L’analisi dello studioso dell’Università di Berkeley Barry Eichengreen

LONDRA – La Cina diventerà presto la prima potenza economica e geopolitica del mondo? Ha già raggiunto questo status, come suppongono alcuni? E se la risposta a entrambe le domande fosse sì, quali sono le implicazioni globali per il futuro della democrazia?

Gli indicatori dell’ascesa cinese sono chiari. La Cina è destinata a sorpassare gli Stati Uniti in termini di Pil aggregato entro due decenni, anche se prevedere esattamente quando dipende dal tipo di valutazioni sui tassi di crescita delle due economie e dal tasso di cambio utilizzato per convertire il renminbi in dollari. La Cina è già la prima economia commerciale del mondo, e la sua spinta ad internazionalizzare il renminbi si è tradotta in una fetta crescente di quegli scambi commerciali gestiti nella sua valuta, mettendo potenzialmente a rischio la posizione del dollaro come primaria valuta globale.

Inoltre, la Cina sta pompando investimenti esteri nelle economie dell’Africa e dell’Sud asiatico, ottenendo basi militari e altri vantaggi geostrategici in cambio dai suoi partner commerciali fortemente indebitati. La sua iniziativa BRI (Belt and Road Initiative) sta ulteriormente alimentando gli investimenti della Cina verso l’esterno e sta rafforzando i suoi legami economici con paesi di tutto lo spettro eurasiatico.

E poi c’è il soft power della Cina: programmi scolastici, scambi culturali, mostre nei musei e progetti Unesco.

Questa crescente influenza geostrategica, il soft power in ascesa e, soprattutto, il continuo successo economico suggeriscono che altri paesi vedranno la Cina come un modello da emulare. Saranno attratti dal suo modello politico, che evita il caos della democrazia occidentale a favore di un controllo amministrativo centralizzato. Le attrattive sono tanto più allettanti rispetto allo scenario dell’amministrazione Trump e del suo incoerente approccio al governo, ai rocamboleschi sforzi dei Tories britannici per gestire la Brexit e all’incapacità dell’Italia di formare un governo, e questi sono solo tre esempi di confusione democratica.

Invece, maggiore è la forza, la prosperità e la stabilità creata dalla Cina, maggiore l’appeal del suo modello autoritario. Gli osservatori dei paesi emergenti e in via di sviluppo fanno notare che le decisioni sono costose da raggiungere e difficili da sostenere nei sistemi democratici. Sia il processo che i risultati sono inaffidabili. L’approccio della Cina, che ha fornito beni per due generazioni ora, ha più seguaci, soprattutto dalla prospettiva dei paesi poveri dove la crescita sostenuta è la priorità.

Ciò rende inevitabile, a quanto si dice, che sempre più paesi emulino la governance cinese. E questa osservazione fa sorgere seri dubbi sul futuro della democrazia.

Ma questa previsione fiduciosa ignora un punto chiave. La democrazia sarà anche confusa, ma prevede un meccanismo integrato di correzione di rotta. Quando la politica va storta, gli autori dell’errore possono essere, come spesso accade, mandati a casa o sostituiti, per lo meno in linea di principio, da più rivali concorrenti. 

Un regime autoritario non dispone di un meccanismo di aggiustamento automatico di questo genere. I leader autocratici non rinunceranno facilmente al potere, e potrebbero decidere, nella loro convinzione, di insistere con le politiche fallimentari. Non esiste alcun modo di spingerli a fare diversamente. Solo una rivolta popolare, come il movimento Solidarność in Polonia o la rivolta della nomenklatura in Unione Sovietica possono forzare la mano. Ma questo solitamente avviene solo quando deve essere interrotto un prolungato stallo politico – che spesso avviene a caro prezzo in termini di violenza pubblica e vite spezzate.

Inoltre, l’idea che i leader cinesi continuino ad evitare gravi errori politici all’infinito, e che la loro capacità di gestire la crisi non sarà mai messa a dura prova è, ovviamente, pura fantasia. Un qualsiasi shock – il fallimento di una multinazionale fortemente indebitata, rivelazioni dei problemi nascosti negli istituti finanziari cinesi, un’impennata dei prezzi energetici mondiali o un grave evento geopolitico – potrebbero far capitolare la crescita. L’apertura dei mercati finanziari cinesi aumenta l’esposizione dell’economia ai flussi di capitali volatili ed amplia la portata della fuga dei capitali. E la Cina, vicina com’è alla Corea del Nord, non si trova in un buon vicinato geopolitico.

In poche parole, potrebbe succedere qualsiasi cosa, e se i leader cinesi non riusciranno a gestire la situazione quando accadrà, i cittadini potrebbero rivoltarsi contro. In che modo il regime risponderà in quel caso solo la storia potrà dirlo. E potrebbe essere una storia – avete presente “piazza Tiananmen”? – che nessun governo intende replicare in casa.

La Cina sta chiaramente emergendo come potenza mondiale, anche con una maggiore rapidità di quanto sarebbe diversamente possibile, nella misura in cui gli Stati Uniti vengono ora visti come partner inaffidabile esclusivamente concentrato sui propri interessi – a scapito, se necessario, di altri paesi. Ma credere che la Cina continui a crescere a tassi ad una cifra in fascia media per un periodo prolungato viola la prima regola delle previsioni: non estrapolare il presente nel futuro. A un certo punto, la Cina troverà delle asperità nella strada, e non vi è alcuna garanzia che i leader ammettano i propri fallimenti e aggiustino la politica di conseguenza.

A quel punto, il modello cinese di forte controllo politico sembrerà meno allettante agli occhi degli altri paesi, soprattutto se il regime reprimerà duramente la società civile. La democrazia allora potrebbe avere un futuro dopo tutto.

Barry Eichengreen*, Project-syndicate maggio 2018

*Barry Eichengreen è professore di Economia all’Università della California di Berkeley ed è stato in passato consulente presso il Fondo Monetario Internazionale. Tra le sue opere ricordiamo La nascita dell’economia europea. Dalla svolta del 1945 alla sfida dell’innovazione (Il Saggiatore).