[ACCADDE OGGI]

Il 1° ottobre 1959 moriva a Torre del Greco, nella villa alle falde del Vesuvio dove a suo dire trovò rifugio, un rifugio tanto amato che lo portò a far incidere sull’ingresso della casa “Inveni Portum” – ho trovato il porto -, Enrico De Nicola, il grande giurista napoletano che da monarchico divenne il 1° Presidente della Repubblica Italiana. Non sappiamo quanto riferimento vi fosse in quel finalmente “ho trovato il porto” alla sua personale vicenda politica che lo vide imbattersi tra i flutti agitati e a volte tempestosi dell’Italia post unitaria, fascista e repubblicana. Di certo sappiamo che Enrico De Nicola fin dall’epoca in cui occupava il posto di redattore insieme all’amico Carlo Nazzaro del quotidiano napoletano della sera “Don Marzio” era un liberale seguace del padre della destra liberale Giovanni Giolitti e come lui credeva che “le leggi devono tener conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un paese”. E con Giolitti fu varie volte deputato ricoprendo anche incarichi di governo. Sfiorò la poltrona di Presidente del Consiglio dopo avervi rinunciato in favore di Bonomi quando a quest’ultimo subentrò Luigi Facta il “giolittiano sbiadito”. Fu De Nicola, divenuto Presidente della Camera dei Deputati, a dare la parola a Benito Mussolini quando questi pronunciò il suo primo discorso da capo del governo nel quale sentenziò la celebre frase “Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto!”.

Come tutti i liberali giolittiani e al pari della gran parte dei deputati popolari e dei rappresentanti della Destra di Antonio Salandra, De Nicola appoggiò e votò a favore della “Legge Acerbo” (la legge tornata di grande attualità nel dibattito politico di oggi con l’approvazione del cosiddetto “Italicum” che come qualcuno sostiene è peggiore della stessa legge Acerbo in quanto pur ugualmente assegnando un grosso premio di maggioranza al partito che incassa più voti non garantisce le opposizioni perché contrariamente alla “Acerbo” introduce le soglie di sbarramento). In conseguenza, Enrico De Nicola si presentò candidato nella sua Napoli nel listone fascista per il rinnovo della Camera dei Deputati ma anche se eletto si rifiutò di prestare giuramento e la sua elezione non venne ratificata.

Iniziò così la sua vita da “appartato” negli anni del ventennio fascista con l’unico interesse per le aule dei Tribunali e con il pensiero sempre rivolto al suo Re che nel 1929 lo nominò senatore. Ma il suo Re lo tradì quando scappò a Brindisi dopo l’armistizio di Cassibile e ciononostante egli pur sempre monarchico cercò insieme a Benedetto Croce il modo migliore per salvare l’istituzione monarchica. Per questo si recò a colloquio con Vittorio Emanuele III, un colloquio che tutti riportano come assai burrascoso, e costrinse il Re ad abdicare in favore dell’erede Umberto. Ma come sappiamo il vento, soprattutto quello del Nord, soffiava a favore della Repubblica e Repubblica fu con il referendum istituzionale del 1946. Ma la nuova Repubblica avvertiva l’esigenza di non strappare ulteriormente il tessuto sociale e culturale del paese distrutto dalla guerra e dalla lotta fratricida. Ci voleva l’Uomo simbolo di una unità sperabilmente da raggiungere. Per questo ci voleva un meridionale, un vecchio galantuomo, un monarchico per convinzione e l’abito diplomaticamente anche se faticosamente cucito da De Gasperi calzava a pennello sulle spalle di Enrico De Nicola che il 28 giugno 1946 venne eletto Capo Provvisorio dello Stato e poi, il 1º gennaio 1948, primo Presidente della Repubblica Italiana.

Nel suo discorso di insediamento si rivolse agli italiani, ma non solo agli italiani, con queste parole “La grandezza morale di un popolo si misura dal coraggio con cui esso subisce le avversità della sorte, sopporta le sventure, affronta i pericoli, trasforma gli ostacoli in alimento di propositi e di azione, va incontro al suo incerto avvenire. … l’Italia – rigenerata dai dolori e fortificata dai sacrifici – riprenderà il suo cammino di ordinato progresso nel mondo, perché il suo genio è immortale. Ogni umiliazione inflitta al suo onore, alla sua indipendenza, alla sua unità provocherebbe non il crollo di una Nazione, ma il tramonto di una civiltà: se ne ricordino coloro che sono oggi gli arbitri dei suoi destini”. Ma in tanti non vollero capire quelle parole e Enrico De Nicola in preda ad una crisi di collera buttò per aria le carte del Trattato di pace fra l’Italia e le potenze alleate che assolutamente non condivideva. Firmò solo quando scansato scaramanticamente il venerdì gli fu assicurato che la sua firma non era una ratifica ma solo la necessaria trasmissione degli atti agli organi preposti a deliberarvi. Difficile sostenere che il fine giurista credette a quella scappatoia, più facile ritenere che fu quello l’avvio per la strada verso il ritiro in quel porto di pace nel quale il 1 ottobre 1959 lasciò definitivamente il mare agitato della vita.

(Franco Seccia, com.unica 1 ottobre 2020)