Una delle ultime interviste al grande scrittore americano, rilasciata pochi giorni fa alla curatrice del Meridiano Mondadori a lui dedicato (“La Stampa“).

Sole splendente, cielo azzurro terso e vento sferzante: cammino per le strade dell’Upper West Side di Manhattan verso l’appuntamento con Philip Roth. A pochi mesi dall’uscita del primo Meridiano Mondadori dedicato alla sua opera da me curato, sto per incontrarlo nel suo appartamento. Entrando, sono inondata dalla luce dell’ampio luminosissimo soggiorno, con finestre-balcone estese per gran parte della parete di fronte, aperte allo spettacolo della città. Roth indossa una camicia color carta da zucchero e pantaloni di lana marrone chiara. Accanto a noi, in questo ambiente splendente di luce, un tavolino su cui sono appoggiati molti libri.  

Senza molti preamboli, la conversazione inizia spaziando dai ricordi famigliari all’Italia conosciuta da giovane, dagli incontri con altri scrittori alle riflessioni sui suoi libri, con scoperte talvolta sorprendenti. È un Roth accogliente e in gran forma. «Sono felice», ammette con tutta semplicità, quando gli chiedo come si senta, ora che ha appena pubblicato in America una sua nuova splendida raccolta di saggi (Why Write?, 2017) e sono da poco usciti, in contemporanea, in Italia e in Francia, i primi volumi dedicati al complesso della sua opera narrativa da parte delle due più prestigiose collane letterarie di questi due Paesi, i Meridiani Mondadori e La Pléiade di Gallimard.  

Perché nella raccolta di saggi ha deciso di collocare il suo testo del 1973, «“Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno”, ovvero, guardando Kafka», come primo pezzo della raccolta?  

«Innanzitutto, è un testo che mi piace così tanto. È come se mi fosse arrivato in dono. Insegnavo all’Università della Pennsylvania all’inizio degli Anni 70, tenevo un corso su Kafka, e avevo una classe meravigliosa, con studenti così brillanti. Dunque stavo per scrivere questo testo biografico su Kafka per la classe. E poi, mentre lo scrivevo, mi è venuta questa idea di immaginare che Kafka, rifugiatosi in America, fosse divenuto il mio insegnante di scuola ebraica. Perché io andavo alla Hebrew School dopo la scuola. La odiavo, ma sono contento di averlo fatto. Gli insegnanti, alcuni di loro, erano dei profughi. È lì che mi è venuta l’idea, perché avevamo questi profughi, queste povere persone tormentate. Tutti noi ragazzi ebrei eravamo perfetti nella scuola normale e dei birichini alla Hebrew School». 

Come lei dice nella prefazione al volume, quel primo testo è un misto tra saggio e racconto, una «hybrid essay-story». È anche un modo per iniziare la sua raccolta di saggi ricordandoci che è uno scrittore di fiction, sottolineando la qualità ibrida di questo testo?  

«Sì, e il libro finisce anche in questo modo. L’ultimo pezzo termina con quel lungo brano tratto da I l teatro di Sabbath». 

Così ha creato una cornice. E al contempo sottolinea l’importanza che Kafka ha avuto per lei. È così?  

«Beh, io avevo soltanto studiato e letto Kafka intorno ai vent’anni, ma non sapevo cosa fosse veramente. Poi, sui trent’anni, ho iniziato a leggerlo di nuovo, e l’ho capito, ne ho sentito realmente la forza e la maestosità. Così ho iniziato a insegnare Kafka, e mi sono avvicinato così tanto alla sua scrittura. E poi sono andato a Praga, la prima volta proprio come una sorta di pellegrino. In seguito ho incontrato gli scrittori. Il mio libro Un professore di desiderio ha una bella scena, in cui uno viene presentato alla prostituta di Kafka, se la ricorda? È una scena molto carina. La donna dice, cito a memoria: “Non mi hai mai picchiato. Perché i ragazzi ebrei non mi picchiano mai?”». 

Come scrittore, in che modo Kafka l’ha influenzata o colpita?  

«L’ossessività, lo scavare in ogni aspetto di una situazione, continuamente rivoltando una situazione. Anche la commedia. E poi la drammatizzazione dell’estrema frustrazione, dell’estremo intrappolamento. Tutto ciò mi ha “parlato”. Non scrivo come Kafka, ovviamente… E la mente che si intravede, la mente dietro tutto ciò. È interessante, la sua mente è nascosta, è nascosta, ma è lì». 

Ho notato che la sua prima dedica in «Goodbye, Columbus» è rivolta a sua madre e suo padre. Nella sua introduzione al suo ultimo libro di saggi, lei sottolinea la frase di Edna O’Brien, «Le influenze determinanti su di lui sono i suoi genitori».  

«Sa, i miei genitori sono stati molto importanti per me, perché erano così buoni, e hanno cresciuto mio fratello e me con tanto affetto. Ma anche la comunità in cui sono cresciuto, quel grosso quartiere ebraico, è stato per me come un genitore di più ampie dimensioni. Poiché erano tutti ebrei, c’erano alcune famiglie non ebraiche, ma non molte. E davvero noi ci sentivamo così al sicuro. Durante la guerra, l’America non era in pericolo, ma avevamo assorbito la guerra, e il quartiere era così sicuro. E sapevamo anche dell’antisemitismo, perché negli Anni 20 e 30 gli Stati Uniti erano un Paese molto antisemita. E poi ovviamente sapevamo di Hitler; quindi sapevamo che c’erano posti dove eravamo disprezzati. Eppure in questo posto noi eravamo amati, c’era una sorta di amore comunitario. Dunque era un posto molto speciale, un posto molto speciale». 

Ho l’impressione che per lei sia stata molto importante la Jewishness, l’ebraicità, non il Judaism, non l’ebraismo come sistema di pensiero, come religione, ma l’ebraicità, l’esperienza di essere ebreo.  

«Sì, potremmo dire l’ebraismo etnico. Certo, perché sono sempre stato consapevole di me stesso come ebreo, anche se non sono mai stato un ebreo osservante. Ho fatto il bar-mitzvah, quella è stata l’ultima volta che sono andato in una sinagoga. La difficile condizione storica degli ebrei mi divenne chiara molto presto. Quindi ne sono stato sempre consapevole. Per quanto riguarda la scelta dei miei personaggi nei miei libri, ho scritto su di loro perché li conoscevo. Ero interessato agli ebrei, ero interessato a queste persone che conoscevo, erano ebrei. E dopo il mio primo libro, dopo Goodbye, Columbus, a parte Lamento di Portnoy, l’intera importanza dell’ebraicità diminuisce. Non è da nessuna parte nella mia trilogia, in Pastorale americana. Certo, lui è ebreo, ma…» 

Ci sono altri libri in cui il tema è estremamente importante. Come in «La controvita», in «Il complotto contro l’America», in «Operazione Shylock»…  

«Non riesco a uscirne!» 

Che mi può dire del grande cambiamento da lei apportato a partire dal 2000 nel modo di elencare i titoli dei suoi libri, nella pagina situata accanto al frontespizio nelle edizioni americane, quando ha cominciato a raggrupparli per gruppi di romanzi e non più in semplice ordine cronologico? Quando e perché ha iniziato a pensare che quello era un nuovo modo di presentare le sue opere?  

«Penso di aver voluto attirare l’attenzione dei lettori sul fatto che alcuni di questi libri sono collegati, non sono semplicemente una lunga lista di libri. E infatti la gente ha cominciato a vedere Zuckerman come un personaggio perché avevo collocato insieme tutti quei libri, e così è stato anche per Kapesh come personaggio. E poi c’erano i “Roth books”, i libri con il personaggio di Roth. Quindi mi è sembrata una buona idea, e penso che in effetti sia stata efficace, ha portato la gente a focalizzare l’attenzione, per quanto si possa indurla a farlo». 

Il primo volume dei Meridiani Mondadori include otto dei suoi romanzi scritti tra il 1959 e il 1986 fino a «La controvita». Personalmente trovo questo romanzo estremamente importante da tutti i punti di vista: per il dibattito, per la struttura…  

«È un buon libro. Qualcosa è mutato, i miei lavori sono cambiati con questo romanzo. Questo è il tipo di perno su cui si cambia, perché qui ho avuto l’idea della complessità e dell’amplificazione. Nei miei primi romanzi, ad eccezione di Lasciar andare che era una creazione giovanile, io condensavo molto. E poi con La controvita mi sono aperto e ho permesso l’ingresso della complessità. E questo ha cambiato tutto ciò che è venuto dopo, fino all’ultimo. Gli ultimi quattro libri sono ridiventati piuttosto semplici».  

Con «La controvita» lei ha esplorato la possibilità di creare delle storie alternative, mostrando come la realtà può prendere delle direzioni diverse.  

«Come di fatto avviene!» 

Sì, come avviene! Anche a seconda delle nostre scelte, ma…  

«…ma qualche volta no!» 

(Elèna Mortara, La Stampa 10 maggio 2018)