiari. C’era una gerarchia, con i genitori, gli insegnanti, e più tardi l’esercito. Un centro del mondo chiaro. Forse era un’illusione ma dava stabilità. Ora tutto è saltato. E i bambini avvertono la fragilità degli stessi genitori, che sono bambini anche loro. Mi chiedo come si comporteranno quando avranno trent’anni. Il mondo è così crudele, e tutta questa ferocia arriva sulla tv e sul computer. Difficile proteggere l’innocenza dei figli così esposti alla violenza».

I bambini però oggi sono più rispettati di un tempo, solo che in questo rapporto quasi alla pari è arduo aiutarli a distinguere il giusto dallo sbagliato.

«Sì, l’intuizione di trattarli come persone è stata salutare, ma porre delle frontiere è importante, e il genitore credo debba usare tutta la sua intuizione e capire i limiti che gli stessi bambini chiedono di mettere. Deve essere un gioco delicato, in cui non basta dire di essere un modello morale, ma comportarsi davvero in modo etico. Solo così ti seguiranno, impareranno ad essere delle persone perbene, così come imparano a mettersi le scarpe».

Ma con i modelli violenti o pornografici che arrivano su Internet, come la mettiamo?

«Devi combattere. Internet è uno strumento meraviglioso. Ma quando il bambino vi approda e come se entrasse nella giungla. È un dovere genitoriale proteggerlo, accompagnarlo».

È diverso educare un bambino in Israele?

«Un bambino è un bambino dovunque. Solo più tardi arriva l’ansia per il terrorismo, e si deve insegnargli a evitare i posti pericolosi, sostenerlo quando saprà che un giovane è stato ucciso in guerra. Mostrare la realtà a degli occhi innocenti è pazzesco».

Tutti i grandi autori israeliani scrivono per i bambini. Come mai?

«La nostra tradizione è legata alla narrazione. Padri, madri, nonni raccontano. Ha mai riflettuto sul fatto che l’umanità è l’unica specie in cui i nonni mantengono un rapporto con i nipoti? Questo è un valore universale».

(Susanna Nirenstein, Repubblica 18 novembre 2016)