[ACCADDE OGGI]

“Ogni vita umana è sacra – ha detto Papa Francesco visitando gli Stati Uniti d’America – e …. Recentemente i miei fratelli vescovi qui negli Stati Uniti hanno rinnovato il loro appello per l’abolizione della pena di morte. Io non solo li appoggio, ma offro anche sostegno a tutti coloro che sono convinti che una giusta e necessaria punizione non deve mai escludere la dimensione della speranza e l’obiettivo della riabilitazione”. Ora si sa che lungo il suo millenario cammino la Chiesa di Roma ha molte volte cambiato idea e qualche volta ha anche chiesto scusa per atteggiamenti non proprio edificanti e cristiani tenuti nel passato. Nessuna scusa è pervenuta per le oltre cinquecento vite “umane sacre” maciullate da Giovanni Battista Bugatti, per tutti Mastro Titta, il boia del Papa chiamato da Pio VI a questo triste compito il 22 marzo 1796.

In quasi settant’anni di servizio, Mastro Titta servì ben sette Papi e, con puntuale annotazione nel suo taccuino, uccise nei modi più atroci possibili 516 vite. Certo la Chiesa segue, insegue e a volte previene la storia degli uomini e perciò va ricordato che in quell’epoca l’esecuzione capitale avveniva in piazza, era spettacolarizzata, e, non di rado, erano costretti ad assistervi i bambini che a suon di schiaffi paterni erano invitati a prendere atto di quello che poteva accadere se non si seguiva la retta via. Ma come era possibile allora e come resta possibile oggi intraprendere un mestiere così infame come quello di boia? Come già ricordato, all’epoca di Mastro Titta “er boja de Roma” la cosa poteva apparire meno imbarazzante considerata la presunta morale che sottendeva ogni esecuzione nell’ammessa pena capitale, ma pur sempre un carnefice si era come lo stesso Giovanni Battista Bugatti ammette nelle sue “memorie di un carnefice” scritto una volta raggiunta la pensione per volere di Papa Pio IX che gli concesse 30 scudi di vitalizio.

Un boia, un carnefice, che molti incredibilmente descrivono come uomo mite, che quando era libero dal gravoso impegno di impiccare, squartare e tagliare la testa dei condannati, vendeva gli ombrelli per campare. Mastro Titta per darsi autorità si ammantava di un mantello rosso quando, lasciati gli ombrelli, prendeva le funi, i coltelli e l’ascia e, forte delle parole di sant’Agostino “…non vi è contrarietà nei confronti del comandamento “Non uccidere” per quanti rappresentano l’autorità dello stato e mettono a morte i criminali…”, andava ad impiccare, a decapitare e a squartare quanti erano incappati nelle sentenze di morte pronunciate nel nome di Papa Re. Così fece anche l’ultima volta a Palestrina il 9 luglio 1870, due mesi prima della caduta di Roma, ghigliottinando l’omicida Agatino Bellomo.

Quanti Mastro Titta ci sono oggi nel mondo? Tanti, tantissimi. Non vestono più quel mantello rosso, non vendono ombrelli per campare ma pur sempre si sentono investiti da quella autorità dello stato che mette a morte i criminali. Alcuni lo fanno con i sistemi che la tecnica e la scienza moderna mette a loro disposizione, nascosti dietro gabbie di vetro da dove muovono le leve che danno l’elettricità, il gas o le iniezioni letali per uccidere. Altri si nascondono tra i numeri dei plotoni di esecuzione che sparano ai condannati. Altri ancora sparano alla nuca dei “giustiziati” incappucciati perché non vedano. Resiste purtroppo, e si rifiuta di andare in pensione, una larga parte di quanti invocando la maestà di Dio danno la morte sgozzando e decapitando.

(Franco Seccia/com.unica, 22 marzo 2020)