L’editoriale del direttore de La Stampa Maurizio Molinari dedicato a Putin, il despota che l’Occidente rischia di sottovalutare.

Leader incontrastato in patria, spietato contro gli avversari interni ed abile stratega nel portare scompiglio in Occidente, Vladimir Putin affronta oggi le urne sicuro di una rielezione alla presidenza che lo proietta nella sfida più difficile: riassegnare alla Russia un ruolo stabile di potenza globale. Aver indetto le elezioni il 18 marzo, quarto anniversario dell’annessione della Crimea strappata all’Ucraina, serve a celebrare la rinascita dell’orgoglio nazionalista russo che ha finora distinto la sua presidenza. Arrivato al Cremlino nel 2000, ereditando da Boris Eltsin una Federazione russa assediata dall’allargamento della Nato ad Est e umiliata dagli interventi militari guidati dagli Usa nel Golfo e nei Balcani, Putin è riuscito in questi 18 anni – complice la breve stagione del fidato Dmitry Medvedev al Cremlino – a sorprendere più volte l’Occidente fino a metterlo sulla difensiva.

Gli interventi militari in Georgia, Ucraina e Siria, la corsa al riarmo convenzionale e nucleare, la «guerra ibrida» teorizzata da Valery Gerasimov e le incursioni nel cyberspazio per indebolire dal di dentro un Occidente segnato dalle crisi, hanno consentito alla Russia di riacquistare terreno strategico in Europa, Medio Oriente ed Africa durante la presidenza Obama e di conservarlo durante quella di Donald Trump. A dispetto delle sanzioni economiche Usa-Ue e di crisi aspre come quella in corso con la Gran Bretagna sul possibile uso di gas nervino per uccidere un’ex spia assai scomoda.

Tali e tanti risultati hanno trasformato Putin nel protagonista del riscatto russo dallo smacco della Guerra Fredda, nel leader più temuto e osteggiato, ammirato e corteggiato sulla scena internazionale. Ma è lui per primo a rendersi conto che si tratta di un risultato parziale perché la sua Russia è un gigante vulnerabile. Un Pil inferiore a quello dell’Italia, la popolazione in costante calo demografico e l’assenza di leader digitali paragonabili ad Amazon o Alibaba, descrivono una fragilità interna che costituisce il primo e più serio ostacolo per il Putin rieletto. Sicuro di restare al Cremlino almeno fino al 2024 – diventando il leader russo più longevo dai tempi di Josif Stalin – Putin deve riuscire a pianificare il dopo-Putin ovvero far crescere la propria nazione per consentirle di affrontare le sfide del nuovo secolo. Qualche accenno in proposito lo ha già fatto negli ultimi tempi, indicando nell’intelligenza artificiale «il terreno decisivo per la leadership del futuro» e guardando ai «siloviki» – l’establishment della sicurezza – in cerca della necessaria capacità di produrre innovazione tecnologica nei settori più diversi. Volersi distinguere in maniera decisiva dagli altri leader dell’Urss-Russia, per Putin significa riuscire dove fallirono Leonid Breznev e Mikhail Gorbaciov: avere degli eredi capaci di affrontare, e vincere, le sfide della generazione successiva.

Per questo a Mosca c’è chi assicura che Putin, affrontando una sorta di sfida personale con la Storia russa post-rivoluzionaria, non vorrà solo crearsi uno status ad hoc nel lungo termine – dal precedente cinese di Xi Jingping titolare di un mandato a vita, a quello turco di Recep Tayyip Erdogan, ideatore di una Costituzione con poteri modellati su se stesso – ma punterà su economia e tecnologie per entrare a testa alta nel duello per la leadership globale che vede al momento due soli contendenti: Stati Uniti e Cina. Insomma, dopo essere riuscito a indebolire l’Occidente grazie alla «guerra ibrida» ed a creare un nuovo legame con Pechino nello scacchiere dell’Eurasia, Putin avrà a disposizione i prossimi sei anni per tentare di sorpassare entrambi lì dove si sentono imbattibili: sulla creazione di prosperità e innovazione. Riuscendo nell’impresa può diventare il modernizzatore della nazione più grande del Pianeta, fallendo rischia invece di finire come l’anziano dittatore africano Mugabe, travolto dalle faide di un potere che lui stesso aveva creato.

Maurizio Molinari, LA STAMPA 18 marzo 2018