Riproponiamo questa intervista, ancora oggi molto attuale, dello scrittore triestino (Premio Fiuggi-Storia 2015) a Pagine ebraiche sulle lezioni e le illusioni della storia del Novecento.

Francoforte, ottobre 2009. Nel giorno in cui la Buchmesse, il massimo momento d’incontro dell’editoria mondiale, chiude i battenti, l’insigne germanista e scrittore Claudio Magris attraversa la piazza dove nel maggio del 1933 i nazisti bruciavano i libri, poi sale i gradini della Paulskirche, il tempio della democrazia tedesca, per accettare il Friedenspreis, primo italiano a ricevere il più prestigioso riconoscimento culturale europeo. Ai mille invitati che assieme al Nobel per la letteratura Herta Mueller lo accolgono calorosamente tocca un discorso d’accettazione del tutto inatteso, l’evocazione di un personaggio inquietante e per molti del tutto sconosciuto.

“A Trieste – esordisce Magris – nei grandi capannoni e cortili di una vecchia caserma abbandonata, si possono vedere, affiancati o sparsi in disordine come carcasse di mostri marini lasciati su una spiaggia dal riflusso di un maremoto, carri armati, sommergibili squarciati, cannoni anticarro, autoblinde, aeroplani dall’ala fracassata; in altri vani si allineano relitti guerreschi più piccoli, gavette sfondate, cornette telefoniche da campo strappate, bossoli, elmetti, manifesti di guerra. Un tempo quello era il regno di un personaggio bizzarro, Diego de Henriquez…”.

Sei anni dopo, all’indomani della pubblicazione della sua più recente e probabilmente della sua più alta prova letteraria, il nostro incontro è ancora a Francoforte e ancora al margine della grande fiera dove l’editoria che conta si dà appuntamento. Il gruppo editoriale Mauri Spagnol, che controlla le edizioni Garzanti, sfoggia con orgoglio questo fresco di stampa Non luogo a procedere in cui Magris dà corpo all’ossessionante ombra del professor De Henriquez per poi prendere liberamente il largo della grande letteratura. Lasciamo ad altre pagine del giornale l’analisi di una prova letteraria di grande forza e di grande significato per il mondo ebraico e per tutti coloro che amano la libertà e la pace, e ascoltiamo il racconto dell’autore.

“La figura di De Henriquez che evocai allora a Francoforte – confessa Magris – mi assillava già al tempo e ha continuato a seguirmi in questi anni. Non luogo a procedere è dichiaratamente ispirato alla vita e al dramma di questo personaggio. Detto questo è però necessario chiarire che ho voluto scrivere un libro di creazione letteraria e di libero pensiero, non la biografia di un personaggio realmente esistito. Sarebbe arbitrario nei confronti di De Henriquez, che ebbe una vita estremamente complessa, e nei confronti di quello che ho scritto”.

Questo personaggio, professore, lei lo incontrò più volte.

Certo, l’ho incontrato. Mi veniva incontro negli ultimi anni della sua vita parlandomi in tedesco di tante sue ossessioni e di tante idee smisurate, del progetto di costruire un museo della guerra per la pace, di teorie scientifiche assai strampalate, della sua ossessione di annotare ogni dettaglio della vita reale. Quei dettagli che oggi si trovano nell’immenso corpus dei suoi diari.

Fu allora che cominciò a suscitare la sua curiosità?

A Trieste non è infrequente incontrare personaggi originali. Ma lui, che si occupava di collezionare armamenti pesanti e altre diavolerie, in realtà mi aiutò a comprendere meglio quello quello che aveva detto Svevo: non c’è nulla di più originale della vita. La vita è così originale che di inventare quasi ti passa la voglia.

Qualche esempio?

I Lager dell’Isola calva (Goli Otok) nell’alto Adriatico. Qui, a pochi passi dal confine italiano, nella Jugoslavia di Tito finirono non solo fascisti ustascia macchiatisi di orrendi crimini durante la Seconda guerra mondiale e alcuni delinquenti comuni, ma anche e soprattutto deportati politici e, quei comunisti, compagni nella lotta di resistenza partigiana contro nazismo e fascismo che, quando Tito nel 1948 ruppe con Stalin, erano rimasti fedeli, per fede nell’idea universale marxista, al comunismo ortodosso. Fra loro anche circa duemila italiani, militanti comunisti che avevano conosciuto le galere fasciste e i campi nazisti, che si erano battuti in Spagna contro Franco ed erano andati con entusiasmo in Jugoslavia per contribuire a edificare il socialismo nel Paese più vicino. In quell’inferno, sottoposti a maltrattamenti e torture, ignorati da tutti, resistettero eroicamente e paradossalmente in nome di Stalin, massimo inventore di Gulag. Quando, dopo alcuni anni, i superstiti furono liberati e tornarono in Italia, vennero tartassati dalla polizia quali pericolosi comunisti provenienti dall’Est e osteggiati dal Pci quali scomodi testimoni della politica stalinista del partito che si voleva dimenticare. Ma il supremo paradosso è che infine trovarono le loro abitazioni occupate dai profughi istriani, a loro volta giunti in Italia per fuggire alla dittatura.

Non è la sola terribile beffa del Novecento. 

No di certo. E incessantemente la realtà mette in guardia la letteratura e travalica la fantasia. Nessuno avrebbe potuto inventare la conferenza di Wannsee e soprattutto chi avesse immaginato la Shoah sarebbe stato probabilmente preso per pazzo. È proprio la Shoah, l’orrore che non può essere assimilato ad alcun altro orrore, il punto più inimmaginabile dove la realtà ci ha condotti.

Eppure, come Non luogo a procedere mette in evidenza, neppure questo è bastato a metterci al riparo dall’odio e dalla guerra.

Proprio questa è la lezione che il Novecento ci ha riservato. La speranza tradita, l’ideale di una nuova umanità che avrebbe posto fine a ogni conflitto sono evidentemente idee destituite di fondamento. Anzi, direi che con lo scorrere del tempo viene a nudo una sempre maggiore mancanza di senso nelle cose. Parliamo di terza, di quarta guerra mondiale, ma non sappiamo più chi combatte contro chi. Assad, è un nostro nemico o un nostro amico? Le ondate di odio e distruzione cui stiamo assistendo, da cosa sono realmente originate? E dove possono condurci? E la filosofia, la letteratura tornano in gioco con i loro segnali inquietanti, dall’ideale dell’Ultrauomo di Nietzsche alle catastrofiche previsioni di Svevo.

È il segno della fine degli ideali, delle speranze? 

Una volta ho accompagnato alle porte di Trieste il grande storico austriaco Adam Wandruszka, in un cimitero militare austroungarico dove è sepolto suo padre, morto sul Carso per difendere i confini dell’Impero. Allora mi ha raccontato che partendo per il fronte il padre aveva lasciato alla moglie incinta il desiderio, se fosse nato un maschio, di dargli il nome del primo uomo. Da quella guerra, diceva con convinzione, sarebbe nato l’uomo nuovo, fraternamente amico di tutti gli altri, perché dopo quella guerra non ce ne sarebbero state mai più altre e il mondo sarebbe divenuto – o ritornato – un paradiso terrestre. Sappiamo tutti quello che è seguito.

E sappiamo che ancora e ancora di nuovo la realtà ha superato agevolmente la fantasia.

Se così non fosse non avremmo l’incubo del ritorno agli orrori del passato. Quello che avvenne cento anni fa con il primo conflitto mondiale portò direttamente alla Seconda guerra. Se la realtà non avesse sopravanzato la fantasia e il delirio hitleriano non avesse concepito il tentativo mostruoso e demenziale di distruggere il popolo ebraico, forse le dittature europee sarebbero rimaste al loro posto molto a lungo. La verità è che il popolo ebraico ha pagato per tutti e a costo di indicibili sofferenze il prezzo della nostra libertà portando da solo il peso della salvezza del mondo.

Si parla continuamente di Memoria, ma cosa dobbiamo davvero trasmettere ai giovani di quello che avvenne?

Dobbiamo dire loro che non si parla mai con chi ti punta il coltello alla gola. Non c’è posto per il pacifismo quando si affronta una minaccia mortale. Che quelli erano stati tempi, come ha spiegato Thomas Mann, in cui tutto era facile proprio perché tutto era difficile.

Che cosa intendeva dire, effettivamente, il massimo rappresentante dell’Altra Germania? 

Mann disse ironicamente che gli anni della durissima opposizione alla dittatura furono i tempi più facili. Perché ogni scelta era chiara e chi voleva stare dalla parte della morale sapeva bene cosa scegliere.

Nei suoi recenti interventi proprio in relazione a Non luogo a procedere ha evocato i nomi di altri grandi personaggi ingiustamente dimenticati, come Elody Oblath, Enrico Rocca ed Ercole Miani.

È vero. Hanno rappresentato in pieno la tragedia di chi è costretto a scegliere fra la verità e la patria. La loro esistenza, il loro tragico destino, il conflitto insanabile fra amore per la patria, amore per la libertà, segno identitario. “Ogni nostra azione – scriveva Rocca, l’ebreo goriziano, forse il germanista più geniale e misconosciuto che ci fu donato e morì suicida nel 1944 di fronte alla vergogna della patria – è un seme di cui non si conosce il frutto”.

È questo il non luogo a procedere, l’enigma ultimo del libro?

Sul territorio della scrittura, per ripercorrere i nostri destini ho cercato di coniugare l’yiddish e il creolo. E in fondo volevo dire che la letteratura non è una parentesi nella vita, ma è una forza che cambia e trascina le esistenze. Può rappresentare la nostra ultima speranza, la nostra ultima possibile via d’uscita, l’unica decisione che ci dà la forza di opporci al male che ci opprime.

Guido Vitale, Pagine Ebraiche, novembre 2015