La critica letteraria Angela Guiso ricorda l’opera dello scrittore cagliaritano scomparso tragicamente il 6 settembre 1995 nelle acque di Carloforte. La cura puntigliosa della parola lo pone sulla scia di Carlo Emilio Gadda, del quale condivide la varietas linguistica nella nominazione delle cose.

Il bisogno c’è: di ricordare chi, se in vita, oggi sarebbe fra i primi nella top ten. Per la lingua: attuale. Per le immagini: originali. Più semplicemente: Sergio Atzeni. E Cagliari. E la Sardegna. E i Sardi. Dentro il grande mare dell’eterna creazione fantastica.

Se sardo lo è stato per nascita – era nato a Capoterra nel 1952 – e per alcune scelte di scrittura, la sardità non può essere, tuttavia, la misura entro la quale costringere lo scrittore Sergio Atzeni, piuttosto figlio di una concezione letteraria che ha i suoi confini nella più vasta letteratura italiana e mondiale. D’altra parte la sua stessa esperienza di vita abbraccia orizzonti più ampi di quelli dell’insularità.

Dopo aver vissuto prevalentemente a Cagliari, nel 1987 passa il mare, viaggia per l’Europa, quindi si stabilisce a Torino, dove risiede fino alla fine. Come scrisse nell’articolo Nazione e narrazione (L’Unione Sarda, 9 novembre 1994) egli si sentiva sardo, italiano ed europeo, e queste culture, in lui strettamente intrecciate, erano avvertite come ugualmente necessarie.

Sebbene autore di numerose opere, considerata la sua giovane età al momento della morte, avvenuta il 6 settembre del 1995 nel mare di Carloforte, è facile dire che, se fosse vissuto più a lungo, avrebbe dato frutti ancora più maturi e soluzioni di maggiore pregio alla cultura isolana. Di fatto, la sua esperienza scrittoria spazia in un vasto ambito, compresa l’attività giornalistica fino alla traduzione di opere composite, passando per la poesia, oggi raccolta nel volume Versus (2008). È possibile, nondimeno, affermare che gli scritti giornalistici abbiano quasi costituito la premessa del futuro impegno letterario e influenzato alcune caratteristiche del suo stile inconfondibile, così come, secondo una sua affermazione, l’esercizio di traduttore lo ha reso lettore avvertito delle tecniche di narrazione.

Partendo dalle radici letterarie, e I sogni della città bianca lo sono così come i Racconti con colonna sonora, si comprendono scelte successive fino al mantenimento di una cifra stilistica che, ora attenuata ora accentuata, si conferma negli anni della maturità.

La cura puntigliosa della parola lo pone sulla scia del grande maestro Carlo Emilio Gadda, del quale condivide la varietas linguistica nella nominazione delle cose, tutte egualmente degne di rappresentazione letteraria. In quest’ambito si giustifica la mimesi della lingua parlata accosto all’italiano. A questo proposito egli espone le sue idee in Un’americana a Napoli (l’Unione Sarda, 16 giugno 1995) dove ipotizza un meticciato linguistico, soluzione già presente nella lingua che ama di più e infatti: «per quanto riguarda la varietà che amo di più e che so parlare, il cagliaritano, mi dispiace che si perda perché è idioma straordinariamente ricco, adatto all’insulto, all’invettiva, al racconto buffo, ed è anche la fonte di quell’italiano bislacco parlato a Cagliari, mescolando parole, costrutti linguistici». (La scrittura, la lingua e il dubbio sulla verità – Intervista a Sergio Atzeni, «La grotta della vipera», a. XX, n. 66/67, 1994, p.37) Da qui nascono opere importanti come Il figlio di Bakunìn fino a Bellas mariposas.

Vicino, anche, alle soluzioni linguistiche e strutturali di grandi epigoni gaddiani come Vincenzo Consolo nel riprodurre, Consolo la Sicilia e le sue classi sociali con Il ritratto d’ignoto marinaio, Atzeni la Sardegna e l’epica di Passavamo sulla terra leggeri in un procedere à rebours alla ricerca della Storia.

Fin dai racconti Atzeni fa le prove di quella prassi del frammento che costituisce il tratto della sua narrativa comprese le opere di articolazione complessa. In luogo delle riflessioni all’arsenico di altri che della frammentarietà hanno fatto la loro professione di fede, il discorso di Atzeni si articola per immagini, piccoli o grandi quadri che si aprono davanti agli occhi del lettore: eventi minimi o vicende epiche.

La domanda pare allora doverosa: quale ragione l’ha indotto a questa scelta? La risposta l’ha data indirettamente lui stesso quando ha ricordato la fatica dello scrivere, la lentezza dell’elaborazione. «Lavoro di notte, scrivo di notte, con grande fatica e con una lentezza che ha qualcosa di spaventoso […] Ho impiegato due anni per fare un racconto di cento pagine ed è stato il mio record di velocità» (Il mestiere dello scrittore in Sì…Otto, 1991).

Dietro, una concezione della vita pensata come «divergenza e disgiunzione» se è vero che «il divenire è un decorso di tagli, di interruzioni, e di differenze.» (Celati: Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, 2001, p. 204.).

E di «divergenza» e «disgiunzione» lo scrittore si è occupato a partire dalla decisione di porre al centro della sua narrazione la città di Cagliari, fino ad allora negletta dagli scrittori sardi, e la varia umanità che vive anche nei cunicoli dei suoi quartieri periferici o vicino al mare tanto amato.

«Devo dire la verità: raccontare Cagliari è stato uno dei motivi che mi ha spinto a cercare di scrivere racconti. Avevo notato che nei giornali, in televisione, quando si prendevano descrizioni di Cagliari, o di alcune zone di provincia, si finiva sempre per citare autori non sardi, come se non ci fosse una descrizione di Cagliari o del Campidano nella nostra letteratura. C’è molto di più sulla Barbagia, mentre sul Sud c’è pochissimo. Mi ha fatto pensare a scrivere un racconto dove ci fosse qualche riga che descrivesse la città non dal punto di vista esterno, di chi viene in visita, ma dal punto di vista interno, di chi ci abita» (La scrittura, la lingua, cit, p. 38).

Dunque la città è da una parte movente di narrazione, dall’altra ribalta delle azioni di numerosi attori protagonisti e comparse; il mare, ugualmente, è sostrato immanente del suo immaginario di cui nutre molti racconti e i romanzi, da Il quinto passo è l’addio, dove è mezzo che allontana dalla terra madre ma prepara all’avvenire, a Passavamo sulla terra leggeri.

Ma è sempre e solo Cagliari il serbatoio di immagini e parole al quale Atzeni attinge? Anche qui soccorre l’intervista presente in otto. «Cerco di raccontare la Sardegna: sono convinto che ogni popolo abbia diritto di avere i suoi scrittori, quelli grandi e quelli piccoli […] Faccio del mio meglio: mi cerco le storie, non le invento» e quando parla dell’Apologo del giudice bandito afferma «Anche il processo alla cavalletta è vero, l’ho trovato in un libro di storia sarda, mi è piaciuto molto e allora ho pensato: proviamo a raccontarlo.» Per Il figlio di Bakunìn ribadisce «i fatti narrati ne Il figlio di Bakunìn sono, da un certo punto di vista, realmente accaduti, per quanto non sia possibile riconoscere nel romanzo i singoli personaggi».

Con questi presupposti le soluzioni non possono che essere molteplici: dai racconti fino a importanti opere postume, tra loro diversissime, come Passavamo sulla terra leggeri e Bellas mariposas. La prima mito di fondazione di una stirpe e, insieme, romanzo di formazione nella duplice valenza del narrare la progressiva coscienza di un popolo e dell’educare un bambino al mestiere di custode del tempo. La seconda, occasione di contaminazione linguistica.

Qui, più che in altri momenti, la lingua italiana viene deformata e arricchita grazie all’innesto del gergo della periferia cagliaritana, e testimonia la vitalità di questa variante del sardo e la sua versatilità. Al centro della dura prosa di vite al limite, il racconto di una poesia possibile.

Ma anche questi esempi dicono solo in parte la varia letteratura dello scrittore. I suoi interessi musicali, fra gli altri, lo inducono a piegare la sintassi e i contenuti del narrare a ritmi sonori differenti, mentre il fantastico alimenta gran parte delle sue opere di svariate metamorfosi.

Perfino esseri zoomorfi sono allora presenti nella narrazione che esclude programmaticamente l’esaltazione degli eroi perché dentro le letterature adulte si possono ben celebrare anche i vizi e non solo le virtù. Dietro tante scelte si riconosce l’influsso della letteratura sudamericana oltre che del realismo magico di Massimo Bontempelli fino a Tommaso Landolfi. Ma con gli italiani e Borges, Vargas Llosa e il russo Bulgakov c’è anche Carroll, in particolare nel racconto L’orso e la faina dove un Alice maschio viene catapultato dalla sua curiositas nei sotterranei cagliaritani, riedizione – variante del labirinto borgesiano.

Anche qui, in filigrana, c’è ancora la Sardegna, un’altra Sardegna, ennesima occasione di scrittura riaffermata in un nuovo articolo giornalistico. «La Sardegna è un sogno degli europei, l’Europa è un sogno dei sardi; i confini fra realtà e fantasia sono labili, la soglia è sparita.» (“Anche la Sardegna negli incubi di Peter Handke”, L’Unione Sarda, 21 ottobre 1988). Una narrazione oltre la soglia, dunque, il limite che Atzeni ha valicato tante volte alla ricerca dell’innovazione e nel rispetto della propria identità.

Angela Guiso*, com.unica/Unione Sarda** 10 settembre 2020

*Angela Guiso, critica letteraria, saggista e pubblicista, membro AATI, è autrice di numerosi saggi e monografie, fra gli altri su Gadda, Deledda, Primo Levi, Consolo, Giacobbe, Del Giudice e Salvatore Satta, di cui due tradotti in inglese. Le sue pubblicazioni più recenti sono l’epistolario inedito di Salvatore Satta,  Mia indissolubile compagna (Ilisso 2017) e Un grido nella notte e Il vecchio Moisè: un vecchio racconta (Atti ISRE-Aipsa, 2020). Insignita della Targa speciale “Saggista deleddiana” al Premio Nazionale Alghero Donna 2006, già giurata del I Certame Deleddiano e Presidente della giuria del Premio Nazionale “Salvatore Cambosu” nel 2016.

**L’articolo è già stato pubblicato sul quotidiano L’Unione Sarda