Il 24 luglio 1911 fu riportata alla luce una delle sette meraviglie del mondo moderno, il sito di Machu Picchu, culla dell’antica civiltà Inca che, tra il 1200 e il 1500, costruì un grande impero nella regione compresa tra Cile, Colombia, Equador e Perù. La sensazionale scoperta, a cui fu dato un grande risalto sulla rivista National Geographic, fu compiuta da Hiram Bingham, esploratore, studioso di antiche civiltà precolombiane e docente di Storia Sudamericana all’Università di Yale.

Con una spedizione organizzata dall’ateneo, Bingham raggiunse la valle dell’Urubamba, a 2.430 metri sul livello del mare, dove fu scoperto il sito archeologico di Machu Picchu: era sicuro di aver trovato le rovine di Vilcabamba, in realtà l’ultima capitale Inca si trovava a Espiritu Pampa, nascosta nella giungla, a poche centinaia di metri dal sito.

Alcuni documenti rinvenuti nel 2008 negli archivi statunitensi e in quelle peruviani, attestano che il vero scopritore di Machu Picchu fu un trafficante e avventuriero tedesco, tale Augusto Berns, che nel 1867 visitò l’antica città e, con il benestare del governo locale, la depredò delle sue ricchezze: oggi gli studiosi puntano a ritrovare i tesori perduti o finiti nelle collezioni private.

Si pensa che la città di Machu Picchu sia stata costruita dall’imperatore Inca Pachacutec, il Rinnovatore del Mondo, intorno al 1440 e sia rimasta abitata fino all’arrivo degli Spagnoli nel 1533. La Gola di Picchu è a metà tra la foresta amazzonica e le Ande e fu insediata da popolazioni montane civilizzate, originarie della Valle Sacra e di Vilcabamba, nella regione di Cuzco, che si spostarono alla ricerca di terre da coltivare. Gli Inca, che regnarono dal 1438 alla fine del 1533, erano una casta di dominatori che seppero creare la più grande configurazione politica dell’America Meridionale grazie a una struttura sociale perfettamente organizzata e ad una straordinaria rete di strade, acquedotti, terrazzamenti, sotto la sovranità delle grandiose città-castello. La potenza dell’impero poggiava sul lavoro e sull’unione di popoli anche molto diversi tra loro per lingua e stile di vita, comunque uniti a formare una civiltà uniforme. L’impero si dissolse con l’uccisione dell’ultimo imperatore, Atahuallpa, da parte dei conquistadores spagnoli guidati da Francisco Pizarro. Si ebbe un residuo di resistenza concentrato nella fortezza di Vilcabamba alimentato da quattro re, Manco Inca, Sayri Tupac, Titu Cusi Yupanqui e Tupac Amaru. Uno sforzo disperato protratto fino al 1572, quando gli invasori li schiacciarono. Resta ancora un mistero come abbiano fatto un pugno di uomini, non erano neanche duecento, con quaranta cavalli e qualche cannone, a sottomettere i guerrieri Inca. Probabilmente, fu fatale la guerra civile che scoppiò tra i due fratelli Huascar e Atahuallpa per il dominio del regno, che innescò un processo di frantumazione che agevolò le azioni di Pizarro.

Le imprese del popolo Inca, la sua vita e la sua cultura ci sono giunte attraverso narrazioni indirette, curate dai cronisti della conquista spagnola. Tuttavia le prove tangibili si hanno nei reperti archeologici, che vanno dalle ceramiche ai dipinti murali, dalle sculture all’architettura e alle opere viarie, un patrimonio straordinario che testimonia la grandezza raggiunta dagli Inca.

La nascita della civiltà perduta degli Inca è avvolta nel mistero e nella leggenda. Si fa risalire la sua origine a Manco Capac e Mama Ocllo, figli del Sole. Oppure a quattro fratelli e alle loro consorti che si misero in viaggio per costruire un regno: Manco Capac si impose sugli altri e costruì Cuzco per volontà divina. Al di là dei miti, Manco Apac quindi diventa il capostipite della prima dinastia regnante dell’Impero Inca, le cui gesta si tramandano nella tradizione orale.

Oggi, restano soltanto rovine da ammirare, a documentare l’immensa cultura di cui furono gli artefici. Cultura che è ben radicata nell’animo andino, al punto che ancora nella nostra epoca idealizzano la rinascita dell’unione incaica, sotto un influsso magico che solo l’archeologia sa nutrire.

(Nadia Loreti, 24 luglio 2016)