Nel 1979, in Cina, fu lanciata la politica del figlio unico, con lo scopo di controllare le nascite, fermare l’incremento demografico, contribuire allo sviluppo del Paese e far uscire dalla povertà centinaia di milioni di persone negli ultimi trent’anni. La politica del figlio unico in realtà ha prodotto danni collaterali enormi: innanzitutto ha provocato uno squilibrio di genere, perché c’è stata una propensione a favorire un figlio maschio, arrivando ad uccidere le figlie femmine, a venderle, a praticare aborti selettivi. Da parte dell’autorità, l’obbligo di un solo figlio portava ad usare come mezzi di controllo gli aborti forzati, i pestaggi, la perdita del posto di lavoro, l’incarcerazione dei genitori che osavano sfidare la legge. Sono stati denunciati casi di perdita del diritto all’istruzione e alle cure sanitarie per i secondi e terzi figli. Naturalmente tra le conseguenze l’aumento degli abitanti di sesso maschile, che ha portato quasi trenta milioni di giovani uomini a non potersi sposare perché non c’erano le donne, nonché tra i danni maggiori, il rapido invecchiamento della popolazione. Ad incidere sul tessuto sociale c’è stato anche la progressiva riduzione della manodopera e gli squilibri che hanno travolto la “famiglia”, pilastro della società cinese. Si stima che oggi il 40% delle famiglie, circa centossessanta milioni, siano composte da due persone. Questo dato, insieme ai 400 milioni di aborti e ai 196 milioni di sterilizzazioni effettuati dal 1980, porta come risultato che la Cina nel 2050 avrà la popolazione più anziana della Terra.

Nell’ottobre 2015 ci fu un’inversione di tendenza e dopo 35 anni la legge che obbligava il figlio unico fu messa da parte, il governo si pronunciò a favore di un’apertura verso i due figli per coppia, introducendo sussidi e premi per le nascite. Tuttavia esiste una certa titubanza a mettere al mondo il secondo figlio, perché le difficoltà economiche sono tante e coinvolgono non solo la classe meno abbiente ma anche le famiglie più benestanti. Il governo ha deciso di aiutare le famiglie in difficoltà, perché la crescita demografica significa crescita economica, significa alimentare un mercato interno che utilizzi e consumi i beni e i servizi prodotti in quantità elevata. Ma i risultati auspicati non sono stati raggiunti. La stampa invita i giovani a sposarsi e a fare figli già all’università, quando si è giovani e forti. L’aspettativa per maternità è stata portata a 98 giorni, l’aborto è stato scoraggiato, eppure moltissime giovani coppie non sono in grado di gestire un altro figlio per timore della povertà. Il capitalismo emergente si scontra con problemi sociali importanti, quale la forza lavoro femminile: c’è una difficoltà in aumento ad assumere donne e il 55% di esse, durante i colloqui di lavoro si sentono chiedere se hanno intenzione di avere figli; a questo si aggiunge il forte divario, nella retribuzione, tra uomini e donne, mentre è assolutamente di tendenza diversa nelle economie emergenti degli altri paesi asiatici.

Una grande sfida per il governo di Pechino, che deve fare i conti con la famiglia che si restringe, una classe media non investita dall’aumento demografico, il traffico del sesso dai Paesi vicini come Vietnam, Corea del Nord e Cambogia, problemi di salute pubblica, riduzione della forza lavoro e conseguente deficit pensionistico, tasso di criminalità in aumento in alcune aree. La politica radicale del figlio unico, frutto di un puro calcolo per rendere attuabile il progetto di sviluppo economico lanciato da Deng Xiao Ping, ha prodotto in realtà, dopo 50 anni di propaganda e terrore, un crollo del tasso di natalità, che equivarrà a frenare la crescita della Cina, oggi uno dei maggiori Paesi manifatturieri della Terra.

Nadia Loreti, com.unica 16gennaio 2019