Un economista dell’Università di Harvard, studioso dei processi di globalizzazione, smonta uno dei più diffusi luoghi comuni in voga nelle classi dirigenti occidentali, che spesso cela il desiderio di ricorrere a soluzioni tecnocratiche.

La governance globale è il mantra delle élite della nostra epoca. Secondo il loro punto di vista, l’ondata di flussi transfrontalieri di beni, servizi, capitali ed informazioni prodotti da innovazione tecnologica e liberalizzazione di mercato ha reso i paesi in tutto il mondo troppo interconnessi, perché un singolo paese sia in grado di risolvere per conto proprio i problemi economici. Abbiamo bisogno di regole globali, accordi globali, istituzioni globali.

Questa posizione è oggi così ampiamente accettata che metterla in dubbio può avere lo stesso effetto che sostenere che il sole gira intorno alla terra. Eppure, ciò che può essere vero per problemi realmente globali come il cambiamento climatico o le pandemie non è vero quando si tratta della maggior parte delle questioni economiche. Contrariamente a quanto spesso si sente, l’economia mondiale non è un bene comune globale. La governance globale può produrre effetti positivi solo in modo limitato – e di tanto in tanto può generare danni.

Ciò che rende, per esempio, il cambiamento climatico un problema che richiede una cooperazione globale è il fatto che il clima del pianeta costituisce sistema unitario. I siti di emissione dei gas serra non costituiscono differenza significativa. Quindi le restrizioni nazionali sulle emissioni di anidride carbonica procurano all’interno del paese benefici scarsi, se non addirittura nulli.

Al contrario, le buone politiche economiche – tra cui l’apertura – comportano benefici in primo luogo per l’economia nazionale, così come il prezzo di cattive politiche è principalmente pagato allo stesso livello. Le fortune economiche dei singoli paesi sono determinate in gran parte da ciò che accade all’interno del paese piuttosto che all’estero. Se l’apertura economica è auspicabile, ciò avviene perché politiche di tal genere vanno nell’interesse stesso di un paese – non perché essa è d’aiuto ad altri. L’apertura e le altre buone politiche che contribuiscono alla stabilità economica di tutto il mondo si fondano sull’interesse interno, non su uno spirito globale.

A volte, si ottengono vantaggi economici nazionali a scapito di altri paesi. Questo è il caso delle cosiddette politiche “a spese degli altri” (“beggar-thy-neighbor”). L’esempio più chiaro si verifica quando un fornitore dominante di una risorsa naturale, come il petrolio, limita l’approvvigionamento sui mercati mondiali per far salire i prezzi. Il guadagno dell’esportatore è rappresentato dalle perdite a carico del resto del mondo.

Un meccanismo simile si trova alla base delle “tariffe ottimali”, per cui un grande paese manipola le sue ragioni di scambio ponendo restrizioni sulle proprie importazioni. In questi casi, vi è un argomento chiaro a favore di regole globali che limitano o vietano l’uso di tali politiche.

Ma la stragrande maggioranza dei problemi del commercio e della finanza mondiali che preoccupano i responsabili politici non sono di questo tipo. Si considerino, ad esempio, i sussidi agricoli europei ed il divieto di organismi geneticamente modificati, l’abuso di norme antidumping negli Stati Uniti, o l’inadeguata protezione dei diritti degli investitori nei paesi in via di sviluppo. Si tratta essenzialmente di politiche “a spese proprie” (“beggar thyself”). I loro costi sono sostenuti prevalentemente a livello nazionale, anche se esse possono produrre effetti dannosi anche per altri.

Ad esempio, gli economisti concordano sul fatto che i sussidi agricoli sono inefficienti e che i benefici per gli agricoltori europei vengono ottenuti in Europa con grandi costi a spese di tutti gli altri, sotto forma di prezzi o di tasse elevate, o di entrambi. Tali politiche vengono disposte non per ricavare vantaggi a scapito di altri paesi, ma perché altri obiettivi nazionali concorrenti – distributivi, amministrativi, o relativi alla salute pubblica – dominano gli intenti dell’intera economia.

Lo stesso vale per le regolamentazioni per fornire accesso bancario ai poveri o le politiche macroeconomiche, che aggravano il ciclo economico e generano instabilità finanziaria. Come ha dimostrato la crisi globale del 2008, le implicazioni oltre i confini di un paese possono essere importanti. Ma l’assenza delle autorità di regolamentazione degli Stati Uniti non ha comportato benefici per la loro economia a scapito del prezzo pagato da tutti gli altri. L’economia degli Stati Uniti è stata tra quelle che ha sofferto di più.

Forse la più grande delusione della politica attuale è costituita dal fallimento dei governi delle democrazie avanzate nell’affrontare le disuguaglianze crescenti. Anche questo ha le sue radici in politiche interne – il controllo delle elite finanziarie ed imprenditoriali sul processo di definizione delle politiche ed i discorsi che hanno fatto girare riguardo ai limiti delle politiche redistributive.

A dire il vero, i paradisi fiscali globali sono un esempio di politiche “a spese degli altri”. Ma paesi potenti, come i membri degli Stati Uniti e dell’Unione Europea avrebbero potuto fare molto di propria iniziativa per limitare l’evasione fiscale – e la corsa al ribasso nella tassazione delle imprese – se ne avessero avuto reale intenzione.

Così i problemi attuali hanno poco a che fare con una mancanza di cooperazione globale. Sono di natura nazionale e non possono essere risolti mediante regolamentazioni da parte di istituzioni internazionali, che sono facilmente sopraffatte dagli stessi interessi che minano le politiche interne. Troppo spesso, la governance globale è un altro modo di definire il perseguimento di un programma globale di questi interessi, che è il motivo per cui si finisce per consolidare soprattutto la globalizzazione armonizzando nel contempo le politiche economiche interne.

Un programma alternativo di governance globale si potrebbe concentrare sul miglioramento del funzionamento delle democrazie a livello nazionale, senza pregiudicare quelli che dovrebbero essere gli esiti della politica. Ciò costituirebbe un miglioramento della democrazia piuttosto che un modello di avanzamento della governance globale.

Quello che ho in mente è la creazione di norme valide a livello internazionale e requisiti procedurali volti a migliorare la qualità delle politiche nazionali. Sono esempi di tali requisiti le discipline globali relative a trasparenza, ampia rappresentanza, responsabilità, ed uso di prove scientifiche o economiche nell’ambito delle procedure nazionali – senza limiti per il risultato finale.

Le istituzioni globali in una certa misura già utilizzano discipline di questo tipo. Ad esempio, il World Trade Organization’s Agreement on Application of Sanitary and Phytosanitary Measures (SPS Agreement), prevede esplicitamente l’uso di prove scientifiche, quando sono in gioco problemi di salute relativi a merci importate. Norme procedurali di questo tipo possono essere usate molto più ampiamente e con maggiore efficacia per migliorare anche i processi decisionali nazionali.

Anche le norme antidumping possono essere migliorate, richiedendo che gli interessi dei consumatori e dei produttori, che potrebbero essere negativamente influenzati da dazi all’importazione, facciano parte dei procedimenti nazionali. I regolamenti di sovvenzione possono essere migliorati facendo ricorso ad analisi costi-benefici che incorporano le potenziali conseguenze per l’efficienza sia statica che dinamica.

I problemi radicati nei fallimenti del sistema decisionale nazionale possono essere risolti solo attraverso il miglioramento della struttura della democrazia. In questo caso, la governance globale può fornire solo contributi molto limitati – e solo se si concentra sul miglioramento del sistema decisionale nazionale, invece di vincolarlo. In caso contrario, l’obiettivo di governance globale può incarnare un desiderio di soluzioni tecnocratiche che possono sostituire e invalidare le pubbliche deliberazioni.

Dani Rodrik/project-syndicate, agosto 2016

*Dani Rodrik è un economista di origine turca ed è professore di Economica Politica Internazionale all’Università di Harvard. È autore di svariati saggi economici, tra cui La globalizzazione intelligente (2011), pubblicato in Italia da Laterza.