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Sono nata il ventuno a primavera ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenare tempesta. …”. Ma a quale follia si riferisce Alda Merini, fuor di dubbio la voce più alta della poesia contemporanea italiana, nata a Milano il 21 marzo 1931 e morta nella sua città il 1º novembre 2009? Si tratta del disturbo bipolare la malattia che colpì Alda Merini quando aveva sedici anni, l’età che maggiormente si presta, secondo la scienza psichiatrica, a ricevere questo infame male. È il morbo che si manifesta con frequenti sintomi di un forte stato di euforia contrapposto a una improvvisa depressione, con una straordinaria autostima e una smania di grandiosità alimentata dalla fuga delle idee, dalla fluidità delle parole senza controllo e la spasmodica necessità di cercare l’amore senza freni e inibizioni. Lo stesso male che colpì Charles Baudelaire, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, George Gordon Byron, August Strindberg e Virginia Woolf, tutti artisti-geni descritti da Kant “per la felice sintesi di immaginazione e intelletto, di spontaneità e regole non scritte, per cui l’artista gode di un’assoluta libertà creativa dove l’intelletto è presente ma non più come costrizione razionale”.

Inizialmente la Merini non accettò di essere reclusa in un manicomio e scrisse: “Nelle malattie mentali la parte primitiva del nostro essere, la parte strisciante, preistorica, viene a galla e così ci troviamo a essere rettili, mammiferi, pesci, ma non più esseri umani. Così la mia bellezza si era inghirlandata di follia, ed ora ero Ofelia, perennemente innamorata del vuoto e del silenzio, Ofelia bella che amava e rifiutava Amleto”. Poi rifiuterà il mondo di fuori, quella società da cui si sentiva rifiutata e anche la famiglia da cui si sentiva distante e rinnegata. “Il vero inferno è fuori, qui a contatto degli altri, che ti giudicano, ti criticano e non ti amano”; aspetterà ogni giorno il marito che non arrivava: “Ti aspetto e ogni giorno mi spengo poco per volta e ho dimenticato il tuo volto. Mi chiedono se la mia disperazione sia pari alla tua assenza no, è qualcosa di più: è un gesto di morte fissa che non ti so regalare”.

La società si accorgerà di lei dopo la morte del marito quando tra innumerevoli difficoltà e “la generale ottusa indifferenza” sarà dato alle stampe “La Terra Santa”, una raccolta di poesie nelle quali la poetessa racconta il proprio dramma di donna malata e reclusa “Ho conosciuto Gerico, ho avuto anch’io la mia Palestina, le mura del manicomio”. Il mondo si aprirà alla conoscenza di questa gigante della poesia contemporanea e fioccheranno i riconoscimenti e le lusinghe persino con lo sfioramento del Premio Nobel. Lei resterà se stessa, mai lontana dalle sigarette, con un carattere non facile alternando momenti di entusiasmo a scatti di ira depressiva, lotterà per mantenere la casa che comunque le sarà tolta e in maniera audace e irriverente chiederà in regalo per il suo settantatreesimo compleanno “un uomo caldo”.

“Era una persona straordinaria – commenterà il giorno della morte di Alda Merini, Tiziana Maiolo assessore alle politiche sociali del Comune di Milano – io l’ho seguita per anni anche se non era facile fare qualcosa per lei perché non si capiva mai cosa voleva”. Ecco cosa voleva, il suo desiderio più grande: “Vincere il Nobel… e avere una laurea, così potrei avere una scrivania … anche se i miei versi più belli mi son venuti mentre lavavo i piatti o scopavo il pavimento...”.

(Franco Seccia/com.unica, 21 marzo 2019)