Vivian Maier è stata una fotografa americana. Sconosciuta ai più, ha sempre vissuto facendo la governante, la tata.

Nacque a New York nel 1926 da padre americano di origini austriache e madre francese. Aveva un fratello di poco più grande, Charles. Quando era molto piccola i genitori si separarono, il fratello fu affidato ai nonni e lei si rifugiò con sua madre a casa di un’amica francese che viveva nel Bronx, Jeanne Bertrand. Jeanne era una fotografa professionista tanto che nel 1902 il Boston Globe, il principale giornale di Boston, pubblicò una sua foto e due ritratti, insieme a un articolo che ne elogiava il talento fotografico. Fu lei che trasmise a Vivian la passione per laf otografia.

La vita di Vivian Maier è stata ricostruita da John Maloof, un giovane americano, figlio di un rigattiere. Nel 2007 Maloof stava facendo una ricerca sulla città di Chicago e in mancanza di materiale iconografico acquistò ad un’asta, per soli 380 dollari, il contenuto di un box espropriato ad una donna che non ne pagava più gli affitti. Nel box c’era di tutto, un campionario di cianfrusaglie e altri oggetti inutili, accumulati nel corso di una vita: biglietti degli autobus, sacchetti con denti e con capelli, ricevute di ogni tipo, assegni mai riscossi, ritagli di giornali, pile di quotidiani che andavano dal pavimento al soffitto. Nonché del materiale fotografico e una cassa con centinaia di negativi e rullini non ancora sviluppati. Fece delle indagini su questa donna misteriosa, scoprì che si chiamava Vivian Maier, che aveva lavorato tutta la vita come bambinaia a Chicago e che nel tempo libero faceva la fotografa: era soprattutto una “street photographer”, una fotografa di strada, ritraeva scene di vita quotidiana nelle città, con i suoi abitanti, i bambini, i lavoratori, le persone di buona società e i personaggi famosi, ma anche con i suoi mendicanti e gli emarginati, cogliendo l’essenza più profonda e intima di ogni scorcio, di ogni persona. Scattò numerosi autoritratti nei quali c’era sempre una particolarità: non guardava mai direttamente l’obiettivo ed un elemento “disturbava” l’immagine, un colpo di luce, un riflesso in un vetro o in uno specchio, un gioco di ombre.

Era una donna molto sola e non condivise mai con nessuno questa sua passione. Le fotografie erano una sua creatura, il suo unico contatto con il mondo. Le fotografie migliori risalgono al periodo in cui fu assunta dalla famiglia Gensburg, a Chicago, per prendersi cura dei loro tre ragazzi: John, Lane e Matthew. Aveva trent’anni e rimase con loro per ben diciassette anni. Nella loro casa aveva una stanza tutta per sé, che ottenne di chiudere a chiave, e un bagno privato in cui allestì la sua camera oscura. Vivian Maier utilizzava per scattare le sue immagini una fotocamera Rolleiflex professionale, quadrata, con mirino dall’alto, e in seguito un apparecchio Leica. Mentre era ancora in servizio dai Gensburg, partì per sei mesi, a cavallo tra il 1959 e il 1960, compiendo un viaggio in solitaria durante il quale visitò le Filippine, la Thailandia, l’India, lo Yemen, l’Egitto, l’Italia, la Francia, scattando numerose fotografie. Diventati grandi John, Lane e Matthew, i Gensburg non ebbero più bisogno di una tata e Vivian Maier li lasciò per continuare la sua attività presso altre famiglie con bambini piccoli. Da quel momento, che segnò lo spartiacque nella sua vita, Vivian smise di sviluppare e di elaborare i suoi negativi e passò alla fotografia a colori. Nel 1975, quando Vivian aveva 49 anni, morì sua madre. Si ritrovò quindi sola. Non si sa cosa ne fosse stato del fratello Charles, ma molte cose fanno supporre che fosse internato in una casa di cura, forse un istituto psichiatrico. Continuò a scattare fotografie e a guadagnarsi da vivere come bambinaia.

Nel tempo però il rapporto con le famiglie presso cui lavora si incrinò, gli stessi bambini raccontavano storie particolari su di lei, segno di un cambiamento interiore che si riflesse anche sulle sue opere. Smise di fare la bambinaia e lavorò come badante, ma raccontano di lei che assumesse dei comportamenti particolari, una sorta di eccentricità che si andava trasformando pian piano in bizzarria. Negli ultimi anni della sua vita abbandonò la fotografia. La salute malconcia non le permetteva di lavorare e si ritrovò in pesanti ristrettezze economiche. Vennero in suo aiuto i fratelli Gensburg, che aveva accudito quando erano bambini e con i quali era rimasta in contatto, che le affittarono un appartamento dignitoso a New York. Purtroppo la sua mente iniziò a vacillare in maniera importante: si aggirava nel quartiere in stato confusionale, rovistava nei cassonetti, imprecava senza un motivo, oppure sedeva per ore su una panchina con lo sguardo perso nel vuoto. Un giorno d’inverno, sul finire del 2008, scivolò sul ghiaccio battendo rovinosamente la testa, allora la trasferirono in una clinica, dove purtroppo non riprese più conoscenza. Morì il 21 aprile 2009, all’età di 83 anni. I fratelli Gensburg, come ultimo gesto d’amore nei confronti di questa donna che si era presa cura di loro, la fecero cremare e sparsero le sue ceneri in un boschetto di fragole, dove giocavano quando erano bambini.

Vivian Maier è un personaggio ancora tutto da scoprire. Solitaria, dal carattere difficile, volitiva, forte, eccentrica. Era una donna molto alta, oltre il metro e ottanta, dalla figura imponente. Vestiva con camicie dal taglio maschile, che la facevano rassomigliare ad un’operaia dell’Unione Sovietica. Con scarpe grosse e pesanti, e cappotti oversize sormontati da cappelli di feltro. Odiava gli uomini, ne era persino terrorizzata. La sua femminilità era come smorzata e si teneva al riparo dal mondo, vivendo una vita ordinaria e per molti versi incerta. Il suo unico contatto con l’esterno era la fotografia, come mezzo di transizione che le consentiva di avvicinarsi a quei “non luoghi”, asettici e lontani, popolati da una folla anonima e distante. Una donna sola, con un senso di identità precario, sicuramente affetta da un disturbo di accumulo.

Di lei non avremmo mai saputo nulla se di fatto John Maloof non avesse messo le mani su quello che può essere considerato un vero e proprio tesoro fotografico del secondo Novecento. Vivian Maier aveva un talento straordinario, passò la sua vita prima con la Rolleiflex poggiata sul ventre e poi con la Leica davanti agli occhi: la prima street-photographer che raccontava con le sue foto la vita della metropoli, le luci dei quartieri alti, le ombre dei vicoli più miseri. Sempre con tagli obliqui e con uso sapiente della fotocamera. Dal momento della sua scoperta, Maloof ha svolto una grande attività di divulgazione della sua opera fotografica, organizzando mostre itineranti in tutto il mondo. Vivian Maier, il suo lavoro, la sua vita piena di angoli oscuri, sono stati oggetto di numerosi libri e documentari. “Non si limitava a fotografare, voleva scoprire quanto ci si può avvicinare al volto di qualcuno” (anonimo).

(Nadia Loreti/com.unica 20 aprile 2018)