La presentazione del libro al Centro Studi Americani di Roma. Una lettura del ventennio mussoliniano da un punto di vista inedito, i casi Hemingway e Scott Fitzgerald.

Roma, febbraio 2018 – La scoperta dell’Italia, il fascismo raccontato dai corrispondenti americani (Marsilio Edizioni) è l’ultima opera del professor Mauro Canali, per la quale lo storico romano è stato insignito pochi giorni fa del Premio FiuggiStoria 2017 per la saggistica. Il libro è stato presentato a Roma nel corso di un incontro pubblico che ha avuto luogo presso il Centro Studi Americani e a cui hanno partecipato, oltre all’autore, Paolo Messa (direttore del Centro), Piero Craveri (presidente della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce), Mario Avagliano (giornalista e storico) e il giornalista del Messaggero Fabio Isman.

Mauro Canali, professore ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Camerino e membro del Comitato scientifico di Rai-Storia, è uno degli studiosi più autorevoli del fascismo, a cui ha iniziato a dedicarsi in giovane età sotto la guida del suo maestro Renzo De Felice. Ha concentrato in particolare le sue ricerche sulla struttura totalitaria e sui meccanismi informativi e repressivi del regime mussoliniano. Questo bel saggio, che si legge come un romanzo molto avvincente, nasce – come lo stesso autore ha spiegato nel corso della presentazione – soprattutto dalla necessità di scoprire e chiarire sotto quale luce il regime fascista apparisse agli occhi di un paese estraneo all’Italia come gli Stati Uniti, e come venisse descritto ai suoi lettori. Un punto di vista quindi inedito per ripercorrere le vicende di quegli anni, in grado di offrirci al tempo stesso uno spaccato molto interessante della società del ventennio fascista.

Si tratta di un lavoro che ha richiesto una lunga e meticolosa ricerca attraverso le fonti più disparate, tra cui gli archivi privati di molti corrispondenti che spesso lasciavano ai posteri dei diari e appunti legati a quel periodo storico. Rispetto ad altri testi che hanno analizzato il tema del rapporto tra gli Stati Uniti e Mussolini – a cominciare da quello dello storico californiano John Diggins (L’America, Mussolini e il fascismo, Laterza 1972) – Canali ha voluto indagare più in profondità per scoprire fino a che punto certe prese di posizione nei confronti del fascismo fossero condizionate dalle pressioni (che spesso sfociavano in ricatti e minacce) e in veri e propri tentativi di corruzione che il regime esercitava nei confronti degli inviati esteri.

Il libro mostra come nel primo periodo il fascismo venisse visto generalmente di buon occhio da parte della stampa americana. Si trattava di un giudizio che, prima ancora dell’avvento al potere di Benito Mussolini, risentiva del bagaglio di esperienze legato alla fase turbolenta post-bellica in cui si trovavano gli Stati Uniti, e del fatto che questi inviati avessero nella maggior parte dei casi una conoscenza molto superficiale della storia e della politica italiana, frutto essenzialmente di pregiudizi e di stereotipi. Il Duce era ritenuto l’artefice di una rivoluzione “bella e giovane” e veniva dipinto come l’unico credibile baluardo nei confronti del pericolo bolscevico: negli Stati Uniti infatti si avvertiva un forte allarme per quelle manifestazioni di grande conflittualità sociale che ebbero luogo in Italia nel cosiddetto “biennio rosso”, poi culminate con l’occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920.

Il fascismo rappresentava quindi per molti di questi corrispondenti americani una risposta efficace in quanto aveva saputo mettere a tacere i sindacati e le lotte di classe, garantendo una pax sociale fatta di ordine e disciplina. Una soluzione certo non esportabile negli Stati Uniti ma che a loro avviso si adattava bene all’Italia, che inquadravano come un paese un po’ anarcoide e tendenzialmente refrattario all’ordine costituito. Tra questi giornalisti Canali cita ad esempio Kenneth Roberts, inviato del “Saturday Evening Post” e autore del romanzo storico Passaggio a nord-ovest, che dopo aver denunciato il pericolo comunista, esaltò il fascismo come un movimento necessario per impedire che l’Italia precipitasse “in un turbine caotico di comunismo e di disastri finanziari”. Un altro corrispondente, Isaaac Marcosson, definì Mussolini addirittura “Il Theodore Roosevelt latino”, così come Lincoln Steffens del “New York American”, che arrivò a scrivere frasi apologetiche come questa: “Immaginate un Theodore Roosevelt consapevole, mentre governava, del posto che avrebbe occupato nella storia degli Stati Uniti, e avrete l’immagine di Benito Mussolini in Italia”. E poi ancora Walter Lippmann, vincitore di due premi Pulitzer e molto noto nella comunità degli italo-americani; e Anne O’Hare McCormick, autrice di molti reportage più che lusinghieri nei confronti del fascismo per il supplemento domenicale del “New York Times”, autentico megafono della propaganda del regime mussoliniano in America.

Un momento della presentazione. Da sinistra Piero Craveri, Mauro Canali, Fabio Isman e Mario Avagliano

Ma tra questi corrispondenti vi era chi aveva maturato riguardo al Duce un’opinione del tutto opposta. Ci riferiamo in particolare a mostri sacri della letteratura del Novecento come Francis Scott Fitzgerald e Ernest Hemingway. In particolare Fitzgerald, che trascorse cinque mesi a Roma nel 1924 insieme alla moglie Zelda, capì subito che il fascismo si presentava con il volto del vecchio autoritarismo e in riferimento ad esso parlava senza mezzi termini di “spasmi di un cadavere”, invitando i suoi lettori a non lasciarsi ingannare dal suo dinamismo apparente. In seguito sarà costretto ad andarsene e a non mettere più piede in Italia perché fermato dalla polizia, malmenato e portato in prigione per qualche ora: racconterà questa sua brutta esperienza in uno dei suoi più celebri capolavori, Tenera è la notte.

Il caso di Hemingway è diverso: inizialmente sembrava attratto da Mussolini, che apprezzava soprattutto per le sue qualità di patriota combattente, ritenendo legittima la reazione del fascismo contro la minaccia di una trionfante rivoluzione bolscevica. Lo incontrò per la prima volta a Milano e lo descrisse sul “Toronto Daily Star” come “un uomo grande, dalla faccia scura con una fronte alta, una bocca lenta nel sorriso, e mani grandi ed espressive”. Poi solo sei mesi dopo il giudizio di Hemingway cambiò radicalmente. Nel gennaio del 1923, in un articolo pubblicato dopo aver incontrato Mussolini a Losanna in occasione del meeting internazionale che avrebbe dovuto regolare i rapporti tra la nuova Turchia di Atatürk e le potenze uscite vittoriose dalla guerra, si lascerà andare a una critica molto feroce nei confronti del duce: arriverà a definirlo “il più grande bluff d’Europa”, come uno che ha del “genio nel rivestire piccole idee con paroloni”; aggiungerà inoltre di non sapere se e quanto questo bluff potrà durare: se quindici anni o se verrà rovesciato al più presto. E racconterà un episodio a dir poco grottesco: appena entrato nel salone dove si svolgeva la conferenza stampa vide Mussolini seduto alla scrivania mostrandosi molto concentrato come per darsi delle arie da grande intellettuale “intento a leggere un libro con il famoso cipiglio sul volto”. Hemingway si avvicinò e sbirciando alle sue spalle scoprì “che si trattava di un dizionario francese-inglese, tenuto al rovescio”. Dopo aver letto quell’articolo Mussolini gli giurò che non lo avrebbe più fatto tornare in Italia. Canali svela anche che anni dopo, nel pieno della guerra di Spagna, dopo che sulla stampa americana erano apparse alcune sue corrispondenze da Tarragona fortemente critiche nei confronti degli italiani impegnati a combattere a fianco delle truppe franchiste, dei personaggi che gravitavano intorno al consolato italiano di New York avevano studiato un piano di aggressione fisica ai suoi danni.

Quest’ultimo episodio è rivelatore dell’opera sistematica di controllo che il regime esercitava nei confronti della stampa, sia attraverso tentativi di corruzione sia, come nel caso di Hemingway, per mezzo di veri e propri atti di intimidazione. E questo spiega il motivo per cui solo pochi coraggiosi inviati americani si fossero esposti fino denunciare il carattere repressivo e autoritario del regime e la presenza sempre più asfissiante del famigerato apparato poliziesco dell’Ovra nella vita quotidiana. Un apparato che già a metà degli anni Trenta sarà particolarmente raffinato e in grado di controllare la vita dei cittadini (e quindi anche degli inviati esteri) in maniera spietata e relativamente facile. I lettori americani furono così per tanti anni di fatto ingannati dai loro corrispondenti: nei direttori e negli editori delle principali testate prevalse la prudenza nel raccontare le vicende del regime, anche per evitare i costi delle inevitabili espulsioni dei loro corrispondenti. Persino dopo il delitto Matteotti i grandi giornali americani si mostrarono sostanzialmente allineati e non fecero altro che riportare le veline dell’ufficio stampa di Mussolini, quindi la versione secondo cui il deputato socialista sarebbe stato ucciso da alcune frange estremiste di fascisti fuori controllo. Il solo inviato che ebbe il coraggio di indagare sul caso fu il corrispondente del “Chicago Tribune” George Seldes, che infatti fu per questo motivo cacciato brutalmente dall’Italia.

L’idillio con il fascismo comincerà a tramontare con la guerra di Etiopia (tra il 1935 e il 1936) e in seguito con la guerra civile spagnola (1936-1939), la promulgazione delle leggi antisemite nel 1938 e il progressivo avvicinamento alla Germania nazista. Fu a quel punto che il presidente americano Frank Delano Roosevelt, che pure in passato aveva manifestato apprezzamento verso le riforme sociali fasciste legate allo stato corporativo, capì di avere a che fare con un personaggio del tutto inaffidabile e con cui non si poteva avere nulla a che spartire.

La stampa americana si pose quindi sulla stessa lunghezza d’onda del capo della Casa Bianca, assumendo finalmente una posizione non più indulgente nei confronti del fascismo, fino a denunciarne il carattere totalitario. Ci fu così un inasprimento del metodo repressivo e fioccarono inevitabilmente le espulsioni di molti corrispondenti in Italia. Tra le prime testate ad adeguarsi vi fu il “New York Times” con la sostituzione del fascistissimo Arnaldo Cortesi con Herbert Matthews, reduce dalla guerra civile spagnola e convertito all’antifascismo. Tuttavia non sarà facile giustificare questo repentino cambio di rotta. Gli articoli di Matthews erano sottoposti come quelli di tutti gli altri corrispondenti alla censura preventiva ma l’inviato del giornale newyorkese non rinuncerà a pubblicarli lasciando gli spazi bianchi che coincidevano con i tagli che venivano operati dagli uomini del regime.

Sebastiano Catte, com.unica 21 febbraio 2018