Lo scrittore americano è mancato nella notte all’età di 85 anni. Tra le sue maggiori opere Il lamento di Portnoy e Pastorale Americana.

Philip Roth, un gigante della letteratura contemporanea, tra i maggiori scrittori americani di tutti i tempi, è morto nella notte all’età di 85 anni nella sua casa di Manhattan. È stata una sua cara amica, Judith Thurman, a dare circa un’ora fa la notizia del decesso, avvenuto a causa di una insufficienza cardiaca congestizia. Subito dopo il suo biografo, Blake Bailey, ha scritto su Twitter: “Stanotte è morto Philip Roth, circondato dai suoi amici di una vita che gli hanno voluto molto bene. Un uomo amato e il nostro più grande scrittore vivente”.

Il New York Times ha ricordato Roth come uno scrittore che ha saputo assumere nel corso della sua lunga e prolifica carriera molte sembianze – soprattutto versioni di se stesso – nell’esplorazione di cosa significhi essere un americano, un ebreo, uno scrittore, un uomo. Di certo tra i più importanti romanzieri ebrei di lingua inglese, una tradizione che comprende Saul Bellow, Henry Roth, E. L. Doctorow, Bernard Malamud e Paul Auster. Roth era anche un appassionato studioso di storia americana e del vernacolo americano.

Figlio di una famiglia della piccola borghesia ebraica, Roth era nato il 19 marzo 1933 a Newark, nel New Jersey. In questa città, a cui è sempre rimasto molto legato, ha ambientato alcune delle sue maggiori opere, in particolare il romanzo che a parere di molti è considerato come il suo grande capolavoro: Pastorale americana (del 1997), il libro in cui Roth ha affrontato in maniera più aperta e più in profondità i temi di carattere politico-sociale. Quest’ultima opera è stata anche la prima di una trilogia, a cui seguirono Ho sposato un comunista e La macchia umana.

Ha scritto una trentina di romanzi, l’ultimo dei quali, Nemesi, è stato pubblicato nel 2010. Nel novembre 2012 Roth aveva annunciato di voler smettere di scrivere. Il suo romanzo d’esordio, nel 1959, è stato Addio, Columbus, la storia d’amore tra due ventenni in cui compaiono i temi che in seguito faranno da sfondo a gran parte della sua produzione letteraria: il sesso, l’amore, la religione, le profonde contraddizioni e ipocrisie che caratterizzano da sempre la società americana. “Lo scrittore americano che cerchi di capire, descrivere, e rendere credibile la realtà americana della metà del XX secolo, ha davanti a sé un compito insormontabile. Questa realtà lascia sbalorditi, dà la nausea, fa infuriare, e per finire mette non poco in imbarazzo la nostra misera immaginazione. L’attualità non fa che superare il nostro talento, e quasi ogni giorno tira fuori figure che farebbero l’invidia di qualunque romanziere” – ha detto di recente in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera a questo riguardo.

Ha dovuto però attendere circa 10 anni per avere la vera consacrazione, grazie al Lamento di Portnoy (del 1969), la storia dell’adolescente Alexander Portnoy, che ripercorre con l’analista la propria esistenza, a partire dalla famiglia ebraica. Quel che gli interessa più di tutto è il sesso: dopo un’adolescenza trascorsa chiuso in bagno, Alex si butta in una storia dietro l’altra, sempre con ragazze non ebree, quasi che penetrandole potesse penetrarne anche l’ambiente sociale. “Pagine intense e incisive, scene comiche e satiriche, linguaggio e immagini incredibilmente audaci… Una fetta indimenticabile di vita americana contemporanea” – ha scritto a proposito di questo libro Fernanda Pivano.

Nel corso della sua carriera ha ricevuto un’infinità di riconoscimenti letterari, a cominciare dal Premio Pulitzer nel 1998 per Pastorale Americana, ma rimane un mistero il motivo per cui non abbia mai ottenuto il Nobel per la letteratura, nonostante il suo nome sia stato fatto in varie occasioni come possibile vincitore.

(com.unica, 23 maggio 2018)