Il senatore e giornalista a La Stampa: vorrei fare un’inchiesta sui “grandi perché” della storia e abolire i talk show.

Un altro documentario, almeno uno. «Vorrei aggiungere ancora un’inchiesta, un capitolo finale per quelle che ho fatto», confessa Sergio Zavoli, regalando con gli occhi chiari l’ennesimo lampo di luce che colora il tono di voce pacato. È una idea su cui ragiona da tempo. «Mi piacerebbe intitolarla “Perché?” e affrontare i grandi “perché?” dell’umanità – racconta il decano dei giornalisti nazionali -, a cominciare, magari, da Dostoevskij quando dice “i bambini non devono soffrire!”». Si immagina «in giro per il mondo a studiare gli interrogativi più pesanti dell’umanità», la vita, la pace, la guerra e la religione, nata quest’ultima «per una sola parola, “amore”, che non ha impedito migliaia di guerre disastrose». La riflessione si approfondisce con l’ennesimo quesito: «Come conciliare questa idea dell’amore con la testimonianza quotidiana del contrario, così accanita e necessaria per l’uomo che non sa fare a meno della violenza?».

«Come?» e «perché?», si interroga Zavoli, architetto della migliore tv pubblica e socio indiscusso del club dei padri dell’inchiesta, televisiva e no. A novantatré anni, l’uomo del «Processo alla tappa», il «socialista di Dio», il narratore per immagini e parole della metamorfosi sociale e politica del Paese, continua a porsi domande e pesca nel passato per sostenere un ostinato guardare avanti. L’occasione la offre lo sbarco su Raistoria di «Gli occhi cambiano», serie di sei documentari davvero «classici» (rivedibili su Raiplay) girati con passione da Walter Veltroni, che ha offerto all’ex presidente Rai il rango di testimone e protagonista. Si dovrebbe parlare solo di tv, ma con Zavoli si finisce sempre per ragionare di altro, di notizie e formati, di etica e giovani, di Roma e di Trump. E dei talk show che generano nel giornalista una palese sensazione di fastidio.

Presidente, viviamo l’era della Post-Verità, parola dell’anno, malessere del secolo. Come possiamo proteggerci?

«Con un po’ di normalità e semplicità, tornando alla regola greca, mitica, della ricerca della verità. E’ una via che non può essere indicata da uno come Trump, un cialtrone che ha successo perché è molto più suggestivo di chi si presenta assennato e prudente. Bisogna stare attenti perché tira una brutta aria».

Una brutta aria?

«Perché quando i bambini ebrei furono cacciati dalle scuole nessuno si oppose o quasi? Perché prima, con le false verità, si era affermata la tesi che fossero pericolosi. Le false verità preparano il terreno su cui compiere le azioni più tremende».

Qual è la risposta? Cosa può fare la tv?

«Se la televisione vuole penetrare la verità deve affidarsi all’inchiesta, genere in cui – quando decide di fare le cose per bene – è imbattibile».

Oggi si offrono più talk show che inchieste.

«Lo dico come paradosso, ma penso che il talk show, inaugurato al meglio da Santoro, andrebbe abolito per legge. Trovo infondata l’interpretazione secondo cui il pluralismo consiste nell’affidarsi al parere di più persone che dibattono. Andare a cercare chi ha per vocazione la rissa, o una competizione verbosa e animosa, produce spettacolo, non informazione».

Consigli per i naviganti dell’inchiesta?

«Abbiamo avuto tempi che non esistono più. Salvo eccezioni, oggi si è vincolati ai pochi minuti del telegiornale. E’ importante lo sguardo, i dettagli. Quando ho fatto “Clausura”, non ha avuto successo tanto per quello che raccontavano le suore, quanto per le pause che ho messo in mezzo alle cose che dicevano. Mi ero accorto che non arrivava quasi nulla del loro pensiero. Era tutto così difficile e virtuoso che volava via. Chiesi al fonico di registrare una mezzoretta di silenzio. Volevo proprio la risonanza del monastero. Fra una voce e l’altra ho montato quelle piccole pause. Servivano a far respirare, a far capire ciò che si diceva. Pensate che razza di preoccupazione, neanche uno psicologo…».

È cambiato l’approccio. E le esigenze del pubblico.

«Prendiamo i programmi pomeridiani della tv. Tutto tende a diventare intrattenimento, anche i fatti. La realtà viene trasfigurata, deturpata e trasformata in dolorismo. Certo gli effetti sono positivi per l’Auditel, tuttavia non condivido l’approccio. Non si può coltivare l’idea di raccontare tutti i giorni una cosa dolorosa, poi scavarvi dentro perché sia sempre più dolorosa e piaccia a un pubblico che è molto attratto dal dolore».

Dolore e post verità si affermano. Preoccupato?

«E’ una tendenza paurosa. McLuhan sosteneva che per effetto della tv siamo tutti in condizione di essere protagonisti e testimoni del medesimo evento. Non è vero. Tutto è frutto d’una interpretazione personale, se non faziosa. Il risultato finale non è altro che segmenti di verità e realtà».

Come vede il futuro dell’informazione sulla tv pubblica?

«Occorre “una strategia della distinzione”. Azzardo un’ipotesi. Pensiamo a un Tg che si impegni soprattutto sulle notizie nostre e del mondo, e un altro sullo stesso metro che indaghi su tendenze, scoperte, politiche e costumi. Trascurando il dovuto, non si ridurrebbero gli eccessi? Non sono troppi due Tg, di seguito e su due canali, con interessi analoghi? Potremmo affidare al terzo Tg la grande crescita culturale in atto a livello globale?».

Tre Tg sono l’eredità del pluralismo Anni Settanta.

«Quando assunsi la presidenza della Rai dissi al cda: “Stiamo attenti a ciò che facciamo, perché la somma di tante faziosità non è il pluralismo”. Abbiamo ricominciato da capo per creare un pluralismo non più verticale, ma orizzontale. All’interno delle redazioni dovevano esserci tutti, dire ciascuno la sua. Era un modo di interpretare il massimo della verità permessa da un mestiere di una vaghezza straordinaria».

Nei documentari Anni Sessanta si sente un gran bell’italiano. Oggi no. Com’è successo?

«È cambiato il mondo. I giovani parlano male? Non parlano, i giovani. Il telefonino ha distrutto un linguaggio e ne ha creato un altro. Non c’è più il “parlarsi”, c’è la comunicazione frettolosa, spesso interrotta. Non è fatta per approfondire: c’è un esigenza di velocità, le relazioni sono ridotte. I ragazzi sono premiati dai loro “attimini” che minimizzano lo sforzo per capire e fare. Mi torna in mente un’intervista fatta a don Di Liegro, il presidente della Caritas romana».

Cosa disse?

«Alla domanda “qual è il valore che è più decaduto di tutti nei nostri tempi?”, rispose “la relazione”. Non abbiamo più nessuno rapporto vero, profondo, sincero, innocente. Lo ha sostituito uno schema di legami interessati, egoistici, maliziosi, artefatti. Fece un esame sbalorditivo, detto poi da un sacerdote, uno che avrebbe l’obbligo dell’ottimismo».

Parliamo di Roma, ora in piena tempesta politica. Se dovesse farci un documentario, dove comincerebbe?

«Mi piacerebbe, come metafora, seguire dei gruppi di turisti stranieri che vanno in cerca della metropolitana perché sono convinti di poter trovare la vera Roma sottoterra. Si creano degli stati d’animo curiosi. Quando Federico Fellini ha girato “Roma” ha fatto questo. Cominciando dalla scuola, con la scolaresca che arriva nella capitale. Si vede la gente che cambia, si vedono le viscere di Roma. Perché Roma, da sempre, è le sue viscere».

(Marco Zatterin, LA STAMPA 18 febbraio 2017)